«Il femminicidio non è un atto privato, ma l’espressione di una violenza e di un abuso di potere sostenuto dalla struttura patriarcale delle istituzioni e di una cultura che vede l’egemonia maschile come “normale”, statisticamente e socialmente, in moltissimi ambiti». Fine della lunga citazione tratta da “Perchè contare i femminicidi è un atto politico”, un libro importantissimo scritto da Donata Columbro (Feltrinelli, 2025). Pubblica ha ospitato l’autrice che ci ha raccontato cosa significa contare i femminicidi, non è «un esercizio di precisione statistica», sostiene Columbro , ma «un problema sistemico, che riguarda ogni strato sociale, ogni famiglia, ogni scuola, ogni quartiere, ogni nazionalità, ogni tipo di professione».L’intervista di Raffaele Liguori inizia dalla definizione di femminicidio.
Ci sono tantissimi studi alle spalle che precedono il mio libro e dal momento che citare è un atto di cura femminista, io li ho citati nel testo. E ne cito qualcuno anche adesso.La prima volta che si sente parlare di femminicidio a livello internazionale è nel 1976. In quegli anni si riflette moltissimo sul ruolo della donna nella società, sulle violenze e si comincia a parlare di genere, cioè di qualcosa che succede nella società. Qui parliamo di violenza nei confronti delle donne a causa del loro genere.Le femministe insistono su un punto: ciò che succede alle donne non riguarda soltanto la loro famiglia, la loro coppia, ma riguarda tutta la società. Non è un atto privato. I femminicidi sono la punta dell’iceberg o della piramide.Un’altra persona che parla molto di violenza, come causa dell’oppressione patriarcale di genere che si sviluppa nella società e nello stato, è l’antropologa Marcela Lagarde. Lei dice che la violenza di genere deve essere vista come l’estremo atto di oppressione che c’è sulle donne che non hanno accesso al lavoro, che si occupano di cura con un carico di lavoro non pagato.Se pensiamo che oggi nel mondo più del 70% delle persone in povertà sono donne, questo ci dà un’indicazione di che cosa vuol dire essere ai margini, quindi essere vittima privilegiata di questo tipo di violenza.Una violenza che non riguarda due persone in modo specifico o, come si legge spesso sui giornali, perché causata da un raptus, dalla gelosia, ma è qualcosa che è un prodotto della cultura e della società.
Contare i femminicidi. Lei sostiene che è un atto politico. Ci racconta qual è stato il percorso che l’ha portata a questa affermazione?
Intanto, mi occupo di dati da parecchi anni.Il mio giornalismo viene chiamato “giornalismo dei dati” e in particolar modo sono tre anni che mi occupo di femminicidi e violenza di genere.I dati sui femminicidi che noi abbiamo a disposizione da parte delle autorità sono molto scarsi in Italia. Ci sono quelli del bollettino del ministero dell’interno. Che ci fornisce pochissime informazioni:abbiamo gli omicidi volontari, sappiamo se le vittime sono uomini o donne e che relazione avevano con l’autore o l’autrice del reato. Non sappiamo nemmeno se è un maschio o una femmina. Non c’è questa informazione sull’autore o l’autrice.Dove ci sono, invece, le informazioni sono le indagini fatte dalla commissione parlamentare d’inchiesta sui femminicidi. Ma qui il problema è che sono state fatte una volta, una tantum, e poi basta.Quindi vuol dire che abbiamo un problema che riguarda tutta la società, non solo una parte.
Lei si definisce femminista dei dati. Che cos’è il femminismo dei dati?
Il femminismo dei dati dice che dobbiamo guardare le relazioni di potere che ci sono nei settori della statistica e della scienza dei dati. Raccogliere i dati non è un atto neutro. Noi siamo molto presenti con i nostri corpi, con la nostra posizione nella società, la nostra cultura: quindi i dati che noi abbiamo sono un costrutto sociale e rappresentano le nostre idee.Essere femminista di dati vuol dire osservare queste dinamiche di di potere in esercizio.
La conta dei femminicidi non è neutra. Come si svolge?
Quello che succede è andare a identificare, per esempio, come femminicidi solo alcuni tipi di omicidi. Il ministero dell’interno dice: “io non uso la parola femminicidio perché si presta a interpretazioni”. Benissimo, però noi abbiamo un framework statistico dell’ONU che dà delle indicazioni. Qualsiasi fenomeno si presta a interpretazioni. Anche la siccità. Bisogna allora decidere quali sono i parametri per contare un fenomeno. Sono tutte decisioni che devono essere prese, non c’è niente di dato divinamente o naturalmente. In queste decisioni, per esempio, il fatto di escludere dai femminicidi tutti gli omicidi che avvengono dopo i 70 anni è una scelta ben precisa. Le donne uccise dopo i 70 anni sono “omicidi di pietà”, ma questa è una scelta, ben precisa.È una definizione di un fenomeno, è una decisione, per esempio, presa nel report della polizia dove quegli omicidi sono identificati in questo modo. Negli altri paesi non sono chiamati così. Quindi, perché noi abbiamo deciso che esiste l’omicidio di pietà e quasi lo normalizziamo? E’ lecito che un uomo possa uccidere la moglie se diventa malata o disabile?Quindi il dato non è neutro.


