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Il lager è un buco nero

“Il lager non ha regole e contemporaneamente ne ha tante. Il lager è un grande buco nero”.
Parla con apparente tranquillità, con quel marcato accento toscano, Marcello Martini, ex internato dei campi di sterminio nazisti. E’ desideroso di raccontare la sua storia di ragazzino nel lager: “ero il più giovane a Hinterbrühl e sono l’unico ancora in vita”.

 

Marcello Martini nel 1943
Marcello Martini nel 1943

 

Parole come vita e sopravvivenza, per chi è stato internato in un campo di concentramento, hanno un peso diverso, è come se fossero un concentrato di sofferenza. Marcello Martini si puntella al suo deambulatore a rotelle, si passa un fazzoletto sugli occhi e comincia a raccontare. Si ferma subito e ordina: “dammi del tu”. E riprende a parlare.
“Hinterbrühl lo conoscono in pochi, è a 17 chilometri da Vienna e adesso si chiama Seegrotte, che si può tradurre come mare sotteraneo perché è il più grande lago sotterraneo d’Europa. I nazisti svuotarono il lago e installarono in quelle gallerie – a 30 e a 50 metri sotto terra – una fabbrica di aeroplani. Da lì partii per la marcia della morte verso Mauthasen”. Un nome adeguato per questo trasferimento forzato, avvenuto tra il 1° e l’8 aprile 1945, che ha lasciato sul terreno quasi 200 degli 800 prigionieri iniziali. Anzi, come dice col suo accento toscano dugento prigionieri.

 

Marcia della morte_1

 

Marcello Martini ha un sito web ben curato, dove spicca il triangolo rosso della sua divisa da prigioniero e il numero di matricola: 76430. Nel sito c’è anche la cartina che può dare un’idea di cos’ha significato marciare per oltre 200 km, per una settimana, senza mai mangiare, sapendo che se ti mostravi debole era pronto per te il colpo di grazia. Se ti andava bene! Perché la fantasia sadica dei nazisti che scortavano la marcia della morte arrivava a divertirsi prima di uccidere qualche prigioniero. Una sera, al termine diuna tappa, i prigionieri sono stati circondati dai camion, con i fari puntati addosso e poi…

 

Marcia della morte_2

 

Marcello Martini racconta gli orrori vissuti con apparente distacco. Forse ha metabolizzato i ricordi. Forse si sono smussati ripetendoli mille volte, andando in giro per scuole e convegni. Ma quando li ascolti fatichi a rimanerne immune. Per esempio quando Marcello Martini spiega che un ufficiale ammazzò cinque prigionieri scelti a caso solo perché non tornavano i conti. “Questo maggiore delle SS ci mise in fila, mi passò a mezzo metro, io ero in prima fila. Ne indicò cinque. Cinque prigionieri, cinque revolverate e così mise in pari i conti, perché non tornava la contabilità tra il numero degli ammazzati del giorno prima e quelli ancora in vita”.

 

Marcello Martini a Mauthasen nel 2013
Marcello Martini a Mauthasen nel 2013

 

Di fronte a queste testimonianze parole come giustizia e perdono cambiano significato? Recentemente Eva Kor, una sopravvissuta di Auschwitz, ha stretto la mano al contabile del campo, Oscar Groening durante il processo che si stava svolgendo in Germania. Un gesto che equivaleva ad un perdono e che molti familiari delle vittime dei lager non hanno per nulla condiviso. Marcello Martini avrebbe stretto la mano ad uno dei suoi aguzzini 70 anni dopo? “Io no. Sinceramente no”, risponde seccamente. Poi si ferma qualche secondo e aggiunge: “Innanzitutto se vuoi il mio perdono devi chiedermelo. E poi devi dimostrarmi che sei pentito. Io non posso perdonare a nome di altre vittime. Solo Gesù Cristo ha potuto fare un perdono generale. E io non sono mica Gesù Cristo”.

1 – continua

  • Autore articolo
    Danilo De Biasio
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