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Trump presidente: colpa della globalizzazione?

In questi giorni il mondo è rimasto senza fiato. La domanda che da anni i cittadini statunitensi ponevano alla politica senza ottenere risposte si è trasformata in milioni di voti a favore di chi, senza peli sulla lingua, ha promesso di ribaltare il tavolo a favore degli impoveriti, degli emarginati dal benessere, dei dimenticati della globalizzazione. Come poco prima quei milioni di cittadini britannici che avevano votato a favore della Brexit, come gli europei che a milioni hanno firmato contro gli accordi di libero scambio commerciale o che vorrebbero il ritorno alle frontiere chiuse per impedire l’immigrazione. Insomma, è diventata all’improvviso dirompente la richiesta esplicita di rassicurazione da parte dei più deboli davanti alle difficoltà del mondo globalizzato, alle paure e ai rischi concreti che questa trasformazione ha comportato, all’innegabile fatto che i principali vincitori di questa fase sono stati i grandi gruppi transnazionali, la finanza offshore, i miliardari.

L’apertura dei mercati dopo la fine della Guerra Fredda ha avuto la positiva conseguenza di mettere in moto economie arcaiche e chiuse, come quella cinese o indiana, offrendo loro l’opportunità di strappare dalla miseria milioni e milioni di persone. A conti fatti, la povertà nel mondo non è aumentata ma diminuita. Il punto è che le medie sono, appunto, soltanto medie: e a un calo della povertà consistente nell’Estremo Oriente corrisponde un calo del benessere in Occidente, legato soprattutto alla migrazione del lavoro. Ed è questo il problema: mentre nel resto del mondo si sviluppavano nuovi apparati industriali che offrivano impiego più qualificato e meglio retribuito rispetto a quello agricolo, in Europa e in Nordamerica si abbassavano la qualità e la quantità del lavoro. Dalla crisi del 2008 a oggi la crescita economica si è arrestata, non si sono create nuove opportunità di lavoro, gli investimenti internazionali sono al palo, e chi ha perso il lavoro in Occidente non lo ha più ritrovato.

A questo quadro già di per sé preoccupante si aggiungono l’invecchiamento inarrestabile delle nostre società e le crisi politiche e ambientali che hanno generato flussi migratori da Sud verso Nord. La percezione che si aveva dell’immigrazione in Europa o negli USA, come fonte di forza lavoro necessaria per trainare le locomotive produttive, ora è totalmente mutata: gli immigrati sono visti come nuova concorrenza per accedere al welfare, all’abitazione, al lavoro superstite. Sono questi gli ingredienti della grande paura che taglia trasversalmente le società moderne. Paura di non farcela, di tornare a essere poveri come i nonni, di finire sommersi da flussi di migranti disperati.

La grande paura è figlia anche, e soprattutto, della mancanza di governo della globalizzazione e dell’eterna conflittualità tra gli Stati. Per molti, il mondo che doveva essere più sicuro dopo la fine della minaccia nucleare è diventato in realtà più pericoloso. Non solo per i cittadini di quei Paesi che in questi anni si sono dissolti in seguito a conflitti terribili, ma per chiunque dipenda da un impiego, da una pensione, da una piccola attività commerciale o artigianale.

Da qui l’urgenza di rimettere mano all’architettura internazionale, aggiornando strumenti oggi fuori uso, come le Nazioni Unite, per regolare e prevenire le guerre e le violazioni dei diritti. Ma anche di discutere la missione e gli obiettivi di organismi come il WTO, che servono a poco se si limitano a regolare gli scambi economici dimenticandosi l’impatto che questi ultimi hanno sui popoli.

Governare la globalizzazione – o meglio, governare la complessità – è la prima e principale sfida per una politica diventata progressivamente meno credibile, sempre più sospettata di fare gli interessi di pochi, in cui vanno scomparendo le differenze tra i vari schieramenti. È un film già visto, ogni volta che la politica ha rinunciato alla sua capacità di governo e di cambiamento, lasciando il posto agli arruffapopoli, si sono sempre verificate tragedie. Siamo ancora in tempo per impedire la prossima?

  • Autore articolo
    Alfredo Somoza
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    Quando esce un nuovo disco di Edda è come risentire un vecchio amico di quelli che cambiano numero ogni volta che perdono il telefono. Messe sporche è un disco che mette da parte la quiete spigolosa del precedente “Illusion”, e riprende il suono abrasivo dell’esordio da solista e, perché no, anche dei Ritmo Tribale. Nove pezzi empatici, diretti, pochi suoni, tutti giusti, in cui si ascoltano rudezza, dramma, ma anche una risata disillusa e molto rock’n’roll, che in qualche caso conserva anche il tono empatico di “Graziosa utopia”. L’album è uscito solo in formato fisico e la prima stampa è andata esaurita in pochi giorni, ma niente paura: potrete acquistarlo in una delle date del tour che il 12 dicembre approda anche a Milano, all’Arci Bellezza. Per darci una preview di disco e spettacolo, Edda ci ha raggiunti all' Auditorium di Radio Popolare con i suoi musicisti al gran completo: Luca Bossi (basso e synth, produttore dell’album), Diego Galeri dei Timoria (batteria), Francesco “Killa” Capasso (chitarre) e Davide Tessari (fonico). Tre pezzi live suonati con un tiro da ventenni e una frizzante chiacchierata su musica, mutande e cose sacre. Il tutto dall’alto di un ponteggio. Ascolta il MiniLive di Edda.

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    Debutta al Teatro alla Scala di Milano la nuova produzione di "Così fan tutte", celebre titolo di W. A. Mozart. La regia dell'opera, che sarà diretta da Alexander Soddy, porta la firma di Robert Carsen, che per la prima volta affronta questo capolavoro mozartiano. Nella presentazione alla stampa, Carsen ha spiegato di avere preso ispirazione dai reality show a tema sentimentale, come Temptation Island. L'opera sarà infatti ambientata in uno studio televisivo dove si svolge un casting. Ascolta Robert Carsen nella presentazione alla stampa di "Così fan tutte" alla Scala.

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