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Un Super Bowl sorprendentemente normale

Super Bowl

Prima del Super Bowl, c’è l’attesa, gonfiata di aspettative, del Super Bowl: uno dei maggiori eventi televisivi globali, seguito solo negli Stati Uniti da oltre 100 milioni di spettatori, vive anche e soprattutto dei discorsi che lo precedono, e ben oltre l’ambito sportivo. Quest’anno la vulgata pre match diceva che sarebbe stato un Super Bowl come non se n’erano mai visti.

Causa pandemia, naturalmente: il Raymond James Stadium di Tampa, in Florida, avrebbe ospitato un numero molto ridotto di spettatori, una parte dei quali infermieri e medici impegnati nella lotta alla COVID-19 con biglietto omaggio; lo spettacolo di metà partita – tradizionalmente gargantuesco – sarebbe stato “in minore”, con solo un artista, The Weeknd, invece che con la solita carrellata di guest star; diversi marchi tra quelli che storicamente acquistano i costosissimi spazi pubblicitari durante la gara quest’anno hanno rinunciato a farlo.

In realtà, tra spalti comunque pieni di pubblico e di cartonati e un Halftime show rutilante, il Super Bowl 2021 è stato un Super Bowl come tanti, e a illustrarlo con una sola immagine basta il volto felice e vagamente spaccone di Tom Brady che solleva il trofeo, come già ha fatto altre sei volte in passato. Quella di Tom Brady, che a marzo, a 43 anni, ha abbandonato i New England Patriots nei quali aveva militato per quasi vent’anni, per trascinare i Tampa Bay Buccaneers alla vittoria da sfavoriti contro i campioni in carica Kansas City Chiefs è una storia classica, nella retorica sportiva, per quanto indiscutibilmente appassionante.

E la retorica è forse l’aspetto più importante di un evento come questo che coinvolge sport, musica, giornalismo, economia, commento sociale e di costume: uno degli spot più discussi è stato quello della Jeep con nientemeno che Bruce Springsteen, notoriamente restio a fare da testimonial commerciale per chicchessia. Lo spot s’intitola The Middle, come la middle America che in questi anni è stata identificata sempre più spesso solo col trumpismo, ma che nella voce narrante del Boss diventa sinonimo di middle ground, un “terreno comune” in cui trovare un dialogo tra parti avverse, e di quella terra sconfinata – la stessa dell’inno di Guthrie This Land Is Your Land – che rappresenta la promessa del Sogno americano. Da esplorare a bordo di una Jeep, naturalmente: la pubblicità si conclude con lo slogan, che più bideniano non si potrebbe, “the re-united States of America”. Ma per una volta Bruce è stato criticato da molti commentatori di sinistra, per nulla ansiosi di un compromesso pacificatorio con chi, un mese fa, ha tentato una violenta insurrezione antidemocratica.

Allo stesso modo l’omaggio della National Football League a Black Lives Matter sulla splendida esecuzione di Alicia Keys di Lift Every Voice and Sing – l’inno non ufficiale della comunità afroamericana – è suonato a molti parecchio ipocrita, visto come la NFL ha trattato fino all’altro ieri Colin Kaepernick e altri giocatori che hanno pubblicamente protestato contro la brutalità razzista della polizia.

Un “giusto mezzo” pensato per non scontentare nessuno – e quindi destinato a scontentare quasi tutti – è sembrato il leit motiv di questo Super Bowl, illuminato dalla poesia della giovane Amanda Gorman dedicata a tre “eroi contemporanei” (un veterano, un insegnante e un’infermiera) e dalla vibrante esibizione di America the Beautiful suonata dalla star dell’r’n’b H.E.R., mentre a intonare l’inno americano sono stati, insieme, un cantante country e una cantante soul, ennesimo emblema di un agognato compromesso. E anche questo ci dice moltissimo degli Stati Uniti di oggi.

  • Autore articolo
    Alice Cucchetti
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    Il Maestro, caduta e rinascita di un ex divo del tennis nella Roma degli anni ‘80

    Raul Gatti è un ex campione del tennis caduto in disgrazia, alcolista e disoccupato, interpretato da Pierfrancesco Favino nel film Il Maestro: “Ho seguito il tennis fin da ragazzo e mi sono subito affezionato a questo personaggio perdente, il più fallito che ho interpretato nella mia vita. Perché anche quelli che ho rappresentato in passato, per quanto fossero decaduti, avevano comunque un atteggiamento da vincenti”. Siamo negli anni ‘80 e Gatti viene assoldato per allenare un giovanissima promessa, Felice Milella, un ragazzino di 13 anni con i numeri per partecipare ai match più prestigiosi. Il regista Andrea Di Stefano aveva questo progetto nel cassetto molto prima che il tennis tornasse ad essere uno sport di moda: “Ho scritto questa sceneggiatura nel 2006, l’ho depositata e abbiamo le prove – ironizza il regista. Doveva essere il mio primo lungometraggio, prima ancora di realizzare L’ultima notte di Amore, con Pierfrancesco Favino, a cui avevo già pensato allora per questo personaggio di divo decaduto”. L'intervista di Barbara Sorrentini al regista Andrea Di Stefano e a Pierfrancesco Favino.

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