Appunti sulla mondialità

Il Natale del Sud globale

Il Natale è stata la prima festa di matrice religiosa ad assumere portata davvero globale, prima ancora che finisse la Guerra Fredda. Ciò è accaduto parallelamente al progressivo allontanamento del Natale dal suo significato originario: ricordare la nascita, avvenuta in Medio Oriente, di quel bambino ebreo che i cristiani avrebbero considerato il figlio di Dio. Una ricorrenza destinata a radicarsi soprattutto in Europa e poi a espandersi nel mondo, grazie al colonialismo. Nel senso religioso, il Natale è una festa di preghiera e di speranza: ma in questi termini coinvolge solo una parte dell’umanità. Intesa in senso laico, invece, ormai da tempo la festa coinvolge qualche miliardo di persone in più. Tuttavia, sembra che oggi qualcosa stia cambiando. Rispetto agli anni passati, la “voglia di Natale” dei Paesi del Sud globale, soprattutto di quelli non cristiani, oggi è molto calata. Se celebrare il Natale era uno dei presupposti per fare (e sentirsi) parte di una comunità globale, con aspirazioni, interessi e simboli condivisi, il passaggio di questa festa a evento di secondo piano racconta molto dei mutamenti in corso.

Il successo del Natale, nella sua versione laica e contemporanea, aveva anticipato di qualche decennio il fenomeno della globalizzazione grazie a una coincidenza di valori fondanti: da un lato la retorica dell’uguaglianza universale, dall’altro l’identificazione dell’uguaglianza in un’omologazione dei consumi e degli immaginari. Ma le crepe che si sono aperte nella narrazione globale, le fratture provocate dalla pandemia e dai conflitti in corso e i “distinguo” sempre più numerosi dei Paesi del Sud globale rispetto alle politiche delle vecchie potenze, quelle dove il Natale è tradizione antica, stanno facendo tornare la slitta di Babbo Natale nel suo territorio di origine, l’Occidente. A proposito, c’è da dire che Babbo Natale di cristiano ha ben poco. Celebrarlo come simbolo del Natale per molti credenti è quasi una blasfemia, nonostante all’origine della sua figura ci sia un’antica venerazione per san Nicola (sint Nicolaas per gli olandesi, da cui Santa Claus), vescovo barbuto che, secondo l’agiografia, dispensava doni ai bisognosi. Di Santa Claus e della sua leggenda si impadronì a suo tempo la Coca-Cola, facendone un omone vestito di rosso a scopo meramente pubblicitario. Non a caso, proprio Babbo Natale è diventato il simbolo di una festa comandata dalle multinazionali, quelle che offrono ovunque gli stessi prodotti sfruttando l’universalizzazione del Natale al pari di quella di Halloween o di san Valentino.

Ai tempi però di una nuova Guerra Fredda multipolare, Paesi come Cina, India e Russia scelgono più o meno inconsciamente di tornare alle loro tradizioni. E non fa differenza che siano paesi a tradizione buddista, induista, musulmana o cristiana, perché il Natale mercificato e globalizzato stride anche nei Paesi cristiani impoveriti, colpiti dalle bombe o dai cambiamenti climatici. Ieri festeggiare tutti insieme il Natale, a prescindere dalla collocazione geografica o culturale, era un segno di speranza, di fiducia nella possibilità di raggiungere obiettivi universali. Oggi quegli obiettivi paiono allontanarsi irrimediabilmente e alla fine, nell’epoca del “si salvi chi può”, ognuno si tiene il suo: nazionalismi, sovranismi, integralismi sono tutti nemici dello spirito natalizio così come la storia del Novecento lo ha imposto al mondo. Questo del 2023 sarà così un Natale in scala minore, che interesserà “solo” qualche centinaio di milioni di persone. Per questo, forse, sarà più autentico. Babbo Natale potrebbe essere la prima vittima simbolica della fine del ciclo della globalizzazione, quello degli anni ’90: la sua slitta si è molto alleggerita, porterà doni a qualche miliardo di esseri umani in meno. Se questo sarà un bene o un male lo scopriremo più avanti, per il momento non ci si può esimere, almeno da noi, dall’augurarci che le feste del 2023 portino serenità e soprattutto consiglio a chi, nei prossimi mesi, dovrà decidere il destino del mondo.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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    Già vincitore di un Leone d’Oro per “Sacro Gra” nel 2013 e di un Orso d’Oro tre anni dopo alla Berlinale, Rosi riceve anche il Premio Speciale della Giuria di Venezia 82. In “Sotto le nuvole” l’esplorazione si sposta nella Napoli della circumvesuviana, in un bianco e nero inedito per la città dei mille colori, tra la terra che ogni tanto trema, sotterranei archeologici in mano alla camorra, la centrale dei Vigili del Fuoco, le fumarole dei Campi Flegrei e il Porto di Torre Annunziata con con una nave siriana che scarica grano ucraino. “È il mio primo film non politico” sostiene Rosi, eppure nel fuoricampo di “Sotto le nuvole” il non detto arriva anche in senso politico. L'intervista di Barbara Sorrentini

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    Pubblica ha ospitato il giurista Luigi Ferrajoli, allievo di Norberto Bobbio. Ferrajoli è professore emerito di filosofia del diritto all’Università Roma Tre. Tra i suoi libri, due titoli legati al progetto di costituzione planetaria che ha elaborato negli ultimi anni: si tratta di “Progettare il futuro. Per un costituzionalismo globale” (Feltrinelli 2025), e “Per una Costituzione della Terra. L’umanità al bivio” (Feltrinelli 2022). Come si ricostruisce la sovranità del diritto internazionale fatta a pezzi dai vari Netanyahu, Putin e Trump? Ferrajoli ha già risposto da tempo a questo interrogativo, da quando ha proposto una "Costituzione della Terra", una costituzione che contiene diritti e principi fondamentali validi per tutti gli abitanti del pianeta e con l’indicazione di espliciti strumenti per realizzarli.

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