Appunti sulla mondialità

I social sono già vecchi

La maxi-stangata nei confronti di Meta, il colosso di Mark Zuckerberg, arrivata dopo che la Commissione irlandese per la protezione dei dati personali ha accertato una sistematica violazione del regolamento europeo sulla privacy, è la più grande multa mai comminata a un soggetto del mondo high-tech in Europa: ben 1,2 miliardi di euro. L’attività giudicata illegale, che Meta dovrebbe cessare entro sei mesi, è il trasferimento dei dati degli utenti europei dei social della compagnia sui server ubicati negli Stati Uniti. Potrebbe sembrare una questione marginale, invece riguarda il core business di social come Facebook e Instagram che vivono, commercialmente parlando, proprio dell’accumulo, del trasferimento e della vendita a scopo pubblicitario dei dati che ogni giorno gli utenti “donano” loro, più o meno consapevolmente. Una massa di dati che tocca ogni aspetto della vita privata delle persone, dai gusti culinari alle idee politiche. Informazioni che mai prima d’ora erano state raccolte in modo così dettagliato e in tale quantità, per giunta senza spendere un dollaro, e traendone poi grandi guadagni.

La diatriba tra la Commissione e i colossi che gestiscono i social risale a qualche anno fa, quando per la prima volta, dopo le rivelazioni di Edward Snowden, si cominciò a parlare del trasferimento dei dati negli USA e del conseguente utilizzo che ne fa anche l’intelligence di Washington. Intanto gli Stati Uniti hanno dichiarato guerra al colosso cinese Huawei perché sospettato di compiere un’operazione analoga: raccogliere i dati degli americani che usano i suoi device e renderli accessibili alle autorità cinesi.

Proprio questa è stata la rivoluzione che i social hanno portato nel mondo dello spionaggio: più che indagare per procurarsi dati specifici, relativi alle persone o alle società che si intende controllare, oggi basta sapersi muovere in una massa enorme di dati, cercando quelli che questi soggetti riversano volontariamente in rete.

C’è poi anche il tema della pubblicità, sempre più mirata perché tarata in base ai nostri gusti e preferenze, e che già si annuncia come un altro terreno di sbarco dell’intelligenza artificiale. Senza dimenticare la questione dei meccanismi che queste società hanno oliato per pagare poche tasse – se non nessuna – a fronte di immensi profitti. È quasi paradossale che l’Irlanda, Paese chiave nella strategia di “evasione legale” elaborata a livello europeo dai giganti dell’high-tech, oggi sia lo Stato chiamato a comminare la maxi-stangata a Meta: ma è anche inevitabile, trovandosi in Irlanda la sede europea dell’azienda.

Questa vicenda andrà avanti nei tribunali finché durerà il negoziato tra Washington e Bruxelles sul trattamento dei dati, regolamentato diversamente sui due lati dell’Atlantico. Visto l’errore compiuto scommettendo sul successo commerciale del metaverso, che invece ancora annaspa, Meta ora si concentrerà sulla riduzione dei costi e sugli introiti della pubblicità sui social network. Quest’ultima è già aumentata esponenzialmente su Facebook, al punto da far allontanare molti utenti perché bombardati di pubblicità mirata.

Per il settore si tratta di una crisi di crescita, nel senso che social come Facebook hanno ormai quasi esaurito il bacino potenziale di utenti, e c’è sempre un nuovo competitor, come accaduto con TikTok, che erode la posizione acquisita negli anni. In ogni caso, non sono tempi facili per chi aveva promesso una rivoluzione nella storia della comunicazione tra gli esseri umani e, alla fine, ci vende un “new media” infestato di pubblicità. Forse, più che nuovo, questo mondo è già vecchio, si è logorato con la stessa velocità con cui i social fanno invecchiare le notizie. E forse siamo pronti per qualcosa di nuovo, che però ancora non conosciamo.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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    “Mi ricordavo di questo omino con gli occhiali che leggeva degli annunci un po’ strani”, racconta Valerio Finessi, regista di “Walter Valdi, un milanese a Milano”. Finessi descrive in un documentario la figura di Walter Valdi (Nicola Walter Gianni Pinnetti 1930-2003), cantautore e cabarettista della squadra storica del Derby Club di Milano. Prima avvocato e poi attore, è stato diretto da Giorgio Strehler, ha sempre scelto di cantare in dialetto milanese, senza però ottenere il successo di altri suoi compagni di lavoro come Cochi e Renato, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci. “E’ stato dimenticato perché la scelta del dialetto meneghino lo ha un po’ isolato” spiega Finessi. Walter Valdi ha scritto brani per il Coro dell’Antoniano, portati in scena allo Zecchino d’Oro e ha recitato in alcuni film di Maurizio Nichetti, Carlo Lizzani, Ermanno Olmi e Luigi Comencini. Ascolta l'intervista di Barbara Sorrentini a Valerio Finessi.

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