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Referendum, quorum alla portata?

La sfida sta tutta lì: raggiungere il quorum. E se fino a un paio di settimane fa l’obiettivo sembrava quasi impossibile, dopo l’inchiesta di Potenza, con il coinvolgimento dell’ex ministra Guidi, la meta non sembra più irraggiungibile. Ci credono i Comitati No Triv che stanno moltiplicando le loro iniziative sul territorio e che concluderanno la campagna con una grande iniziativa a Rimini nel prossimo fine settimana. Il caso Tempa Rossa ha dimostrato l’ingerenza della lobby petrolifera e rivelato come l’interesse pubblico sia, anche in questo settore, messo a rischio dagli affari di pochi e dalle pressioni sulla politica.

L’effetto potrebbe essere una maggiore partecipazione al referendum del 17 aprile, fino a quel 50 per cento +1 degli aventi diritto al voto che pareva fuori dalla portata. Gli ultimi sondaggi dimostrano un accresciuto interesse al voto e una crescita del Sì, anche se il raggiungimento del quorum resta difficile. A pesare sarà certamente l’indicazione all’astensione da parte del Partito democratico, almeno questa è la linea ufficiale, anche se nel Pd c’è una spaccatura, con la minoranza schierata per il voto. Sono per il Sì il Movimento 5 Stelle, Sinistra ecologia e libertà e Rifondazione comunista. A destra c’è una generica adesione al No, o al non voto, anche se nessuno si è esposto più di tanto. Punta decisamente al fallimento del referendum la Confindustria, con il presidente Squinzi che ha dichiarato di non andare a votare il 17 aprile. Sul fronte sindacale le posizioni sono diversificate: Cisl e Uil sono contrarie, mentre la Cgil non darà indicazioni di voto. La federazione dei chimici del sindacato di Camusso si è espressa per il No, mentre la Fiom di Maurizio Landini è schierata per il Sì. Per il Sì, oltre ai Comitati No Triv ci sono anche le tre maggiori associazioni ambientaliste: Legambiente, Greenpeace e Wwf che stanno facendo campagna per il voto al fianco dei comitati. Poi ci sono le Regioni che hanno promosso il referendum: sono nove e hanno come capofila il governatore della Puglia Michele Emiliano che si sta giocando la partita anche in chiave di peso interno al Partito democratico.

La strategia di chi sostiene il Sì è quella di allargare il senso di questo referendum. Se il quesito appare infatti piuttosto tecnico e limitato a precise fattispecie, la sfida viene spostata su un piano più alto. È una scelta di campo, si dice. Un’occasione irripetibile per dare un segnale politico: l’Italia deve puntare a un modello energetico sostenibile e investire risorse sulle energie rinnovabili e pulite. Questo è il messaggio principale che i sostenitori del referendum stanno cercando di far passare per incentivare il voto. Ma, a ben vedere, anche il merito del quesito referendario non è poi così complicato e tantomeno irrilevante.

Il referendum punta ad abrogare una norma contenuta nella Legge di stabilità, che l’ha ripresa dal cosiddetto “Decreto sblocca Italia” . Questa norma si riferisce alle trivellazioni per il petrolio e il gas metano che vengono effettuate entro le 12 miglia marine (le cosiddette acque contigue, circa 20 chilometri). Non sono la maggior parte delle trivellazioni italiane che si trovano invece oltre le 12 miglia. Oggetto del referendum sono dunque 21 trivellazioni: 7 in Sicilia, 5 in Calabria, 3 in Puglia, 2 in Basilicata, 2 in Emilia Romagna, 1 nelle Marche e 1 in Veneto. Le attività estrattive vengono effettuate sulla base di una concessione che ha una durata iniziale di 30 anni e che può successivamente essere prorogata. Ma, alla fine dei periodi di proroga, la concessione si esaurisce e il giacimento deve essere abbandonato. Questo prevedeva la normativa fino all’intervento del governo Renzi. Il quale ha deciso di togliere il termine conclusivo della concessione, consentendo la continuazione dell’attività estrattiva senza più alcun termine, fino a che il giacimento non sia esaurito. Il referendum del 17 aprile punta a eliminare questa novità: se vincerà il Sì si tornerà alla situazione precedente, in cui la concessione si esaurisce alla data prevista.

Importante ricordare che le concessioni sono e restano quelle già operanti entro le 12 miglia. Resta infatti esclusa la possibilità di nuove concessioni entro quel limite. Anche se, sottolineano i sostenitori del Sì, nell’ambito di una stessa concessione non sono escluse ulteriori attività estrattive o di ispezione. Il che giustifica ancora di più il fatto che a quelle concessioni sia dato un preciso limite temporale.

C’è poi un altro argomento da parte del Sì. Quello dei controlli. Le proroghe alle concessioni estrattive sono infatti sottoposte a controlli e verifiche sull’impatto ambientale dell’attività. Se la concessione venisse prorogata sine die si perderebbe la possibilità di verificare di volta in volta l’adeguatezza delle misure di sicurezza e di rispetto del mare. Ancora, i sostenitori del Sì affermano che eliminare qualsiasi termine finale per le concessioni è un grosso favore all’industria petrolifera anche da un altro punto di vista: evitare i costi dello smantellamento. Se la durata della concessione arrivasse fino all’esaurimento del giacimento, infatti, le compagnie potrebbero decidere di estrarre a un ritmo molto più basso per prolungare la vita stessa del giacimento, spostando in là nel tempo un costo molto alto per loro, quello appunto dello smantellamento degli impianti. Viceversa, se la concessione avesse un termine ben preciso, questo non si verificherebbe.

I sostenitori del No hanno usato soprattutto due argomentazioni. La prima è quella energetico-industriale. L’Italia – si dice – ha la possibilità di sfruttare i suoi giacimenti che, sebbene coprano percentuali piuttosto esigue del nostro fabbisogno, comunque esistono e sarebbe sciocco non approfittarne. Anche perché il mancato sfruttamento costringerebbe a un corrispondente incremento delle importazioni e quindi della dipendenza dall’estero. Inoltre, attorno all’attività estrattiva si è sviluppata un’industria altamente specializzata, spesso all’avanguardia, che rischierebbe di subire un duro colpo dalla vittoria del Sì.

La seconda argomentazione riguarda i posti di lavoro. Si rischia, dicono i sostenitori del No, un seria ricaduta occupazionale, non tanto direttamente nelle piattaforme, quanto piuttosto nell’indotto che conta complessivamente circa 40mila addetti.

Le argomentazioni del No vengono confutate dai sostenitori del Sì. In particolare quest’ultima. Se il referendum passerà – dicono – non succederà nulla nell’immediato. Non ci saranno licenziamenti e crisi aziendali. Questo perché il referendum non chiude gli impianti il giorno dopo, ma lascia la concessione in vita fino al termine già stabilito. Ci sarà dunque tutto il tempo da parte dell’industria di riconvertirsi alle energie rinnovabili, come già sta avvenendo in tutto il mondo a partire dagli Stati Uniti di Obama, per non parlare, in Europa, della Germania.

Ecco, dunque tornare al tema di fondo: quello del futuro energetico dell’Italia. Se è vero che il quesito referendario tocca una specifica situazione, è altrettanto vero che i referendum hanno sempre contribuito a dare una linea politica più generale. Finalmente, dicono i sostenitori del Sì, possiamo esprimerci su una questione cruciale. E, nell’anno della Conferenza internazionale sul clima, con l’allarme per il riscaldamento globale, dobbiamo mandare un messaggio chiaro: il futuro energetico deve essere sostenibile. E questa è, in fondo, l’argomentazione più convincente. Pur con tutti i limiti che questo quesito referendario ha, è fuori discussione che il segnale politico di una vittoria del sì sarebbe netto: gli italiani vogliono più energie rinnovabili e un’economia che valorizza i territori con le loro potenzialità: il mare, il paesaggio, il turismo.

Domenica 17 aprile si voterà dalle 7 alle 23. I Comitati referendari spingono perché si vada alle urne nella prima parte della giornata, in modo da avvicinarsi al quorum e convincere così gli indecisi ad andare a votare.

  • Autore articolo
    Alessandro Principe
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