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“Un giorno Netanyahu sarà costretto a rispondere delle sue azioni”

Chris Sidoti su crimini commessi da Israele

“Non siamo ingenui: non ci aspettiamo alcun cambiamento nella politica del governo israeliano. Ma i nostri obiettivi sono innanzitutto quelli di promuovere l’accountability, l’attribuzione di responsabilità, di fornire attraverso le nostre indagini materiale che i tribunali internazionali e nazionali possano utilizzare per ritenere le persone responsabili delle loro azioni”. Israele ha commesso un genocidio contro i palestinesi nella Striscia di Gaza: lo dice il rapporto della Commissione internazionale indipendente delle Nazioni Unite per l’inchiesta sui territori palestinesi occupati, pubblicato il 16 settembre. La Commissione esorta Israele e tutti gli Stati ad adempiere ai propri obblighi giuridici ai sensi del diritto internazionale per porre fine al genocidio e punire i responsabili. Valeria Schroter ha intervistato Chris Sidoti, consulente internazionale in materia di diritti umani, che ha fatto parte della Commissione insieme a Navanethem Pillay e Miloon Kothari.

La sua Commissione è stata istituita nel 2021. Può spiegarci brevemente il processo che ha portato alla pubblicazione del rapporto di ieri?

La commissione è stata istituita nel 2021 dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. All’epoca era nata in risposta a un altro episodio di combattimenti a Gaza a maggio 2021. Ci era stato affidato il mandato di indagare e riferire sulle violazioni dei diritti umani in Palestina e in Israele: ovviamente lo abbiamo fatto. Dagli eventi del 7 ottobre 2023, quando i combattenti di Hamas hanno attaccato gli insediamenti israeliani nel sud di Israele, ci siamo concentrati molto su ciò che è accaduto a Gaza dal 7 ottobre in poi.
Da allora, abbiamo prodotto sette relazioni formali e una serie di altri documenti che trattano aspetti dei combattimenti tra Israele e i gruppi armati palestinesi a Gaza e in altre parti della Palestina. Il rapporto che abbiamo pubblicato questa settimana, un rapporto sul genocidio, raccoglie i risultati di tutte le nostre indagini degli ultimi due anni. I nostri rapporti precedenti hanno esaminato aspetti come l’attacco alla sanità, l’attacco al sistema educativo, la violenza sessuale e di genere e così via. Ora abbiamo riunito tutte queste questioni e le abbiamo esaminate nel contesto del diritto internazionale in materia di genocidio: è proprio questo l’oggetto del nostro rapporto.

Per quanto riguarda la vostra metodologia, come avete raccolto i dati, vista l’impossibilità di recarvi in Palestina e vedere con i vostri occhi le atrocità che si stanno commettendo?

Certamente l’impossibilità di recarci in Palestina rende le cose più difficili per noi, ma non ci impedisce di indagare. In realtà, è piuttosto normale che le commissioni d’inchiesta delle Nazioni Unite si trovino nell’impossibilità di accedere al territorio del Paese oggetto dell’indagine, come è successo in questo caso.
Seguiamo una metodologia standard. È ben organizzata, ben documentata e si basa su prove primarie e secondarie. Per prove primarie intendo i testimoni oculari. Siamo in grado di parlare con testimoni degli eventi a Gaza: parliamo con persone che hanno lasciato Gaza, con i feriti evacuati e le loro famiglie. Parliamo al telefono o via internet, se disponibile, con persone che sono ancora all’interno di Gaza.
Abbiamo condotto molte interviste con operatori sanitari e umanitari che sono stati a Gaza e successivamente se ne sono andati. E quindi possiamo intervistarli all’esterno. Si tratta, quindi, di testimoni oculari. I medici possono raccontarci ciò che vedono negli ospedali, ciò che vedono nelle zone circostanti. Siamo in possesso di testimonianze molto forti. In secondo luogo, abbiamo accesso a migliaia di prove digitali, video, fotografie, immagini satellitari, che possono dirci molto.
Sono tantissime prove digitali e abbiamo la capacità di verificarle, eliminando quelle che non possono essere verificate. Non credo che ci sia mai stato un conflitto in cui così tanti eventi siano stati documentati da coloro che sono attivamente coinvolti nei combattimenti. I militanti di Hamas hanno scattato molte fotografie e girato molti video, pubblicandoli online il 7 e l’8 ottobre, mostrando ciò che stavano facendo nel sud di Israele. Invece, i soldati israeliani adorano fotografarsi e filmarsi mentre svolgono le loro attività a Gaza e pubblicare tutto online. In ogni caso, non accettiamo tutto ciò che troviamo. Sappiamo verificare digitalmente e analizzare il materiale contenuto nelle fotografie e nei video.
Abbiamo accesso alle agenzie delle Nazioni Unite presenti e attive a Gaza, compreso il personale delle Nazioni Unite che si trova lì. Abbiamo accesso alle organizzazioni non governative che hanno ancora persone sul campo. Quindi tutte le prove disponibili sono a nostra disposizione.
Le analizziamo, ne determiniamo il livello di affidabilità e traiamo conclusioni solo quando abbiamo prove corroboranti. I nostri processi sono rigorosi, approfonditi e pienamente conformi alla metodologia standard approvata dall’Onu per il tipo di indagini come la nostra.

Il ministro degli Esteri israeliano ha scritto su X che la Commissione è composta da intermediari di Hamas. Vi aspettavate questo tipo di reazione? Al giorno d’oggi è molto diffusa la retorica per cui chi parla dei crimini di Israele è un terrorista.

Sì, esatto. Ce lo aspettavamo. Le autorità israeliane, comprese le persone che dovrebbero avere delle responsabilità, come il ministro degli Esteri, ma tutti quanti, tirano fuori bugie e slogan. Per me, siamo arrivati al punto in cui penso che al giorno d’oggi sia tutto generato dall’intelligenza artificiale. Il governo israeliano investe milioni e milioni di dollari nella sua macchina propagandistica: ma se questo è il meglio che possono fare, è un assoluto spreco di denaro.
Dovrebbero confrontarsi con le prove, discuterne, fornire quelle che hanno. Se non sono d’accordo con le nostre conclusioni, dove sono le prove che dimostrano che non hanno fatto ciò che diciamo? Purtroppo, però, le autorità israeliane, il primo ministro, il presidente, il ministro degli Esteri e il ministro della Difesa si limitano a ripetere slogan inventati in qualche chat con l’Ia e pensano che la gente li prenderà sul serio.
Ma questo non mi preoccupa, perché nessuno lo fa. Ciò che mi preoccupa è quando lanciano accuse di antisemitismo. L’antisemitismo è una questione molto, molto seria. Per centinaia di anni, il popolo ebraico ne è stato vittima. Nell’Olocausto, sei milioni di ebrei sono morti a causa dell’antisemitismo. E ora le autorità israeliane pensano di poter contrastare le critiche lanciando questo tipo di accuse.
Beh, banalizzano l’antisemitismo, profanano la memoria di coloro che hanno sofferto ed è assolutamente scandaloso. Ma sotto altri aspetti, ciò che dicono in risposta alle accuse è semplicemente ridicolo.

Nonostante questo tipo di risposte, pensa che il governo israeliano e Netanyahu siano minimamente toccati da ciò che dice l’ONU o che non se ne curino?

Penso che siano sempre più preoccupati delle conseguenze personali perché un giorno, un giorno, queste persone saranno chiamate a rispondere delle loro azioni.
Ci sono tribunali internazionali che stanno indagando, ci sono tribunali nazionali che sono disposti e in grado di agire. Quindi penso che siano preoccupati a livello personale, ma questo influisce sulla loro politica? No, affatto.

Questo mi porta alla prossima domanda. Ovviamente non possiamo aspettarci che il rapporto cambi la situazione a Gaza e in Palestina. Allora quali sono i vostri obiettivi e le vostre speranze? L’attribuzione di responsabilità è un fattore importante?

In questa fase ci sono due obiettivi principali. Non siamo ingenui: non ci aspettiamo alcun cambiamento nella politica del governo israeliano. Ma i nostri obiettivi sono innanzitutto quelli di promuovere l’accountability, l’attribuzione di responsabilità, di fornire attraverso le nostre indagini materiale che i tribunali internazionali e nazionali possano utilizzare per ritenere le persone responsabili delle loro azioni. Questo è il primo obiettivo.
Il secondo obiettivo è quello di richiamare l’attenzione degli Stati che possono avere una certa influenza su Israele sugli obblighi che hanno ai sensi del diritto internazionale. Israele sta commettendo genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ma gli altri paesi hanno l’obbligo giuridico, ai sensi del diritto internazionale, di intraprendere tutte le azioni possibili per prevenirli.
Il nostro rapporto è quindi rivolto a questi Stati per incoraggiarli, esortarli ad agire, a esercitare la massima pressione possibile sul governo israeliano e sullo Stato di Israele.

Ritiene che anche la società civile, le Ong e i movimenti come la Global Sumud Flotilla possano svolgere un ruolo nel fare pressione sui governi?

Il loro ruolo, come lei lo descrive, è quello di fare pressione sui governi, sui propri governi, e anche sul sistema internazionale. Le Ong svolgono un ruolo estremamente significativo all’interno del sistema delle Nazioni Unite nel fornire informazioni e nel promuovere il diritto internazionale.
Quindi sì, le Ong sono attive e devono continuare ad esserlo. Attive all’interno del sistema internazionale, ma anche attive nel pretendere dai propri governi un’azione più efficace nei confronti di Israele.

Lei e i suoi colleghi della Commissione avete raggiunto il vostro obiettivo, la pubblicazione del rapporto. La Commissione verrà sciolta nei prossimi mesi?

La Commissione sarà stata ricostituita, piuttosto che sciolta. Quando il Consiglio dei diritti umani ha istituito la Commissione, non ha fissato un limite di tempo. E i commissari sono stati nominati a tempo indeterminato. Siamo in carica ormai da quattro anni. La nostra presidente compirà 84 anni questo mese e ha deciso che è ora di andare in pensione. Gli altri due commissari hanno quindi comunicato al presidente del Consiglio per i diritti umani che avrebbe dovuto riesaminare la composizione della Commissione nel suo complesso. Presentando le nostre dimissioni, gli abbiamo consentito di nominare un nuovo gruppo.

A titolo più personale, com’è stato lavorare con i suoi colleghi? Avevate tutti background diversi, e penso in particolare alla Commissaria Pillay. Qual è stato il contributo di ciascuno di voi?

Beh, non credo che nel mondo dei diritti umani ci sia qualcuno che abbia la profondità di competenze ed esperienze di Navi Pillay. È senza dubbio una figura di spicco del movimento internazionale per i diritti umani. È stata presidente del Tribunale per il Ruanda, Alto Commissario per i diritti umani e giudice della Corte penale internazionale. Attualmente è giudice della Corte internazionale di giustizia nel caso Myanmar. La sua competenza ed esperienza non hanno eguali nel mondo dei diritti umani, ed è stato un enorme privilegio e onore per tutti i membri della nostra Commissione lavorare con lei.
Per me, personalmente, è stato un incarico molto importante. In precedenza avevo fatto parte di una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite simile che si occupava del Myanmar: è stato fondamentale, perché anche il Myanmar si trova in una situazione terribile. Ma questo è stato senza dubbio uno degli incarichi più difficili che ho avuto nel corso del mio lavoro nel campo dei diritti umani. È stato angosciante sapere così tante cose, fare ricerche, indagare, parlare con le persone in Cisgiordania e a Gaza di ciò che è successo. È stato un incarico difficile, ma non riesco a immaginarne uno più importante. Poter svolgere un ruolo in un’indagine come questa, che si spera porrà fine alle sofferenze delle persone, è un compito importantissimo.

di Valeria Schroter

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