Approfondimenti

Il rischio di uno scontro diretto NATO-Russia, la minaccia di Putin sul gas all’Europa e le altre notizie della giornata

Volodymyr Zelensky ANSA

Il racconto della giornata di mercoledì 27 aprile 2022 con le notizie principali del giornale radio delle 19.30. La guerra in Ucraina sembra assumere ogni giorno di più una dimensione internazionale. Putin ha minacciato ancora una volta l’Occidente dopo il nuovo incontro per aumentare le sanzioni, mentre sul campo il conflitto si va sempre più vasto. La Corte costituzionale ha stabilito oggi che tutte le norme che attribuiscono automaticamente il cognome del padre ai figli sono illegittime. Doppio attacco di Confindustria, tramite Il Sole 24 Ore e il presidente Bonomi, al Ministro del Lavoro Orlando per la proposta di legare gli incentivi alle imprese ai rinnovi dei contratti scaduti. La cittadinanza per i figli di immigrati nati in Italia rimane un’utopia: entro poche settimane si sarebbe dovuto portare in aula il cosiddetto Ius Scholae, ma anche stavolta niente da fare. Infine, l’andamento della pandemia di COVID-19 in Italia.

Il rischio di un conflitto internazionale è sempre più reale

La guerra in Ucraina sembra assumere ogni giorno di più una dimensione internazionale. Anche oggi sono arrivati segnali di un’ulteriore escalation.
Innanzitutto dal campo, da cui continuano ad arrivare notizie di attacchi fuori dai confini ucraini. C’è poi la questione del gas, con lo scontro sulle forniture tra la Russia e l’Unione europea. E infine le parole di Vladimir Putin.
In un discorso ai parlamentari a San Pietroburgo il presidente russo ha avvisato l’Occidente: “Se qualcuno dall’esterno ci minaccerà, la nostra risposta sarà fulminea. Risponderemo con mezzi finora inutilizzati”.
Il discorso arriva all’indomani del vertice in Germania, dove i ministri della difesa di 40 paesi hanno coordinato l’invio di nuove armi all’Ucraina.
Sia nelle parole, che nei fatti, dunque, il rischio di uno scontro diretto tra Nato e Russia si fa sempre più consistente. Alberto Negri, editorialista del Manifesto:


 

La guerra si allarga anche sul campo: attacchi in Russia e Transnistria

Anche le notizie che arrivano dal campo suggeriscono un allargamento del conflitto.
Nelle ultime ore si segnalano diversi attacchi fuori dai confini ucraini. Nella regione di Belgorod, nella Russia occidentale, è stato colpito un deposito di munizioni. L’esplosione è avvenuta nella notte. Non è la prima volta che la Russia subisce attacchi di questo tipo, diretti a installazioni militari o depositi di carburante, in questa zona vicina alla frontiera ucraina. Oleksy Arestovich, uno dei principali consiglieri di Zelensky, ha definito i bombardamenti sul territorio russo “la ricompensa e il karma per quello che hanno fatto a noi”. Colpita anche la città di Kursk, sempre in territorio russo.
C’è poi la Transnistria, che si teme possa diventare un nuovo fronte del conflitto, il primo oltre i confini. La Transnistria è un’autoproclamata repubblica filorussa, non riconosciuta dall’ONU, ma solo da Mosca. Si trova stretta tra la Moldavia e il confine occidentale ucraino. Qui ci sono state tre esplosioni nelle ultime 48 ore, non rivendicate. Sono state distrutte le antenne di trasmissione della radio russa e unità militari. Mosca e Kiev si accusano a vicenda di essere dietro agli attacchi. Non è ancora chiaro se si tratta di operazioni ucraine o di false flag messi in piedi dai servizi speciali russi.
Infine, i combattimenti proseguono anche nel territorio ucraino, in particolare nel Donbass.

La provocazione russa sul gas all’Europa. Quanto è concreta la minaccia di Putin?

Centrale è anche la questione del gas. La Russia oggi ha bloccato le forniture a Polonia e Bulgaria, scatenando la reazione europea. Il Cremlino ha giustificato lo stop come una ritorsione per gli atti ostili contro la Russia. E ha minacciato ulteriori blocchi ad altri paesi europei, se il gas non sarà pagato in rubli. “È una provocazione, reagiremo”, ha risposto la presidente della Commissione Von der Leyen.
Sul gas, quanto è concreta la minaccia di Putin per l’Europa? Stefano Grazioli, giornalista esperto di Europa dell’Est:


 

La consulta dichiara illegittime le norme sull’automatismo del cognome paterno ai figli

(di Chiara Ronzani)

C’era una volta, nel 1979, la prima proposta di legge per la libera scelta del cognome dei figli. 43 anni dopo, le proposte di legge che giacciono ignorate in parlamento sono sei. Solo nel 2014 una fu esaminata dalla Camera prima di essere lasciata cadere.
Neppure le sentenze sono una novità. La prima della Corte costituzionale risale a 16 anni fa e decretò che l’attribuzione del solo cognome paterno era un retaggio patriarcale, ma poi non se ne fece nulla.
Nel 2014 la Corte europea dei diritti umani condannò l’Italia affermando che la cancellazione dell’intera genealogia materna era una chiara discriminazione sulla base del sesso, ma anche stavolta, la cosa portò solo ad una parziale modifica: la possibilità di aggiungere, DOPO quello del padre, il cognome della madre.
La Corte parlò anche quella volta della necessità di indifferibile intervento legislativo, perché i tribunali possono sì condannare e indicare, ma poi le leggi vanno fatte dal Parlamento.
Ma nei decenni nessun parlamento (tutti a maggioranza maschile) ha voluto sanare questa discriminazione. Non l’ha fatto nessuna maggioranza, di nessun colore politico. Il perché lo spiega benissimo il leghista integralista cattolico Simone Pillon: “Il cognome paterno non è da considerare come un retaggio patriarcale. La madre dona il corpo, il padre consegna l’appartenenza ad una storia, ad una comunità, ad una famiglia”. La madre, insomma, è un mero strumento per portare avanti la storia dei padri. Tutto quello che la riguarda può essere dimenticato, cancellato, ignorato.
Nel 2014 la promotrice della legge Michela Marzano si sentì dire dai colleghi parlamentari del Pd che “si sarebbe distrutto l’impero simbolico”. Riflettendoci, distruggere l’impero simbolico del patriarcato, che si porta dietro la discriminazione sistematica e concreta delle donne, perché no?

L’utopia della cittadinanza per i figli di immigrati nati in Italia

(di Luigi Ambrosio)

La cittadinanza per i figli di immigrati nati in Italia rimane un’utopia. Nel 2017 lo Ius Soli venne messo da parte perché Alfano, alleato del PD allora guidato da Renzi, aveva minacciato di far cadere il governo. Oggi Alfano fa il manager nel settore privato e Renzi ha fondato un altro partito.
Ora sembrava la volta buona. Entro poche settimane si sarebbe dovuto portare in aula il cosiddetto Ius Scholae, versione 2.0 dello Ius Culturae, che a sua volta era una mediazione rispetto allo Ius Soli con l’introduzione dell’obbligo di avere studiato in Italia almeno 5 anni.
Ma anche oggi, niente da fare. La conferenza dei capigruppo di Montecitorio, cioè i partiti, ha deciso di togliere lo Ius Scholae dell’ordine del giorno di maggio. Motivazione: ci sono le elezioni amministrative, Forza Italia vorrebbe votare la legge ma perde voti se lo fa. Motivazione cinica e ovviamente informale, usata un sacco di volte quando si tratta di diritti civili.
Giochi di Palazzo insomma. Che poi, è solo Forza Italia a ragionare così? Anche perché non è ancora stata fissata alcuna data per la discussione dopo le amministrative. E nei corridoi di Montecitorio già è partito, nelle conversazioni informali, il balletto tra alleati: “Sono loro che hanno dei dubbi”. “No, sono loro, non si capisce cosa vogliono fare”.

Confindustria attacca Orlando: “No ai ricatti per aumentare i salari”

(di Massimo Alberti)

Confindustria se la prende con il Ministro del Lavoro Andrea Orlando. Prima il giornale di Confindustria, il Sole 24 Ore, poi il presidente Bonomi hanno accusato Orlando di voler fare un ricatto, riferendosi alla modesta proposta del ministro di legare gli incentivi alle imprese ai rinnovi dei contratti scaduti. “Noi rischiamo la crisi sociale e una caduta della domanda interna. Di questo le imprese si dovrebbero preoccupare” ha risposto Orlando.
A parole dal suo partito, lo hanno difeso. Ma nel merito la sua proposta è già stata bocciata, anche dal PD.
Da queste parti lo scrivevamo mesi fa: i rinnovi salariali che riguardano oltre metà dei dipendenti saranno un tema politico. Inflazione, aumenti energetici, guerra, hanno accelerato il problema di perdita di potere d’acquisto e rinuncia all’essenziale per milioni di famiglie. Al di là delle battute sui condizionatori, il governo nulla fa. Dai tavoli, sporadici, col sindacato, non esce nulla di concreto. Né i sindacati, dopo lo sciopero generale di dicembre, alzano la voce. In questo immobilismo si consuma l’ennesimo attacco di Confindustria al ministro del lavoro Orlando.
Il capo degli imprenditori Bonomi parla di ricatto per la modesta proposta di subordinare altri incentivi alle imprese ai rinnovi contrattuali. Cioè di pagare, di fatto, con soldi pubblici aumenti salariali che dovrebbero essere a carico delle imprese. A parole dal PD difendono il proprio ministro, ma nei fatti la pur modesta ipotesi di Orlando è bocciata in nome dell’altra proposta sul tavolo, l’ennesimo taglio del cuneo fiscale, che fin qui non ha cambiato nulla nel triste primato dei salari italiani, gli unici in 30 anni a calare in Europa. Taglio che scaricherebbe di nuovo sulla fiscalità generale, cioè sugli stessi lavoratori, gli aumenti a loro dovuti. E su questo, almeno a parole, sono tutti d’accordo. Il tema è appunto politico, per questo l’elemento dei rinnovi salariali è così sensibile: chi deve pagare la crisi, come redistribuire risorse. Il governo non ha alcuna intenzione di aprire questo fronte, lasciandone la risoluzione agli sbilanciati rapporti di forza tra le parti sociali. Gli imprenditori, che stanno scaricando gli aumenti di costi sui consumatori, cioè i lavoratori, non hanno intenzione di intaccare i profitti. Mentre la spirale inflazione-salari sollevata dall’Istat sta già colpendo un mondo del lavoro strutturalmente fatto di precariato e salari bassi.

Frigolandia, la terra di Frigidaire che rischia di sparire

(di Massimo Alberti)

Per raggiungere Frigolandia bisogna arrampicarsi tra le colline dell’Umbria, le “verdi colline” qui è tutt’altro che luogo comune. Siamo a qualche centinaia di metri dal piccolo centro di Giano dell’Umbria, 3.000 abitanti tra curve e strade strette, tra boschi, uliveti e vigneti. Si respira profumo di pineta, panorami stupendi che si perdono a vista d’occhio. La battuta viene facile: ma come si arriva qui con i blindati per fare uno sgombero??
La Repubblica di Frigolandia, la terra di Frigidaire, un “Ashram socratico”, un “Monastero eurotibetano”. La prima Repubblica Marinara di Montagna, un Museo/Laboratorio dell’Arte Maivista – definizione coniata da Andrea Pazienza – dal 2005 ospita il museo, attività culturali e artistiche, oltre all’archivio di 42 anni di pubblicazione di “Frigidaire” e “Il Nuovo Male”, la storia del fumetto e della cultura underground italiano.
Ora questa realtà rischia di sparire, spazzata via da un’ordinanza di sgombero per una vicenda giudiziaria, e di possibile speculazione, che sembra surreale. [CONTINUA A LEGGERE SUL SITO]

L’andamento dell’epidemia di COVID-19 in Italia

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    Referendum 8 e 9 giugno, lavoro e cittadinanza. Una quarantina di personalità della ricerca e dell’università hanno lanciato un appello al voto per i cinque referendum. I quesiti chiedono di: «Vivere da cittadini», riducendo da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale in Italia richiesto per ottenere la cittadinanza italiana ai maggiorenni stranieri; «Vivere vite meno precarie», riducendo la possibilità di usare contratti di lavoro a tempo determinato; «Lavorare senza licenziamenti illegittimi», riducendo le possibilità di licenziamenti senza giusta causa; «Lavorare senza discriminazioni», riducendo le possibilità di licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese; «Lavorare senza infortuni», riducendo i rischi di incidenti e morti sul lavoro. Ospiti di Pubblica, per parlare di partecipazione, due firmatari/e: Filippo Barbera, sociologo dell’università di Torino e Donatella Della Porta, scienziata politica alla Scuola Normale Superiore di Firenze. Diverse le domande. E’ arrivato il momento di abbassare la soglia del 50% di partecipazione per rendere valido il referendum? Perchè fallisce la partecipazione? Quanto c’entra la complessità del quesito, la credibilità dei proponenti? «Non possiamo arrenderci all’assenteismo, ad una democrazia a bassa intensità», ha detto il presidente Mattarella per il 25 aprile. Il capo dello stato ha lasciato, però, inesplorate le ragioni profonde dell’astensione, ragioni che risiedono anche nell’impoverimento sociale, oltre che economico, del lavoro. Ha scritto la studiosa, dirigente dell’Istat, Linda Laura Sabbadini: «Il lavoro non è solo un mezzo per guadagnarsi da vivere: è la base della coesione sociale di un paese».

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