
“Double Infinity” è un disco importante per i Big Thief. Una delle band più importanti dell’alt rock USA di questi anni nelle ultime due stagioni aveva perso uno dei suoi elementi, il bassista Max Oleartchik, ufficialmente per “motivi personali”. Ma per un gruppo che aveva spesso mostrato un’immagine di grande coesione e condivisione, poteva essere un passaggio critico.
Forse non è un caso che “Double Infinity” sia diventato un disco corale, in cui per la prima volta Adrianne Lenker, Buck Meek e James Krivchenia hanno registrato suonando live con altri 10 musicisti, scegliendo per questo scopo un mega-studio celeberrimo, come il Power Station di New York.
Niccolò Vecchia li ha intervistati per Volume, il nuovo magazine musicale di Radio Pop, condotto da Elisa Graci e Dario Grande. Qui di seguito trovate l’intervista integrale.
Radio Popolare: Partiamo da una questione molto semplice. Nel comunicato stampa ho letto che questo album costituisce «una grande svolta» per voi. Potreste spiegare ai nostri ascoltatori di Radio Popolare se sentite davvero che sia così e quale sia il significato di questa svolta?
James: Sì, in parte «grande svolta» è linguaggio da comunicato stampa, serve a creare un po’ di hype. Ma allo stesso tempo guardiamo a ogni album in questo modo: cerchiamo sempre qualcosa che funzioni come catalizzatore per il cambiamento, per la riflessione o per l’esplorazione in un modo non già collaudato. Siamo molto radicati nella nostra musica, nelle canzoni, che sono la base sicura su cui possiamo fare affidamento. I dischi, il loro suono e, in questo caso, tutte le persone diverse che hanno lavorato con noi, sono le zone in cui ci spingiamo oltre e proviamo cose nuove. Soprattutto suonare con altri dieci musicisti registrando dal vivo l’intero album insieme: quello è stato davvero molto diverso, una vera svolta rispetto al quartetto più ristretto degli altri dischi.
Adrianne: La frase completa sarebbe: una svolta dal formato con cui avevamo vissuto il gruppo in passato.
Buck: Gli unici brani o dischi che voglio ascoltare, o realizzare, sembrano essere allo stesso tempo un compimento delle mie speranze e aspettative, e una svolta rispetto a quelle stesse aspettative. Per me questa è l’essenza della creatività: sfruttare le mie stesse aspettative.
Adrianne: Ogni album è così. Spesso ci chiedono: «In cosa è diverso questo dai vostri album precedenti?» Ma se l’hai fatto bene, ogni album dovrebbe sembrare come lasciare le rive del conosciuto per dirigersi verso l’ignoto. Correre rischi, imparare qualcosa. Per me è un segnale che stiamo andando nella direzione giusta quando sentiamo di entrare in un territorio sconosciuto, uscendo dalla zona di comfort. Non si tratta di fare le cose diverse solo per il gusto di farle diverse. Stai sempre cambiando, quindi naturalmente vuoi che sia diverso. La domanda è: sei disposto ad andare in quella direzione?
Radio Popolare: Ricordo una nostra precedente intervista con Buck, sul disco precedente e sul modo in cui avevate lavorato per quell’album. Ora, leggendo che tutto è iniziato al Power Station di New York, immagino che l’atmosfera sia stata radicalmente diversa. È stata una scelta precisa per provare qualcosa di nuovo o una serie di circostanze vi hanno portato a registrare lì?
James: In questi casi è sempre una combinazione di entrambe le cose. In questo caso siamo partiti dalla praticità, ma poi si è trattato di abbracciare gli aspetti interessanti che la praticità può portare. Stavamo per registrare nei boschi, in uno studio isolato, ma ci siamo resi conto che volevamo farlo con molte persone, e per questo aveva senso registrare in una città come New York, dove vivono tutti questi musicisti. Quindi da un lato considerazioni pratiche — «facciamolo in città perché le persone sono lì» — e dall’altro «facciamolo per avere un’energia diversa». Avevamo bisogno di uno studio grande che permettesse di suonare tutti dal vivo, e uno studio efficiente che facilitasse questa cosa. Ma quello studio porta anche con sé una storia interessante e un bagaglio ispirante: Bruce Springsteen, gli Chic… C’era quell’energia da cui attingere, se volevi. Durante tutto il processo abbiamo attribuito significato e valore speciale al posto dove stavamo registrando. Il Power Station era come un piccolo talismano nelle nostre menti.
Radio Popolare: C’è una scelta di produzione, un arrangiamento, un suono che avete ottenuto e che era possibile solo in quello studio in particolare?
Buck: Il motivo principale per cui abbiamo scelto il Power Station è che volevamo realizzare questo album con 10 o 11 musicisti dal vivo, e serviva uno spazio abbastanza grande per averli tutti disposti in cerchio, con opzioni per isolarsi, ma anche di vedersi tutti reciprocamente. Il Power Station è questa stanza enorme, con tre pareti di vetro scorrevoli tra gli spazi, così sembra di essere tutti insieme in un’unica grande stanza, ma hai l’isolamento sonoro per batteria e voci, senza sentirti rinchiuso in una cabina. Avevamo questo grande spazio di vetro dove Adrianne poteva cantare, un altro spazio gigante dove Laraaji e Mikel Patrick Avery suonavano le percussioni, e uno spazio ancora più grande per batteria, basso e chitarre. Sembrava tutto molto arioso, c’era spazio e tutto funzionava alla perfezione. Avevano macchine a nastro molto ben mantenute e anche di backup.
Adrianne: È difficile trovare studi grandi con attrezzature analogiche ben mantenute e funzionanti. Siamo finiti al Power Station per tutte queste necessità: dovevamo registrare su nastro e tutto doveva funzionare perfettamente, servivano tecnici disponibili per aggiustare l’equipaggiamento. Quel posto soddisfaceva tutti i requisiti. E quel suono è proprio quella stanza: la registrazione che sentite è legata a quel luogo. Non potrebbe suonare così da nessun’altra parte.
Radio Popolare: Parliamo di Incomprehensible. Come pensate che funzioni come introduzione all’album, sia a livello sonoro che tematico?
Adrianne: Fin dall’inizio io dico «lasciami essere incomprensibile», e da quel momento sei preparato ad accettare qualsiasi cosa accada nel disco. È una bella introduzione perché dice «lascia che le cose siano quello che sono, non cercare di spiegarle o capirle». Non devi sempre capire, perché così tanto di ciò che siamo non possiamo comprenderlo. Gli esseri umani ci provano da secoli, è un mistero totale. È divertente porsi domande e guardare le cose in profondità, ma alla fine a volte è bello non dover spiegare o capire, semplicemente lasciare che sia. È una bella introduzione perché esprime il desiderio di una posizione neutrale, non pensando alle cose del mondo, intendo a livello interiore. Come mettere in folle una macchina quando sei fermo: non devi sempre essere in marcia. Essere in una posizione neutrale dentro di te, percependo quello che c’è fuori e dentro di te, senza dover giudicare.
James: È davvero una questione di sensazione — mettere in fila le canzoni per un disco funziona così. Cercare un significato viene dopo la sensazione che ti porta a dire “iniziamo con quella”. Provi altri brani e pensi «no, non è la storia giusta». È strano perché non sai nemmeno cosa stai cercando di dire, ma sai che vuoi dirlo in quel modo.
Adrianne: Mi rendo conto che quando sei in folle puoi comunque rotolare, muoverti — come in una macchina: in folle le ruote possono girare, non si bloccano. La neutralità in termini di equilibrio, percepire critiche ed elogi con questa neutralità, è un po’ come un approccio zen. Sento che c’è un po’ di questo anche in una canzone come Happy with You: «perché ho bisogno di spiegarmi?» Perché devo spiegarmi a me stessa? Non solo agli altri, ma anche a me stessa. A volte è peggio dentro di te, quando senti di dover spiegare e categorizzare te stessa a te stessa. E invece: rotola semplicemente, rock and roll in folle.
Radio Popolare: E’ molto interessante quello che raccontate e trovo altrettanto interessante, sempre parlando della tracklist del disco, che dopo Incomprehensible e la frase «lasciami essere incomprensibile», arrivi una canzone che dice che le parole sono stanche e che «non risolveranno nulla». Sembra un tema ricorrente nel disco…
Adrianne: Hai ragione! Anche in Los Angeles dico cose simili: «Le parole sono stanche e tese, molte non hanno senso», poi anche «Ti conosco senza guardarti. Posso sentire a cosa stai pensando anche senza parlare». Ti vedo semplicemente, ti percepisco, non servono parole. In All Night, All Day: «Lascia che regni la pazienza». Se guardassimo ogni singola canzone, probabilmente troveremmo echi di questo tema ovunque.
Radio Popolare: Avete detto già diverse volte che uno degli obiettivi di questo disco era permettervi di lavorare con molti musicisti. Ce ne sono alcuni che a vostro parere sono stati particolarmente importanti per questo disco? In particolare, c’è una canzone che si intitola Grandmother e che viene presentata con il featuring esplicito di Laraaji. E se non sbaglio, non era mai successo che ci fosse un featuring di qualcuno in un vostro disco…
Adrianne: Penso che tutti abbiano contribuito allo stesso modo. Non mi sentirei a mio agio a distinguerne uno: tutti hanno reso l’album quello che è. Togliere qualcuno sarebbe come togliere Buck o James. Vorrei che venissero citati tutti quanti.
James: Laraaji suona in tutto il disco, ma in quella canzone, mentre provavamo e improvvisavamo, ha iniziato spontaneamente a cantare nel microfono del suo strumento. Abbiamo pensato: «wow, è fantastico». All’improvviso tutto è magicamente andato al suo posto, come se avessimo superato un nuovo livello di unione tra noi. Il featuring l’abbiamo voluto perché la sua voce ha davvero cambiato il significato della canzone, portando una profondità incredibile. Volevamo riconoscere ciò che Laraaji aveva dato. È stato interessante avere una persona molto più grande di noi nella session insieme a molti millennial e Gen Z. Insomma, è sicuramente più vecchio di noi e quello che è successo è stato che ha portato con sé un’esperienza musicale completamente diversa dalla nostra. È stato un momento speciale registrare Grandmother con lui.
Adrianne: È davvero in evidenza lì perché la sua voce brilla. Come dice James, ha reso quella traccia qualcosa di diverso. È così profondo sentirlo: per me suona proprio come rock and roll.
Radio Popolare: Un’ultima domanda, che lascio aperta alla vostra interpretazione perché so che sono questioni delicate. Sono europeo, vi parlo dall’Italia, e come tutto il mondo guardo a ciò che succede negli Stati Uniti con preoccupazione, paura, tristezza, a volte rabbia. Voi siete una band molto consapevole politicamente e socialmente — ed è una delle ragioni per cui molte persone vi amano. Come vi sentite a essere artisti in questo momento negli Stati Uniti?
James: Probabilmente in modo simile a te: preoccupazione, tristezza, rabbia, ma anche gioia e tutto le altre emozioni. È una domanda che si pongono gli artisti, ma anche le persone in generale. Sembra un momento in cui molti si trovano a chiedersi: «Cosa faccio? Qual è il mio ruolo? Come posso cambiare le cose, portandole in una direzione diversa da questa?» È difficile, perché credo che stiamo cercando di fare qualcosa che possa essere utile. La nostra musica per noi è una cosa fondamentale, sacra, quindi è importante non perderci d’animo e continuare a fare al meglio quello che sappiamo fare. Poi si tratta di usare la nostra posizione, la nostra visibilità, per amplificare altri messaggi, altre idee, senza diventare matti su internet — cosa che purtroppo è invece molto plausibile. Lo vedo succedere ad alcuni amici ed è tosta. Sono tempi pazzi, è anche naturale rischiare di impazzire.
PER ASCOLTARE L’INTERVISTA INTEGRALE IN VERSIONE AUDIO, CLICCA QUI!