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Prove di riavvicinamento. Con molti dubbi

Il presidente cinese Xi Jinping e il suo omologo taiwanese Ma Ying-jeou si incontreranno il 7 novembre a Singapore. È il primo storico incontro a questo livello dal 1949, quando il Kuomintang riparò a Taiwan dopo la sconfitta nella guerra civile contro i comunisti. Si tratta dunque di un grande evento simbolico in cui si parlerà dei rapporti tra le “due Cine”, puntando a ciò che l’agenzia di Stato ufficiale di Pechino Xinhua definisce “soluzione pragmatica in base al principio di una sola Cina”.

Bisogna soffermarsi su questo principio di “una sola Cina”. Vi aderiscono sia il Partito comunista cinese sia il Kuomintang di Taiwan. Fa da base al cosiddetto “consenso del 1992”, una formula che regola i rapporti tra i due governi. In base a tale principio, entrambi concordano sul fatto che vi sia un solo Stato sovrano che comprende sia la Cina continentale sia Taiwan, ma non vi è invece accordo su quale dei due governi sia il legittimo rappresentante di tale Stato.

Pechino ritiene “sola Cina” la Repubblica Popolare e rivendica la sovranità su Taiwan, vista come una provincia momentaneamente separata; la quale, al momento della riunificazione, assumerà lo status di Zona Amministrativa Speciale, tipo Hong Kong.

Il Kuomintang si considera invece erede della rivoluzione Repubblicana del 1911 – quando le forze guidate da Sun Yat-sen abbatterono l’ultima dinastia imperiale – e quindi il rappresentante designato di “una sola Cina”. Nella stessa Taiwan, è però di diverso parere il Partito democratico progressivo, favorevole all’indipendenza anche formale dell’isola, che proprio per il dissenso tra i due lati dello stretto di Formosa sulla lettura da dare al principio di “una sola Cina”, lo considera di fatto nullo.

Quanto al resto del mondo, la Repubblica di Cina, cioè Taiwan, ha perso il suo seggio all’Onu nel 1971 a favore della Repubblica Popolare. Nel 1979, gli Stati Uniti riconobbero Pechino e misconobbero Taipei, giurando però di difenderla da qualsiasi aggressione militare. I membri Onu che accreditano Taipei come legittima Cina sono oggi solo 21. Il motivo è semplice: Pechino ha sempre imposto il principio per cui chi riconosce la Repubblica Popolare non può anche riconoscere la Repubblica di Cina. “Una sola Cina”, appunto.

Fin dal 1949, lo stretto di Formosa è ipermilitarizzato, ma quando Ma Ying-jeou è salito al potere nel 2008, i rapporti tra le due sponde sono migliorati. Proprio su questo riavvicinamento con il continente, l’attuale presdiente ha vinto le elezioni del 2008 e poi del 2012. La Cina offre prospettive economiche e poi il desiderio di riavvicinarsi alla terra d’origine resta latente in molti taiwanesi.

Ma oggi il clima è cambiato.

Tra 2013 e 2014, Taiwan è stata infatti percorsa da grandi proteste contro il Cross-Straits Service Trade Agreement, un patto di libero scambio tra Cina e Taiwan voluto sia dalla leadership di Pechino sia dal Kuomintang. Gli studenti sono arrivati perfino a occupare il parlamento di Taipei. Quindi il patto, già firmato nel 2013, non è poi stato ratificato dal governo di Taiwan e oggi resta nel congelatore.

Si tratta del classico accordo neoliberista, consente totale libertà di circolazione agli investimenti e ai flussi di capitale ma non alle persone fisiche. I giovani taiwanesi vi hanno visto il rischio di dumping sociale in arrivo dal continente e hanno temuto per il proprio futuro; il Partito democratico progressivo, dal canto suo, l’ha contrastato ritenendolo un altro passo verso il riavvicinamento con Pechino e temendo la concorrenza cinese nei confronti delle piccole imprese locali.

Si è creato così un nuovo blocco sociale sull’isola, nemico del riavvicinamento con la Cina e rafforzato dalle vicende di Hong Kong dell’anno scorso, quando si è capito che a Pechino “un Paese, due sistemi” viene generalmente letto solo fino alla virgola.

L’incontro tra Xi Jinping e Ma Ying-jeou di sabato prossimo, a Singapore, è quindi soprattutto sensibile per Taiwan, dato che il 16 gennaio ci sono le elezioni e il Kuomintang è dato perdente nei confronti del Partito democratico progressivo. Il presidente Ma cercherà di riguadagnare consenso, mantenendo lo status quo politico con la Cina e al tempo stesso rafforzando i legami economici. Il suo ufficio ha rilasciato un comunicato in cui parla di “consolidare la pace tra i due lati dello stretto” di Formosa, ma si è affrettato a specificare che non sarà firmato nessun accordo ufficiale né rilasciato alcun comunicato congiunto. È probabile che Pechino intenda assecondare questa strategia, che fa anche i suoi interessi. Si procede con estrema cautela, dunque, resta però il grande passo in avanti: i due leader si parlano.

  • Autore articolo
    Gabriele Battaglia
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    Landini: “Manovra inadeguata: soldi alle armi anziché a salari, scuola, sanità. Rischio di deriva autoritaria”

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