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Mia cara Olympe

Il caso Salis e il pensiero della destra sul carcere

“In Italia è più o meno eguale”.

Delle molte cose che colpiscono e indignano della vicenda di Ilaria Salis, accusata di aver aggredito due militanti di estrema destra a Budapest – molte cose, sia in Ungheria dov’è detenuta da 11 mesi in condizioni aberranti e portata in catene davanti ai suoi giudici, sia in Italia – ce n’è una che dovrebbe suonarci particolarmente indecente ancorché assai rivelatoria.

Mentre il ministro Lollobrigida si trovava evidentemente in un totale black out mediatico e dunque nulla poteva dire delle immagini di Salis incatenata mani e piedi e tenuta con una sorta di guinzaglio, mentre Salvini diceva che però una ‘così’ non può fare la maestra e i suoi tiravano fuori altri procedimenti dai quali invece è stata prosciolta, mentre qualcuno arrivava alle vette di comicità – non fosse la questione serissima – di sostenere che Orban, l’amico della nostra premier, nulla c’entri,  l’altra reazione del centrodestra di governo, accusato di sottovalutazione e immobilismo dettati da contiguità politica, è stata di affermare che in fondo anche da noi funziona così. Sottinteso: dunque, dov’è mai lo scandalo?

Due questioni: la prima, già per fortuna chiarita dal garante dei detenuti di Milano Francesco Maisto, è che in Italia, dai tempi di Tangentopoli e del clamore suscitato dalle immagini dell’esponente dc Enzo Carra con i polsi stretti dagli schiavettoni, i detenuti non vengono tradotti in catene nelle aule di tribunale. “Decisiva per il cambiamento fu la legge 492 del 1992, nel momento in cui cambiò il regolamento e il compito di accompagnare i detenuti passò dai carabinieri agli agenti della polizia penitenziaria” ha ricordato Maisto. C’è insomma un prima: chi scrive ben ricorda le proteste degli imputati per reati di terrorismo che venivano condotti in lunghe file, l’uno incatenato all’altro, dal carcere di San Vittore all’aula bunker e sottoposti a pesanti perquisizioni corporali, e così accadeva nei maxiprocessi di criminalità organizzata. Capitò ad Enzo Tortora, poi completamente assolto, capitò a tanti: erano però anni in cui il pensiero sul carcere faceva passi avanti  in virtù di molte differenti spinte e la legge del 1992 ne è appunto un esempio. Dire che in Italia non è più così e che non è mai stato per quanto riguarda l’uso delle catene ai piedi più volte inflitte a Ilaria Salis significa dunque ristabilire un elemento di verità: benvenuto ma parziale, perché dello stato delle nostre carceri, delle condizioni di detenzione non possiamo certo menare vanto o farci esempio. Ed è qui il punto rivelatorio di questa autodifesa dell’inerzia con cui il governo ha affrontato il caso Salis: affermare che in Italia è più o meno eguale serve certamente a non urtare l’alleato ungherese in vista delle elezioni europee. Ma svela anche il retropensiero che nelle carceri – lì e soprattutto qui – non ci sia nulla da cambiare, da migliorare, da rendere più civile e più rispettoso dei diritti dei e delle detenute, nonostante le svariate pronunce internazionali contro l’Italia, i casi di cronaca, i suicidi di reclusi, le inchieste della magistratura su diversi istituti di pena. Ci si aspettava qualcosa di diverso da una destra securitaria, appassionata dalla creazione di nuovi reati e per la quale l’aumento delle pene e  la detenzione sono la risposta d’elezione a  molti problemi? No di certo, ma visto quanto poco ci si occupa di carcere mentre  il discorso pubblico è pesantemente inquinato da questa deriva, forse è opportuno  ancora una volta sottolinearlo.

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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L'Ambrosiano

La soglia borderline

La soglia è spazio di confine naturale o convenzionale. Lo si considera e lo si valica nel rispetto delle aree che delimita, delle persone coinvolte in quei luoghi fisici o psichici, in base a regole volte al bene comune. La cultura della soglia è base di convivenza. Coltivarla serve a costruire relazioni buone, pensare a sé, all’altro, al futuro con fiducia. Se stravolta allarma: rivela una visione politica cui conviene spostare la soglia definita, far passare lo sconvolgimento per evoluzione naturale, mentalità collettiva, magari un progresso in nome d’una non meglio identificata istanza popolare. Ti accorgi e può esser tardi. Un carabiniere in servizio che dice di Mattarella: «Non è il mio presidente. Io non l’ho votato, non l’ho scelto io, non lo riconosco» va contro la Costituzione. Trasferendolo a incarico non operativo s’accredita una doppia morale: pensieri eversivi si possono avere ma in caserma. L’elezione diretta sognata a destra fa breccia, va sui media, ci s’indigna forse ma l’opinione pubblica intanto è avvertita. La soglia è alterata nel campo dei diritti con Ilaria Salis a Budapest in ceppi, manette, catene. Dopo un anno ecco Governo, diplomazia, Europa. Alla giovane maestra vengono restituite dignità? Giustizia? Si spera. È passato però il monito: attenti a contrastare i neonazi, si può esser costretti a difendersi mentre si credeva di rivendicare l’Europa della Liberazione e si rischia il posto con la Lega garantista solo per sé. Già la Cassazione ha sentenziato che dipende da come alzi la mano e gridi presente se sei reo o patriota. E La Russa ha ricordato che anche l’Italia ha catene alla Ilaria. Di soglia in soglia spostata per sdoganare i limiti del sentire diffuso la moralità pubblica ha un vasto range: dalla Commedia dell’Arte (Conte che teme Trump non lo chiami più “il mio Giuseppi” e glissa su Capitol Hill) alla Meloni del concordato preventivo dopo aver definito “pizzo di Stato” pagare le tasse. Il confine fascismo-sì-o-no è soglia borderline tra privilegi e vantaggi per pochi, ingiustizie e disconoscimenti per molti, libertà vaga per tutti. La Costituzione antifascista ci tiene Sulla soglia «a segnalare instancabile / un oltre / più oltre del cielo» per dirla col poeta Angelo Casati.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Appunti sulla mondialità

La Terza guerra mondiale a pezzi

La più autorevole ONG di aiuti umanitari, l’International Rescue Committee di New York, ha mappato tutte le tensioni nel mondo che quest’anno potrebbero degenerare in conflitti. Riguardano tutte Paesi dove già si stanno verificando episodi di violenza, spesso con bilanci drammatici. Anche se praticamente nessuno ne parla, nel 2023 nei Paesi in cui di recente si sono verificati colpi di Stato le vittime sono state migliaia: 7800 in Burkina Faso, 4100 in Mali, 1000 in Niger. La mappa mondiale tracciata dall’International Rescue Committee non tiene conto delle guerre già in corso, e dunque non si sofferma né sul conflitto russo-ucraino né su quello israelo-palestinese. Guarda piuttosto ai Paesi in cui si sta verificando un conflitto “non convenzionale”, sia pure con diversa intensità, dividendoli in due categorie che comprendono 10 Stati ciascuna. Ne emerge la fotografia di una “Terza guerra mondiale a pezzi”, come ebbe a dire in modo lungimirante papa Francesco nel 2014. Nel complesso, i conflitti quest’anno potrebbero coinvolgere il 10% dell’umanità, cioè una persona ogni dieci. Tra gli uomini, le donne e i bambini colpiti dalle guerre si trovano il 75% delle persone obbligate a lasciare la propria abitazione e il 70% di quelle in grave insicurezza alimentare.

I focolai mappati si concentrano soprattutto nell’Africa subsahariana, nella fascia del Sahel ma anche nella regione nilotica, con il Sudan e il Sud Sudan ad alto rischio, e poi nell’Africa centrale, in particolare nella Repubblica Democratica del Congo, e nel Corno d’Africa, in Etiopia, Eritrea e Somalia. Il Medio Oriente è sempre fonte di preoccupazioni per il rischio di allargamento del conflitto Israele-Hamas a Libano, Siria, Giordania, Iran, Yemen e Iraq, fino al Pakistan. In Asia rimangono drammatiche anche le situazioni dell’Afghanistan, dove ora i talebani si stanno scontrando con forze affiliate all’ISIS, e del Myanmar, dopo il colpo di Stato del 2021. In America Latina spiccano Haiti, Paese di fatto in mano a bande criminali, e l’Ecuador, sconvolto dallo scontro tra narcotrafficanti e Stato. Infine c’è l’Europa orientale, che oltre alla guerra russo-ucraina ospita altri potenziali focolai di conflitti, dai Balcani alla Transnistria. I problemi non si esauriscono qui. In Estremo Oriente sono sempre da monitorare la situazione nel Mar della Cina e attorno a Taiwan e la frontiera tra le due Coree; nel Maghreb la Libia e la Tunisia.

Bisogna tornare indietro fino alla Seconda guerra mondiale per trovare un mondo così a rischio di esplodere in mille conflitti. Le due grandi guerre attualmente in corso, quelle in Ucraina e in Palestina, paiono in grado di innescare una spirale e di trascinare altri Paesi nel caos, avviando così un conflitto su larga scala, come si teme possa accadere fin d’ora in Medio Oriente. Di fronte a questa situazione incendiaria, appare evidente come la politica conti molto poco. Non soltanto quella multilaterale, che vede il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, in teoria dispositivo di risoluzione dei conflitti, bloccato dai veti incrociati dei cinque Paesi dotati di seggio permanente, ma anche quella bilaterale e delle singole potenze. Le ripetute visite del segretario di Stato degli USA Antony Blinken in Israele dopo il 7 ottobre non hanno prodotto nessun effetto concreto sulla linea adottata dal Governo Netanyahu nei confronti di Gaza. Così come l’incontro del 2019 tra Donald Trump e Kim Jong-un non portò certo alla fine del programma nuclear-missilistico della Corea del Nord. Il paradosso è che oggi i principali attori globali condividono un’unica visione del mercato, come mai era accaduto in passato, ma i nazionalismi, i sovranismi, gli espansionismi si sono liberati dai lacci imposti dalla Guerra Fredda. A differenza di quanto accadeva in un passato ancora vicino, non c’è più nessuno in grado di fermare davvero le aspirazioni di chi punta le sue armi contro qualcun altro. Che si tratti del premier israeliano, del capo di Hezbollah, del presidente della Federazione Russa oppure di quello degli Stati Uniti.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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L'Ambrosiano

Memoria

Il Giorno della Memoria è patrimonio irrinunciabile. Le tragedie di oggi ne rilanciano attualità e funzione. Memoria non è ricordo: è vita, progetto, futuro. Ri-cordare, riportare al cuore, è inizio, ma emozioni e stati affettivi non bastano. Memoria è intenzione, pensiero, spirito, anima; non è una volta per tutte; di essa occorre aver cura, nutrirla, proteggerla, tramandarla arricchita di condivisione e studio. I riti non son formule, adempimenti, ma modi della psiche per meglio strutturare l’innervazione della memoria nel tempo, nel succedersi delle generazioni, al di là della vita di singoli, gruppi, comunità; è garantirsi radici solide e sane oltre tempeste, bonacce, rigurgiti, rimossi, ombre. Il Giorno della Memoria è imprescindibile nella storia della modernità. È un ponte di ieri da cui una campata è protesa verso ciò che ha da venire. L’istituzione trae origine dalla faticosa presa di coscienza collettiva dell’unicità del male della Shoah, ma la memoria e il mai più di Auschwitz sono carne dell’umanità intera ferita per sempre. Vittime designate dello sterminio son stati gli Ebrei; obiettivo colpito l’uomo tout court. Se uno è posseduto dal demone dell’annientamento dell’altro distrugge l’umanità. Hannah Arendt riferì d’un discorso di Himmler ai comandanti delle SS. Il sodale di Hitler nella “soluzione finale” disse ai suoi boia che ciò che si attendeva da loro «è sovrumano», è di «essere sovrumanamente inumani». Frasi da brivido eterno! Una linea di demarcazione tra umano e non umano oggi passa anche attraverso la considerazione del Giorno della Memoria. È un errore legare la celebrazione della ricorrenza al giudizio politico di condanna dell’operato di Netanyahu. Non si rende nemmeno un buon servizio alla causa palestinese con accostamenti di nomi e vicende a
forte tonalità affettiva ma dimentichi che la storia non si ripete: siamo noi a scriverla con il bene e il male che siam capaci di scegliere e di generare. Forse l’oggi del Giorno della Memoria conquisterebbe coscienze e passioni riprendendo il titolo del messaggio per la Giornata della Pace del 2002 di Wojtyla: «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono».

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Dio s’è pentito d’aver fatto l’uomo

Dal 24 febbraio 2022 ci chiediamo come mai in Europa dopo 80 anni è scoppiata la guerra. Milioni di morti, Shoah, atomica sembravano aver vaccinato dal virus psichico dell’uomo che annienta l’altro. Negli Anni ’90 su Mladic e Karadžić ce la siam raccontata tra genocidi coda d’un conflitto nell’ex Urss, bombe intelligenti, Nato, caschi blu. Il 7 ottobre, la tragedia dell’irrisolto: stupri, carneficina, orrori di Hamas, risposta d’Israele che s’è difeso come suo diritto ma ha portato il conto dei morti a Gaza 20 a 1. Alle domande sommo un pensiero autocritico: la mia generazione ha creduto bastassero idee, dialogo, fedi religiose, diritti maturati col sangue dei morti in Guerra e lotta di Liberazione; se vita, cultura, umanità avevan sconfitto nazifascisti, riscattato persone, popoli, Stati avrebbero continuato a rilasciare libertà, positività, rispetto per l’altro come una pietra radioattiva non perde le sue proprietà nel tempo. Abbiamo avuto Maestri ma non ne abbiam tradotto il grande lavoro intellettuale in vita, politica, psicologia, scienze, economia, arte. Punto di riferimento della generazione nata con la guerra Martin Buber (1878-1965) in Il principio Dialogico scrive: «L’atteggiamento dell’uomo è duplice per la duplicità delle parole fondamentali che egli dice. Le parole fondamentali non sono singole, ma coppie di parole. Una di queste parole fondamentali è la coppia io-tu […] Anche l’io dell’uomo è duplice». Io-tu è del 1923! In Immagini del bene del male aveva scritto: «L’uomo è diventato “simile a Dio” in quanto come lui “conosce” l’antiteticità; ma non può come Dio esserle superiore, si immerge in essa, ne è assorbito». Preso dentro l’uomo è «in balia della conoscenza del bene e del male» ma non ne supera l’antitecità, anzi porta nel creato arbitrio e caoticità; è «la ragione per cui Dio si pente di aver fatto l’uomo». Se a Mosca, Washington, Gerusalemme (lì Buber insegnò), Kiev, Doha Bruxelles, Teheran si realizzasse che Dio cui va stretto l’elmetto potrebbe pentirsi d’aver prestato somiglianza e immagine a un uomo che vuole annientare l’altro, forse s’affaccerebbe un tarlo, il dubbio. Fermarsi, interrogarsi, prender l’iniziativa, parlare: io-tu, uomo-uomo, Pace!

  • Marco Garzonio

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    Le donne nella musica hanno costantemente sfidato difficoltà e infranto barriere, hanno lottato attraverso esperienze potenti e stimolanti e conquiste significative, spesso in un modo fatto e gestito dagli uomini. Le loro vite, le storie complesse, le loro canzoni e le esibizioni hanno contribuito in modo determinante alla storia della musica e all’emancipazione femminile. C'è ancora molta strada da fare per le donne nell'industria musicale, ma è un motivo in più per celebrare le pioniere, le portatrici di cambiamento e le donne che con la loro determinazione, libertà, nonostante le difficoltà e le tragedie e tormenti personali hanno sfidato le aspettative, il sessismo la misoginia e le avversità nel corso della loro carriera musicale. La protagonista di questa puntata è Karen Carpenter. Scritto e condotto da Elisa Graci.

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    Mario Tozzi, ricercatore, geologo e divulgatore racconta tutti i dubbi e le perplessità sulla costruzione del ponte sullo stretto di Messina al microfono di Michele Migone ne La scatola magica di Cecilia Di Lieto.

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    Hani Gaber: “Chiediamo al mondo e all’Italia di riconoscere lo Stato di Palestina”

    Dopo l'approvazione del Governo israeliano del piano di occupazione di Gaza, parla a Radio Popolare Hani Gaber, console rappresentante per il Nord Italia dell'Autorità Nazionale Palestinese: “È uno schock, ci sarà altra sofferenza. Chiediamo al mondo e all’Italia di riconoscere lo Stato di Palestina”. Ascolta l’intervista di Alessandro Braga.

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    Essere trans in carcere - 08/08/2025

    Dalle difficoltà di accesso ai percorsi trattamentali e alle cure fino al rischio di isolamento, le persone trans in carcere scontano una doppia pena. Ne abbiamo parlato a partire da testimonianze registrate di detenuti trans nel carcere di Bollate e attraverso l'esperienza sul campo di chi il carcere lo frequenta e lo conosce. Con Susanna Marietti e Patrizio Gonnella, dell'Associazione Antigone e conduttori della trasmissione Jailhouse Rock, e con Davide Podavini, attivista per i diritti lgbt+ e professore in carcere. Dalle 15, concerto della "Freedom Sounds", band formata da detenuti del carcere di Bollate. Moderazione di Elena Mordiglia. Il meglio della festa di Radio Popolare, All You Need Is Pop del 6, 7 e 8 giugno 2025

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