Appunti sulla mondialità

La “ricetta” di Bukele in Salvador

Il metodo usato dal presidente di El Salvador Nayib Bukele per sgominare le bande criminali che imperversavano nel suo Paese sta diventando sempre più popolare anche in altri contesti latinoamericani. In breve, si tratta di un mix di repressione, sospensione dei diritti costituzionali e riconquista dello spazio pubblico da parte dello Stato: in Salvador, questa ricetta ha dato risultati strabilianti.

Bukele è arrivato al potere nel 2019 dopo essere stato sindaco della capitale San Salvador, e non si può escludere che nella sua ascesa abbia goduto del sostegno di alcune maras, le bande criminali originarie di Los Angeles che sono state “esportate” in America centrale dagli Stati Uniti con espulsioni di massa. All’epoca El Salvador era il Paese americano più violento, ogni anno si contavano oltre 100 omicidi ogni 100.000 abitanti e vaste zone erano controllate con le armi dalle maras, che riscuotevano il pizzo, trafficavano droga e soprattutto imponevano il loro potere con il terrore. Nel 2022 il tasso di criminalità è crollato a 7,8 omicidi ogni 100.000 abitanti, il più basso del continente.

Nel frattempo, Bukele aveva lanciato il suo piano di lotta alla criminalità, dichiarando la sospensione dei diritti costituzionali, costruendo un gigantesco carcere “smart”, assumendo nuovo personale di polizia e imprigionando 62.000 persone anche solo sospettate di far parte delle bande criminali. Molti capi delle gang sono scappati all’estero, quelli rimasti in patria non possono agire senza che vi siano ritorsioni verso i loro parenti e sodali detenuti, ad esempio sospendendo l’erogazione del cibo in carcere. Questa politica da un lato è stata condannata da quasi tutti gli organismi internazionali che difendono i diritti umani, dall’altro ha permesso ai cittadini onesti di riconquistare la loro libertà, a lungo presa in ostaggio dalle bande.

A febbraio Bukele si è ricandidato alla presidenza, forzando la Costituzione che non avrebbe permesso un secondo mandato consecutivo, e alle elezioni ha ottenuto un consenso record: quasi l’85% dei voti. Ora sul suo “modello” si comincia a ragionare anche in altri Paesi, perché il problema della criminalità organizzata è comune a tutta l’America Latina, che si tratti di cartelli del narcotraffico o di bande criminali comuni che il narcotraffico ha reso più forti. Il grande alimentatore di questa situazione è infatti sempre lo stesso, il traffico degli stupefacenti, che fino agli anni ’80 aveva ricadute solo su Bolivia, Colombia e marginalmente sul Messico. All’epoca il mercato dei cartelli era altrove, negli Stati Uniti e in Europa, e non c’era bisogno di coinvolgere altri Paesi latinoamericani. Ma dagli anni 2000 la situazione è cambiata: tutta l’America Latina è diventata un mercato consumatore, inoltre molti Paesi sono stati scelti dai grandi trafficanti per estendere la produzione di droga o riciclare soldi sporchi. I piccoli delinquenti sono stati foraggiati per diventare guardiani dei nuovi capi, che ora sono messicani, e oggi la capacità militare e organizzativa dei gruppi criminali risulta spesso superiore a quella delle istituzioni pubbliche. È stato un processo velocissimo, totalmente ignorato dalla politica sia di destra sia di sinistra: silenzi, connivenze, finanziamento illecito di molte campagne elettorali e, di tanto in tanto, qualche scandalo.

La cronaca è piena di casi che spiegano come la politica sia diventata funzionale al narcotraffico, ma ora la situazione è sfuggita di mano. Basti pensare a Paesi come El Salvador e Honduras, o a città come Rosario in Argentina, Guayaquil in Ecuador e Rio de Janeiro in Brasile, dove lo Stato non c’è oppure si palesa ogni tanto uccidendo persone a caso nelle baraccopoli. Per questo il “metodo Bukele” diventa un modello: dimostra che in due o tre anni è possibile eliminare le bande, e cosa importa se per farlo bisogna sospendere il diritto alla difesa degli imputati, allungare i tempi della detenzione preventiva, trasformare le carceri in luoghi di tortura fisica e psichica? Un governo che sta cominciando a ragionare in questi termini è quello argentino di Javier Milei, e lo stesso Bukele si è offerto per risolvere il problema delle bande che controllano Haiti.

Questa svolta securitaria altro non è che il rovescio della stessa medaglia del lassismo complice: entrambi sono espressione di una gestione dell’ordine e della giustizia incapace di trovare una sintesi e di garantire insieme la sicurezza, i diritti dei cittadini e quelli dei detenuti. Ma è una scorciatoia molto popolare, come dimostrano i numeri di Bukele. I cittadini di El Salvador hanno fatto la loro scelta netta tra una democrazia che non è riuscita a tutelarli e una ricetta autoritaria che però ha funzionato. Quando si tocca il fondo, come è successo in America centrale, è difficile avere dubbi.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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