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Partito Democratico USA unito contro Trump

Alexandria Ocasio-Cortez

Dopo le elezioni del 2016, la rivalità tra i sostenitori di Hillary Clinton e quelli di Bernie Sanders ha consumato il dibattito sul futuro del partito democratico americano, ancora sconvolto dalla sconfitta. Quel duello ideologico è stato un elemento determinante della gara per la leadership del Partito Democratico, il DNC, o Comitato Nazionale Democratico. Gara conclusasi con un compromesso che, di fatto, ha sancito la tregua tra l’anima centrista e quella progressista del partito, con la nomina dell’ex segretario del Lavoro di Obama Tom Perez come presidente del DNC e del sandersiano Keith Ellison come suo vice.

Alla vigilia delle importantissime elezioni congressuali di medio termine, la “guerra civile” che durante le presidenziali di due anni fa ha letteralmente spaccato in due il partito democratico, ostacolandone la vittoria, sembra poco più di una scaramuccia nella battaglia senza esclusione di colpi che entrambi stanno conducendo insieme contro Trump.

L’accordo progressisti-centristi ha prodotto un numero storico di candidature femminili e posto le basi per quella che secondo i sondaggisti potrebbe essere un’ondata blu (blu è il colori del partito democratico) alle elezioni di novembre per il rinnovo di tutta la Camera e di un terzo del Senato .

I democratici ricordano ancora lo shock e il trauma della sconfitta, quella famigerata notte di quasi due anni fa”, spiega Larry Sabato, direttore del Centro per la Politica dell’Università della Virginia. “Da allora l’amaro in bocca è solo aumentato”. “L’’Effetto Trump’ ha finito per spegnere il vulcano della guerra fratricida all’interno del partito”, incalza Sabato, “i democratici hanno rispolverato il celebre proverbio americano secondo cui un uccello non può spiccare il volo con un’ala sola. Lo stesso vale per loro“.

Basta dare un’occhiata alle primarie di quest’anno per rendersi conto che hanno prodotto una serie di vittorie per entrambe le “ali” del partito democratico. I progressisti hanno vinto in ​​Pennsylvania, Nebraska e Idaho, mentre i candidati dell’establishment hanno celebrato vittorie in Illinois, Texas e California. La gara forse più ad alto profilo si è giocata nel quartiere newyorchese di Queens dove Alexandria Ocasio-Cortez, la socialista democratica di 28 anni allieva di Bernie Sanders ha battuto l’ex deputato Joe Crowley, uno dei politici centristi più rispettati e seniores del partito, l’erede disegnato alla leadership democratica quando Nancy Pelosi, in sella da anni, getterà la spugna l’anno prossimo.

L’aspetto forse più importante della metamorfosi del partito democratico post-Trump è l’aver buttato alle ortiche i vecchi dogmi e slogan a senso unico per diventare, come la chiamano qui in America, “una grande tenda” sotto la quale coesistono fazioni e ideologie molto diverse tra loro: dai socialisti del Queens ai democratici anti-aborto e pro-armi del profondo sud, dove per vincere bisogna scendere a compromessi con l’ideologia ultraconservatrice del posto.

Ma se le due anime del partito democratico non sono di certo una novità, il suo spostamento a sinistra, dopo l’entrata in campo di Bernie Sanders nella corsa presidenziale del 2016, è stato drammatico. Gli analisti sono concordi nell’attribuire al Senatore del Vermont ed ex rivale di Hillary Clinton il merito di aver introdotto l’agenda economica populista e progressista nel mainstream del partito democratico. Idee quali un sistema sanitario di stampo europeo, una volta dismesse come un’eresia dalla destra e un’utopia dalla sinistra, ora hanno il sostegno di oltre la metà dei parlamentari democratici della Camera e di un terzo del Senato.

La domanda in ambito democratico non è più “come riformare l’Obamacare?” ma “Qual è il modo migliore per arrivare all’assistenza sanitaria universale?”. Un cambiamento a dir poco radicale in un paese dove l’intervento statale è considerato un tabù comunista tanto che circa 40 milioni di americani oggi non hanno alcun tipo di assistenza medica. Se i democratici avranno la meglio a Novembre ciò dovrebbe cambiare. Secondo un’analisi Brookings, il 42% dei candidati democratici in corsa per la prima volta si dichiara progressista, cioè favorevole all’assistenza medica e all’università gratis per tutti, rispetto a solo il 14% nel 2014 e il 13% nel 2016.

Eppure sono ben pochi i candidati disposti a sfruttare l’antica rivalità “centrista contro progressista”. Nelle primarie democratiche per il governatorato della Georgia, ad esempio, la progressista Stacey Abrams ha vinto con il sostegno di Hillary Clinton e Bernie Sanders e potrebbe diventare la prima donna nera governatrice americana. E alle primarie democratiche in Kentucky la progressista Amy McGrath, una ex pilota e marine alla sua prima candidatura ha sconfitto Jim Gray, il sindaco di Lexington, su cui il partito aveva puntato credendolo il candidato più forte nell’ultra conservatore stato.

La molla di queste elezioni non è solo ideologica”, mette in guardia David Wasserman, analista politico del Cook Political Report, “Oggi l’elettore democratico è motivato soprattutto dall’intenso desiderio di nominare donne nel 2018“. Anche per questo la nuova unità ritrovata ha rischiato di incrinarsi quando il presidente del DNC, Tom Perez, è intervenuto nella corsa di governatore a New York per dare l’endorsement alla rielezione di Andrew Cuomo contro la candidata progressista Cynthia Nixon, la star di Sex and the City, attivista da sempre nella sinistra. Una mossa bollata da Bernie Sanders come un errore gravissimo perché, ha spiegato, “il presidente del DNC dovrebbe essere imparziale”.

Ma a parte questo incidente di percorso, alle primarie democratiche i vertici del partito si sono prodigati ad aiutare i candidati, centristi e progressisti, con le migliori chance di vincere le elezioni generali contro il rivale repubblicano a Novembre. La strategia, che ha premiato un progressista in Texas, ha pagato in California, dove candidati centristi si sono piazzati un po’ ovunque. Per riconquistare il Congresso, il Partito Democratico sa di dover rispettare una mappa politica estremamente etereogenea. L’agenda progressista condivisa dagli elettori nelle zone costiere liberal come New York o San Francisco non può funzionare negli stati repubblicani del profondo sud e nella cosiddetta bible belt abitata da fondamentalisti cristiani, dove anche gli elettori democratici sono più conservatori.

Per vincere a Novembre i democratici debbono conquistare voti anche in stati quali il West Virginia dove alle primarie democratiche dello scorso maggio Joe Manchin, un politico conservatore, ha stracciato la rivale progressiva Paula Jean Swearengin, con circa 40 punti percentuali di vantaggio. Eppure l’obiettivo di Joe Manchin è identico a quello della socialista newyorchese Alexandra Ocasio-Cortez: riprendere la maggioranza al Congresso e fermare le devastanti politiche di Trump, dall’ambiente alla sanità, dalla guerra contro le minoranze a quella contro i sindacati, dall’aborto agli attacchi contro la libertà di stampa. È un esempio straordinario di solidarietà in nome di un ideale comune che la sinistra di tutto il mondo, Italia inclusa, farebbe bene ad imitare.

Alexandria Ocasio-Cortez
Foto dalla pagina FB di Alexandria Ocasio-Cortez https://www.facebook.com/Ocasio2018/
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    Alessandra Farkas
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    A Brescia è in corso l’ottava edizione del Festival della Pace. Uno degli eventi di maggior interesse è la mostra al Museo Santa Giulia che ha l’obiettivo di mettere in luce il ruolo dell’arte come pratica capace di tessere relazioni di solidarietà. In mostra opere di Emily Jacir, artista palestinese Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 2007. Le sue opere sono testimonianza dell’ingiustizia e oppressione subite dal suo popolo. In mostra anche le opere salvate dal bombardamento avvenuto nel 2023 di Eltiqa (in lingua araba: “incontro”) un centro per l’arte contemporanea a Gaza. Abbiamo incontrato in mostra due degli artisti che hanno fondato Eltiqa: Mohammed Al-Hawajri e Dina Mattar, poi anche Emily Jacir davanti alle sue installazioni. Le interviste di Tiziana Ricci.

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    Carlo Rovelli, fisico teorico, è stato ospite oggi a Pubblica. Dieci anni fa, pochi giorni dopo le stragi di Parigi e del Batclan nelle quali furono uccise 130 persone, lanciò una «proposta per la Mesopotamia». Rovelli la illustrò a Radio Popolare: «l’Occidente - sosteneva - può continuare a bombardare (l’Isis, ndr), ma i bombardamenti, come ripetono i vertici militari, non portano a nulla. Nessuno ha voglia di invadere di nuovo la Mesopotamia, per riaprire il problema. Penso sia necessario parlare con lo Stato islamico. L’alternativa è la guerra senza fine». Dieci anni dopo, e in altri contesti, il senso della proposta di Rovelli resta intatto. Ne abbiamo parlato oggi con lui nel corso della trasmissione, insieme al suo ultimo libro «Sull'uguaglianza di tutte le cose. Lezioni americane». Nel testo (pubblicato da Adelphi, 2025) sono raccolte sei lezioni che Rovelli ha tenuto a Princeton (Stati Uniti) un anno fa, chiamato come fisico a raccontare ai filosofi il mondo dei fenomeni quantistici. Che cosa è accaduto negli ultimi dieci anni nella conocenza del mondo? «Ci siamo accorti sempre di più che le grandi teorie del XX secolo, scientifiche e fisica, funzionano incredibilmente bene», racconta Rovelli. «Lo sforzo ora è cercare di capire cosa implicano queste grandi teorie per la nostra comprensione del mondo. Il contenuto del mio libro è questo: che cosa ci dice sul mondo la grande rivoluzione culturale del XX secolo, quella dei quanti e della relatività». Buona lettura.

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    Col sociologo e scrittore Luciano Ardesi facciamo il punto sul #SaharaOccidentale, a 50 anni dalla #MarciaVerde del #Marocco; poi parliamo di #Cop30 e #clima con Lydia Wanja KIngeru, giovane attivista ambientalista del #Kenya in partenza per Belém. A cura di Sara Milanese.

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