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Ex Ilva di Taranto, Marescotti di Peacelink: “Sta andando verso la chiusura”

ex ilva taranto

Alessandro Marescotti di Peacelink ha pochi dubbi: il destino dell’acciaieria ex Ilva di Taranto è la chiusura. Nessuno gruppo industriale, sostiene, può permettersi le perdite dello stabilimento. E nessun gruppo industriale, dopo il fallimento di ArcelorMittal, è in grado di fare la sola cosa che andrebbe fatta: smantellare l’attuale impianto e costruirne uno in grado di produrre facendo profitti e non a discapito dell’ambiente.

L’intervista di Luigi Ambrosio a Malos.

A Taranto si continua a morire di tumore.

Sì, c’è stato un ennesimo decesso e purtroppo è toccato ad un ragazzo uscito dalla mia scuola, l’Istituto Righi, qualche anno fa. È morto di tumore a 23 anni. È l’ennesima vittima di una situazione ambientale che è inaccettabile. E non lo diciamo noi, lo dice una valutazione integrata di impatto ambientale e sanitario. E questa la situazione per cui, lo voglio sottolineare, la dirigenza di ArcelorMittal a mio parere va via da Taranto. Ormai questa fabbrica non è più diretta da ArcelorMittal.

Da chi è diretta?

È diretta da manager italiani, non più dai manager della multinazionale più grande del Mondo.

Sta dicendo che è diretta da commissari?

No, non dai commissari. È diretta da persone che svolgono funzioni manageriali per conto di ArcelorMittal. La struttura commissariale è una struttura che attualmente svolge funzioni di rappresentanza dello Stato. Attualmente si sta defilando la presenza di ArcelorMittal, che si sta preparando ad andare via da Taranto. Questo a mio parere è un dato inequivocabile. ArcelorMittal lascia l’Ilva perché da una parte non ci sono più le condizioni di mercato e dall’altra non ci sono più le condizioni di gestione perché per tutta una serie di ragioni, in particolare quelle ambientali e sanitarie, rischia di finire sotto processo. C’è una pesante situazione dal punto di vista ambientale e sanitario: la valutazione integrata di impatto ambientale e sanitario indica che anche a questo livello ridotto di produzione – 4.7 milioni di tonnellate di acciaio all’anno – c’è un rischio inaccettabile per la salute certificato da esperti.
Noi su questo faremo un’azione molto chiara presso la Procura perché in tutti questi anni a Taranto è stata condotta una produzione considerata pericolosa dagli esperti. E non stiamo parlando di una valutazione rispetto al passato, ma predittiva rispetto al futuro.

Però quando ArcelorMittal ha preso in carico l’Ilva queste cose le sapeva benissimo…

Le sapeva, ma c’era uno scudo penale che la proteggeva. Adesso questo scudo penale non c’è più per almeno due motivi. Il primo è perché il gip a Taranto aveva sottoposto la questione alla Corte Costituzionale e si era in attesa di un giudizio che poteva essere diverso da quello espresso nel 2013. E questa spada di Damocle pendeva sull’intera vicenda.
In secondo luogo, e questo è l’aspetto di grande novità, c’è la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha condannato l’Italia per non aver protetto i cittadini di Taranto e considerato lo Stato italiano inadempiente. E da questo punto di vista inizierà a marzo 2020 la fase di monitoraggio dell’applicazione di questa sentenza. È una situazione estremamente pesante e di grande incertezza quella che c’è Taranto. Da una parte ArcelorMittal va via con la sua dirigenza e dall’altra parte non si poteva mantenere lo scudo penale: quando ArcelorMittal è venuta Taranto non si erano palesati all’orizzonte tutti questi elementi.

Cosa dovrebbe fare lo Stato per tenere fede alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo?

La prima cosa che doveva fare, lo diceva la stessa Corte di Strasburgo, era togliere l’immunità penale. E, in un certo senso, se c’è stato un restringimento del perimetro di azione dello scudo penale è perché c’era anche questa richiesta fatta dai giudici di Strasburgo. E adesso comincia la fase di monitoraggio. Lo Stato italiano presenterà le sue memorie, noi come cittadini, con lo studio legale a cui facciamo riferimento, presenteremo le nostre memorie e sarà battaglia legale.

Voi cosa chiedete?

Noi chiediamo che l’Ilva non produca più in queste condizioni che mettono a rischio la salute.

Questo vuol dire chiuderla?

Questo vuol dire che nelle attuali condizioni l’Ilva mettere a rischio la salute in maniera inaccettabile. Non stiamo parlando di chiuderla, ma che fino a che sarà offensiva e pericolosa per la salute non potrà produrre. Se un domani dovessero dotarla di tecnologie non offensive per la salute non ci sarà nessuno pregiudizio da parte nostra né da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In queste condizioni la produzione è pericolosa e deve fermarsi.

Di tutto questo però non c’è nulla all’orizzonte. Chi potrebbe investire a Taranto per una trasformazione radicale?

Nessuno. Lo voglio sottolineare con la massima precisione: se non ci è riuscita la più grande multinazionale al Mondo non credo che possa esserci un peso piuma in grado di cambiare la situazione. Non è possibile.

Dei nomi alternativi sono circolati.

Stiamo parlando soltanto di un tentativo di prendere tempo. La carta ArcelorMittal era la carta più importante di tutti. Stiamo parlando della più grande multinazionale del Mondo in campo siderurgico. Se la più grande multinazionale del Mondo in campo siderurgico è venuta a Taranto e non è riuscita a fare profitti, anzi avrebbe perso un miliardo di euro in questa situazione, è chiaro che nessun altro attore dotato di buon senso è in grado di venire a Taranto, prendere questa fabbrica e riportarla ai vecchi tempi in cui produceva profitti.
Stiamo parlando di una fabbrica che ha una caratteristica particolare: se non produce almeno 7 milioni di tonnellate all’anno di acciaio non va in pareggio. Se la richiesta di acciaio è depressa, come in questi ultimi anni, questa è una fabbrica che non produce profitti, ma perdite.

Fatte queste premesse, però, l’Ilva dovrebbe chiudere e basta.

Sì, alla fine il ragionamento porta a questa conclusione. È una conclusione complicata, ma le migliaia di posti di lavoro che si perderanno non vengono tutelati con una strategia fallimentare del governo che si protrae da anni e che consiste nel mantenere in vita un’attività economica in coma. Il 26 febbraio a Taranto ci sarà una fiaccolata per le vittime dell’inquinamento, una fiaccolata che ricorderà che a Taranto si sta portando avanti un’attività economica in perdita e si sta protraendo un disastro ambientale che ha provocato e continua a provocare vittime. Quando si procura un danno agli altri senza procurare un vantaggio a sé stessi siamo nel pieno della terza della stupidità del professor Cipolla.

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    Referendum 8 e 9 giugno, lavoro e cittadinanza. Una quarantina di personalità della ricerca e dell’università hanno lanciato un appello al voto per i cinque referendum. I quesiti chiedono di: «Vivere da cittadini», riducendo da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale in Italia richiesto per ottenere la cittadinanza italiana ai maggiorenni stranieri; «Vivere vite meno precarie», riducendo la possibilità di usare contratti di lavoro a tempo determinato; «Lavorare senza licenziamenti illegittimi», riducendo le possibilità di licenziamenti senza giusta causa; «Lavorare senza discriminazioni», riducendo le possibilità di licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese; «Lavorare senza infortuni», riducendo i rischi di incidenti e morti sul lavoro. Ospiti di Pubblica, per parlare di partecipazione, due firmatari/e: Filippo Barbera, sociologo dell’università di Torino e Donatella Della Porta, scienziata politica alla Scuola Normale Superiore di Firenze. Diverse le domande. E’ arrivato il momento di abbassare la soglia del 50% di partecipazione per rendere valido il referendum? Perchè fallisce la partecipazione? Quanto c’entra la complessità del quesito, la credibilità dei proponenti? «Non possiamo arrenderci all’assenteismo, ad una democrazia a bassa intensità», ha detto il presidente Mattarella per il 25 aprile. Il capo dello stato ha lasciato, però, inesplorate le ragioni profonde dell’astensione, ragioni che risiedono anche nell’impoverimento sociale, oltre che economico, del lavoro. Ha scritto la studiosa, dirigente dell’Istat, Linda Laura Sabbadini: «Il lavoro non è solo un mezzo per guadagnarsi da vivere: è la base della coesione sociale di un paese».

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