Appunti sulla mondialità

Il virus contro i diritti

Ai danni noti causati dalla pandemia, innanzitutto quello misurabile in milioni di vite umane e il colpo durissimo inferto all’economia mondiale, bisogna aggiungerne almeno altri due: il peggioramento della democrazia e l’aumento dei casi di violazione dei diritti umani. Sono appena stati pubblicati alcuni report, preziosi strumenti per fare il punto sulla situazione del mondo nel 2020. L’Ong statunitense Freedom House, nello studio Democracy Under Lockdown, ha documentato peggioramenti nella qualità della democrazia in 80 Paesi e miglioramenti soltanto in uno. Le cause sono note, anche se finora poco discusse. Dall’avanzata del potere esecutivo ai danni di quello giudiziario, come accaduto in Polonia e Ungheria, ai tentativi di delegittimare il potere legislativo e di limitare l’accesso dei cittadini al voto, come negli USA di Trump, fino ai colpi di Stato veri e propri, come in Myanmar.  Se la democrazia soffre, ovviamente i cittadini ne pagano le conseguenze.

Il 18° rapporto sui diritti globali stilato dall’Associazione contro l’Impunità e per la Giustizia Transizionale, edito in Italia da Ediesse Futura con il titolo Il virus contro i diritti, documenta l’aumento nel 2020 di tutte le tipologie di violazioni dei diritti umani. Compresi quelli legati all’esercizio della democrazia, come la libertà di stampa, che vicino a noi viene messa in pericolo nei Paesi dell’Est Europa e in Turchia, con 112 giornalisti arrestati e 2 assassinati. Vanno ad aggiungersi ad altri 47 giornalisti uccisi nel mondo nel 2020: 10 in Messico, altri 8 nel resto dell’America Latina, 9 in Africa, 12 in Asia e 8 in Medio Oriente.

Le minoranze etniche continuano a essere perseguitate, espropriate delle loro terre e spesso annientate fisicamente. Dalla storica causa dei Curdi, alleati dell’Occidente contro l’Isis in Siria e poi abbandonati alle cure di Erdogan, agli Huthi dello Yemen, la minoranza sciita vittima di una guerra di bombardamento portata avanti dall’Arabia Saudita. Poi ci sono i popoli che subiscono le conseguenze del nazionalismo, come i Rohingya del Myanmar, dove la situazione è resa ancora più drammatica dal brutale colpo di Stato operato dai militari, e gli uiguri turcofoni e musulmani della Cina, perseguitati e sfruttati come lavoratori forzati dal regime di Pechino.

Quando poi andiamo a vedere la situazione dei popoli indigeni si apre un capitolo gigantesco che ci riguarda direttamente, in quanto consumatori occidentali. I Mapuche del Cile, le decine di etnie che vivono in Amazzonia, i popoli tribali dell’Indonesia e della Malaysia sono vittime del modello di consumo mondiale, di modalità di sfruttamento della terra che seguono unicamente il dettato del fabbisogno delle fabbriche del mondo. Estrazione mineraria con modalità estensive e a cielo aperto, abbattimento delle foreste per coltivare più soia geneticamente modificata o piantumare più palme da olio, foreste allagate da grandi laghi artificiali costruiti per produrre energia elettrica che muova i macchinari: ad andare perduti sono in buona parte terreni indigeni o di comunità rurali che rischiano di perdere in pochi mesi un patrimonio ancestrale. E per questo lottano. I difensori della terra uccisi nel 2020 sono stati 212, quasi metà in Colombia e Filippine. Leader sindacali o popolari che organizzavano la loro gente per fermare lo scempio. In America Latina i conflitti in corso tra popolazione e industria mineraria, agricola o energetica sono 237, in Brasile il 90% di questi conflitti si verifica in Amazzonia.

Questo capitolo delle violazioni dei diritti umani in realtà racconta ben altro: si tratta di violazioni dei diritti dei popoli e di violazioni dei diritti ambientali, della negazione di un futuro alle prossime generazioni. Sono tutti temi antichi, ma nell’anno di pandemia sono esplosi, grazie al fatto che l’eccezionalità della situazione è stata spesso utilizzata per erodere la democrazia, allargare il potere personale e alzare cortine di fumo, così da camuffare l’assalto finale, forse già in corso, al nostro futuro.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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    Kei Pritsker, regista con Michael T Workman del documentario “The Encampments”, racconta ai microfoni di Radio Popolare i retroscena della protesta studentesca pro Palestina alla Columbia University. “Gli studenti della Columbia protestano da anni per la Palestina e per ottenere che l’università dismetta gli investimenti in Israele – spiega Pritsker. L’università ha un ingente fondo di dotazione che investe in ogni sorta di attività, molte delle quali riguardano aziende produttrici di armi, aziende manifatturiere che realizzano armamenti, motori per elicotteri, bulldozer e ogni tipo di attrezzatura utilizzata in queste operazioni”. “The Encampments” fa parlare i ragazzi e le ragazze di questo movimento studentesco che dall’aprile del 2024 ha montato le tende nel giardino del Campus per chiedere trasparenza, il ritiro del denaro dagli investimenti israeliani e l’amnistia per gli studenti puniti per le proteste. “Chiunque creda ancora a questa narrativa sull’antisemitismo nel movimento per la Palestina dovrebbe semplicemente guardare il film – assicura Kei Pritsker”. Al momento “The Encampments” ha una distribuzione indipendente che lo diffonde nei cinema più coraggiosi. L'intervista di Barbara Sorrentini per la trasmissione Chassis.

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