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Appunti sulla mondialità

A tre anni dal golpe, il triste primato birmano

Il primo febbraio del 2021, senza fare clamore in un mondo ancora scosso dalla pandemia, in Myanmar i militari rovesciarono il governo e tornarono al potere. Un potere che avevano ufficialmente lasciato nel 2010, ma senza mai allontanarsene molto: per una decina d’anni avevano continuato a condizionare la fragile democrazia birmana, rimasta sempre sotto la “tutela” delle forze armate. I motivi per i quali, all’inizio del 2021, i militari decisero di tornare alla gestione diretta del potere sono diversi, ma quasi tutti riconducibili ad affari illeciti: ora nel campo dell’estrazione mineraria e delle pietre preziose, ora delle cyber-frodi e del traffico di stupefacenti. Un mix di modernità e di ritorno al passato, quando i militari riciclavano i proventi nel settore turistico per coltivare e commercializzare il papavero da oppio.

Il golpe del 2021 fu favorito in modo nemmeno tanto occulto dal più ingombrante tra i vicini del Myanmar, la Cina, all’epoca in procinto di diventare la monopolista di fatto nell’estrazione delle cosiddette “terre rare”. Si tratta di 17 elementi chimici alla base della rivoluzione tecnologica attualmente in corso ma particolarmente rari, cioè difficili da individuare, estrarre e lavorare. Non tutti i Paesi li hanno a disposizione: la produzione mondiale, infatti, è concentrata in Cina (che da sola controlla circa il 62% del mercato), USA (12%), Myanmar e Australia (10% ciascuno). Poi restano le briciole. È evidente che per Pechino arrivare a controllare tre quarti del mercato di questi minerali strategici significa instaurare quasi un monopolio globale e, insieme, raggiungere la perfetta quadratura del cerchio, essendo la Cina anche il primo produttore mondiale di alta elettronica. Ed è esattamente quello che è accaduto dopo il colpo di Stato in Myanmar. Il “debito” che i militari birmani hanno contratto nei confronti di Pechino, infatti, si è tradotto nella concessione del controllo dell’estrazione delle terre rare alla Cina, che non solo iper-sfrutta i giacimenti del Myanmar, ma scarica anche sul Paese vicino il grande impatto ambientale associato all’estrazione.

Oggi, però, non tutto fila liscio tra i militari e la Cina. Nel Nord del Myanmar si è formata un’alleanza tra l’esercito delle forze di opposizione e quello della minoranza cinese, e i “ribelli” stanno conquistando una fetta importante di territorio. Già controllano Chinshwehaw, una città di confine con la Cina vitale per gli scambi commerciali tra i due Paesi. Il silenzio di Pechino sui combattimenti in corso lascia presagire una presa di distanza dal regime birmano , che si può spiegare con due ordini di motivi. Il primo riguarda il fiorire, proprio nel Nord del Paese, di attività di cyber-frodi che hanno colpito soprattutto la Cina; il secondo è il ruolo decisivo che la minoranza di etnia cinese sta assumendo nella resistenza. Per i militari, che hanno represso l’opposizione democratica uccidendo migliaia di persone, la sfida armata si sta facendo insidiosa, e lo sarà ancor più se verrà meno la copertura politica di Pechino. Ciliegina sulla torta è il Rapporto annuale 2023 dell’Office on Drugs and Crime – l’ente “antidroga” – delle Nazioni Unite, nel quale si legge che la produzione di oppio in Myanmar è aumentata del 36%, che le aree di coltivazione si sono ulteriormente estese e che i proventi del traffico ormai equivalgono al 2-4% del PIL nazionale: il Myanmar ha superato l’Afghanistan e detiene il triste primato di essere il primo produttore mondiale di oppio.

I militari birmani hanno quindi confermato tutte le loro peggiori caratteristiche, dal fomentare un nazionalismo farlocco, che ha portato alla tragica espulsione della minoranza rohingya verso il Bangladesh, alla pratica della repressione di massa; dal favorire le truffe informatiche alla vecchia tradizione della produzione di oppio. Il tutto finora è avvenuto nel silenzio grazie alla sponsorizzazione interessata della Cina, che però adesso sta prendendo le distanze. I “Machiavelli” che governano a Pechino hanno fatto i loro conti: se, alla fine, i militari resteranno in piedi, saranno sempre uomini a loro disposizione; se invece prevarrà l’opposizione, nella quale la minoranza cinese ha un ruolo centrale anche dal punto di vista militare, i rapporti con il Myanmar resterebbero comunque buoni. È una politica losca, ma è pur sempre una politica. Il resto del mondo rimane a guardare, anche se qui sono in gioco diversi punti chiave dell’agenda globale.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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L'Ambrosiano

Pellegrini

Ambrosianeum e Geawey promuovono un Pellegrinaggio di solidarietà a Gerusalemme dal 18 al 21 marzo. Pensare d’andare in Terra Santa «per una preghiera di intercessione e di pace» mentre spirano venti cupi di guerra è non arrendersi a: cupio dissolvi delle armi, impotenza delle diplomazie, logica di schieramenti culturali e geopolitici, simmetrie della memoria, calcoli del “a pro di chi” e “chi te lo fa fare”. Recarsi nella Città Santa alle tre religioni monoteiste da pellegrini (l’uomo in perenne cammino) è realismo e insieme rifiuto dell’ineluttabilità del male. Niente potrà esser riportato ad integrum come nulla fosse successo: le orrende violenze di Hamas del 7 ottobre; le reazioni muscolari di Netanyahu; i 23 mila morti a Gaza e quelli in Cisgiordania; i patimenti di ostaggi e famiglie; delegittimazione di Onu e Ong; rischi di contagi per altre guerre. Ma a Gerusalemme sinagoghe, chiese, moschee, strade e mura pongon domande a chi le accosta con animo sgombro e non offrono risposte facili e scontate; son pietre vive di speranza contro ogni speranza, semi di vita, spinte a rialzarsi in tensioni secolari. Pregare sul Sion fa cader maschere e proiezioni. Chi prega Dio mette a nudo l’hỳbris dell’uomo: insolenze, tracotanze, prevaricazioni, pervicaci sopravvalutazioni delle forze. Pregare è riconoscersi fragili ma non impotenti, cattivi ma non predestinati al buio, bisognosi di cambiare a partire da sé. Dalla Città Santa spira l’essenza della tradizione biblica: nell’istante in cui l’Architetto del mondo disse «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» capì che plasmava una creatura totalmente libera, capace grazie allo spirito che lui infondeva in quell’essere plasmato dalla terra di rinnegare lo stesso artefice, bestemmiarlo, volgere al male bellezza, armonia, bene che lui Creatore aveva sognato per uomo e universo rimediando al caos originario. Andare a pregare dove i figli di Abramo han radici di senso è affidarsi al “silenzio energia”, per dirla con André Neher, alla fonte della Creazione, al Bene. Ascoltare silenzio e Parola, raccolti in sé e in comunione con altri aiuta a capire ciò che parrebbe sfuggire alla comprensione. L’inizio d’una svolta, almeno nei cuori!

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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L'Ambrosiano

Pace, Shalom, Salam

Mattarella che sprona a «una cultura della pace» evoca quanto scrisse Wojtyla per la Giornata mondiale della pace del 2002: «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono». L’attacco alle Torri Gemelle convinse allora Bush e Blair a guerra e scontro di civiltà col mondo musulmano; ignorarono il grido profetico del Papa, che aveva scritto del MO: «Non si possono non ricordare alcune tragiche situazioni di conflitto, che da troppo tempo alimentano odi profondi e laceranti, con la conseguente spirale inarrestabile di tragedie personali e collettive. Mi riferisco a quanto avviene nella Terra Santa, luogo benedetto e sacro dell’incontro di Dio con gli uomini, luogo della vita, morte e risurrezione di Gesù, il Principe della pace. La delicata situazione internazionale sollecita a sottolineare con forza rinnovata l’urgenza della risoluzione del conflitto arabo-israeliano, che dura ormai da più di cinquant’anni, con un’alternanza di fasi più o meno acute. Il continuo ricorso ad atti terroristici o di guerra, che aggravano per tutti la situazione e incupiscono le prospettive, deve lasciar finalmente posto ad un negoziato risolutore. I diritti e le esigenze di ciascuno potranno essere tenuti in debito conto e contemperati in modo equo, se e quando prevarrà in tutti la volontà di giustizia e di riconciliazione. A quegli amati popoli rivolgo nuovamente l’invito accorato ad adoperarsi per un’era nuova di rispetto mutuo e di accordo costruttivo […] Sono convinto che i leader religiosi ebrei, cristiani e musulmani debbano prendere l’iniziativa mediante la condanna pubblica del terrorismo, rifiutando a chi se ne rende partecipe ogni forma di legittimazione religiosa o morale […] favoriranno la formazione di una pubblica opinione moralmente corretta». Il dilemma è tornato: cavalcare simmetrie di morte o essere operatori di giustizia e pace. Riconoscere l’altro, riconciliarsi non è dimenticare né non condannare il male efferato, ma è non esser posseduti da guerre che fan morire civili, minano intese future, isolano, seminano odio sul domani con migliaia di bimbi uccisi. Da scongiurare è «abituarsi all’orrore», dice Mattarella. Pace, Shalom, Salam per il 2024!

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Il posto

«Non c’era posto per loro»: Luca spiega come mai Maria pose Gesù in una mangiatoia; «Non c’è posto per loro», il popolo palestinese, «nemmeno nella mente di coloro che decidono le sorti del mondo». Il cardinal Pizzaballa kefiah sopra la mozzetta rossa ha accostato la povertà evangelica alle sorti dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania: «Non sembra esserci posto per loro non solo fisicamente, ma nemmeno nella mente di coloro che decidono le sorti dei popoli». Rivolgendosi «a tutti, senza distinzione, palestinesi e israeliani, a tutti quanti sono nel lutto e nel pianto» il Patriarca latino di Gerusalemme nei fatti ha indicato un rischio che solo Netanyahu e Occidente s’ostinano a non vedere: «non c’è posto» paradossalmente neanche per gli israeliani se si continua con territori occupati, nuovi insediamenti, Onu ignorata, coloni violenti, propositi di eradicare la disumanità di Hamas del 7 ottobre al costo però d’oltre 20mila morti. Pizzaballa era solo la notte di Natale a esortare «tutti a partire da me e da chi come me ha responsabilità di guida e di orientamento sociale, politico e religioso, a creare una “mentalità del sì” contro la “strategia del no”»: in tempi di guerra «tutti moltiplichiamo i gesti di fraternità, pace, accoglienza, perdono, riconciliazione». L’ha lasciato solo l’Europa (Macron gli ha telefonato: l’unico): coloro che si fan belli del nome di cristiani e si servono dell’etichetta per smentire l’essenza evangelica coi decreti Cutro secondo cui “non c’è posto” per altri (Meloni, Orban, Sunak); quelli del Presepio per legge che non vedono i delitti nei Centri per migranti; coloro che si prenotano per il dopo elezioni virando a destra (von der Leyen). Ciechi segano il ramo su cui son seduti. I cristiani di Palestina da anni ridotti al lumicino tra discriminazioni dei governi israeliani e causa arabo musulmana, in mezzo alla guerra (i cecchini israeliani uccidono alla Sacra Famiglia a Gaza) senza lavoro, dignità, terra, libertà sempre più emigreranno dalla Terra Santa. Svuotati d’umanità i posti della Buona Novella saran solo pietre. Se non cambia qualcosa. Forse Gesù dovrà cercarsi «un posto» dove nascere nel 2024. Almeno un augurio per l’anno che viene!

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Appunti sulla mondialità

Il Natale del Sud globale

Il Natale è stata la prima festa di matrice religiosa ad assumere portata davvero globale, prima ancora che finisse la Guerra Fredda. Ciò è accaduto parallelamente al progressivo allontanamento del Natale dal suo significato originario: ricordare la nascita, avvenuta in Medio Oriente, di quel bambino ebreo che i cristiani avrebbero considerato il figlio di Dio. Una ricorrenza destinata a radicarsi soprattutto in Europa e poi a espandersi nel mondo, grazie al colonialismo. Nel senso religioso, il Natale è una festa di preghiera e di speranza: ma in questi termini coinvolge solo una parte dell’umanità. Intesa in senso laico, invece, ormai da tempo la festa coinvolge qualche miliardo di persone in più. Tuttavia, sembra che oggi qualcosa stia cambiando. Rispetto agli anni passati, la “voglia di Natale” dei Paesi del Sud globale, soprattutto di quelli non cristiani, oggi è molto calata. Se celebrare il Natale era uno dei presupposti per fare (e sentirsi) parte di una comunità globale, con aspirazioni, interessi e simboli condivisi, il passaggio di questa festa a evento di secondo piano racconta molto dei mutamenti in corso.

Il successo del Natale, nella sua versione laica e contemporanea, aveva anticipato di qualche decennio il fenomeno della globalizzazione grazie a una coincidenza di valori fondanti: da un lato la retorica dell’uguaglianza universale, dall’altro l’identificazione dell’uguaglianza in un’omologazione dei consumi e degli immaginari. Ma le crepe che si sono aperte nella narrazione globale, le fratture provocate dalla pandemia e dai conflitti in corso e i “distinguo” sempre più numerosi dei Paesi del Sud globale rispetto alle politiche delle vecchie potenze, quelle dove il Natale è tradizione antica, stanno facendo tornare la slitta di Babbo Natale nel suo territorio di origine, l’Occidente. A proposito, c’è da dire che Babbo Natale di cristiano ha ben poco. Celebrarlo come simbolo del Natale per molti credenti è quasi una blasfemia, nonostante all’origine della sua figura ci sia un’antica venerazione per san Nicola (sint Nicolaas per gli olandesi, da cui Santa Claus), vescovo barbuto che, secondo l’agiografia, dispensava doni ai bisognosi. Di Santa Claus e della sua leggenda si impadronì a suo tempo la Coca-Cola, facendone un omone vestito di rosso a scopo meramente pubblicitario. Non a caso, proprio Babbo Natale è diventato il simbolo di una festa comandata dalle multinazionali, quelle che offrono ovunque gli stessi prodotti sfruttando l’universalizzazione del Natale al pari di quella di Halloween o di san Valentino.

Ai tempi però di una nuova Guerra Fredda multipolare, Paesi come Cina, India e Russia scelgono più o meno inconsciamente di tornare alle loro tradizioni. E non fa differenza che siano paesi a tradizione buddista, induista, musulmana o cristiana, perché il Natale mercificato e globalizzato stride anche nei Paesi cristiani impoveriti, colpiti dalle bombe o dai cambiamenti climatici. Ieri festeggiare tutti insieme il Natale, a prescindere dalla collocazione geografica o culturale, era un segno di speranza, di fiducia nella possibilità di raggiungere obiettivi universali. Oggi quegli obiettivi paiono allontanarsi irrimediabilmente e alla fine, nell’epoca del “si salvi chi può”, ognuno si tiene il suo: nazionalismi, sovranismi, integralismi sono tutti nemici dello spirito natalizio così come la storia del Novecento lo ha imposto al mondo. Questo del 2023 sarà così un Natale in scala minore, che interesserà “solo” qualche centinaio di milioni di persone. Per questo, forse, sarà più autentico. Babbo Natale potrebbe essere la prima vittima simbolica della fine del ciclo della globalizzazione, quello degli anni ’90: la sua slitta si è molto alleggerita, porterà doni a qualche miliardo di esseri umani in meno. Se questo sarà un bene o un male lo scopriremo più avanti, per il momento non ci si può esimere, almeno da noi, dall’augurarci che le feste del 2023 portino serenità e soprattutto consiglio a chi, nei prossimi mesi, dovrà decidere il destino del mondo.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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