Se n’è andato un sabato sera, il suo regno naturale: quel sabato sera, che per molti, lo aveva “inventato” lui: il rito televisivo che ci metteva in fila – pubblico, orchestra, ospiti – e ci parlava in un italiano chiaro, nazionale, senza strappi. Indi per cui, stamattina mi è venuta l’idea di metterlo in pari con il suo più “acerrimo amico”, il Mike nazionale: se c’è stata una “Fenomenologia di Mike Bongiorno” (di Umberto Eco, ça va sans dire), perché non improvvisare una “Fenomenologia di Pippo Baudo”, ché tanto converrete con me che gli autori (io ed Eco) stiamo più o meno allo stesso livello?
IL PONTEFICE DEL RITUALE TELEVISIVO
Orbene, Baudo è stato il capo officiante del nostro immaginario televisivo, il sacerdote d’una antimeridiana messa catodica. Se Mike Bongiorno portava l’aria esotica dell’estero e la dinamicità americana della tv commerciale, Pippo incarnava l’istituzione (anche per le sue note simpatie democristiane): ordine, misura rassicurante, sobrietà di forma. Tutto doveva essere assolutamente pianificato (e non è un caso se la trasmissione televisiva era chiamata, appunto, “programma”. La sua lingua, conseguentemente, è stata l’italiano dell’uso medio/neostandard: registro medio-alto, pochissimi tratti locali, massima leggibilità nazionale. Anzi, a voler essere accademicamente precisi, una lingua che nei manuali si colloca tra lo ‘standard’ e il ‘colloquiale colto dei mass-media’ (e Umberto Eco, muto!)
FORMULA, NON GERGO: IL SUO LESSICO DI SCENA
Baudo non ha coniato neologismi entrati nei dizionari: più che altro, ha cristallizzato formule, usando allocuzioni d’apertura (“Signore e signori…”), un tono da padrone di casa (più “ecco a noi” che “ecco a voi”, includendo pubblico e troupe), una regia verbale marcata (“Torniamo fra poco” o “A voi…”, con segnali che scandiscono tempi, camere, ingressi: quel chiamarsi il cambio camera che con Gianfranco Funari sarà “Damme ‘a due!.. Damme ‘a tre!”), le sue liturgie sanremesi (“Dirige l’orchestra il maestro Beppe Vessicchio”, come formula di deferenza), l’esaltazione dell’ospite (praticamente, Baudo non presentava gli ospiti: li battezzava. E spesso indovinava pure i padrini)
SLOGAN E FIGURE RETORICHE
“Perché Sanremo è Sanremo”: la melodia è di Pippo Caruso, ma Baudo ne fa uno slogan. Retoricamente, sarebbe una “diafora” o “ploce” (ripetizione di X = X’, figura retorica in cui uno stesso termine viene ripetuto nella stessa frase, ma la seconda volta con un leggero cambio di senso), che è il tropo meglio deputato a veicolare, condensati, valori percepiti come di ineluttabile buon senso: “la mamma è sempre la mamma”, “gli affari sono affari”. Slogan filosoficamente inattaccabili, praticamente vuoti, e commercialmente perfetti.
E però, su tutti, il vezzo di “L’ho scoperto io / l’ho inventato io”: tormentone identitario per un’auto-narrazione da talent scout, diventa ormai meme nazionale, che gli resta appiccicato in una descrizione icastico-televisiva al pari di “Allegria!” per Mike Bongiorno, “E non finisce qui” per Corrado, “Consigli per gli acquisti” per Maurizio Costanzo, e “Capra!” per Vittorio Sgarbi.
UN’UNFLUENZA: PIÙ PRAGMATICA CHE LESSICALE
Baudo non ha creato parole nuove, ma un modo di stare in scena con la lingua, con un parlato pianificato, fatto di periodi completi e misurati (“adesso… poi… infine…”), una marcata ritualità (presentare, accogliere, chiamare l’orchestra) e tanta etichetta (garbo istituzionale, elogio dell’ospite, gestione dei silenzi per l’applauso). Curiosità: la parola “boutade”. In un Dopofestival, confrontandosi con Pierluigi Diaco che aveva comunicato – nel caso d’una esibizione troppo ‘antiberlusconiana’ di Benigni – il lancio di uova sul palco dell’Ariston da parte di Giuliano Ferrara, Baudo la pronunciò, commentando con “Ma questa cos’è, una boutade?”. Ora, trattasi di un francesismo all’epoca circolante già da decenni, ma fino ad allora utilizzato timidamente e pochissimo: Baudo, con quella uscita, ne rilanciò l’uso, con evidente impennata di occorrenze. Da quel momento, sdoganata, si è radicata come la parola più corretta per indicare “provocazione esagerata”. E da lì, l’avrete forse sentita anche nei peggiori bar, tra un rutto e l’altro.
I SUOI MOMENTI TOP
Avendo fatto della ritualità preordinata la sua cifra, non è un caso che, per converso, di Baudo sono entrati nella memoria soprattutto alcuni – pochi – momenti non pianificati, legati alla “sorpresa”, alla relazione con fatti inaspettati, ma con cui, giocoforza, dover interagire nel “bello della diretta” (formula abusata ma con cui ri-ritualizzare l’irritualità dell’imprevisto in TV). Momenti a volte solenni (l’annuncio in diretta della morte di Claudio Villa: il cerimoniale che si fa notizia, con lessico sobrio e controllo del pathos), oppure eroici (l’intervento per sventare il tentativo di suicidio di Pino Pagano, il tizio che minacciava di lanciarsi dalla balconata dell’Ariston, nel Festival 1995), o anche grotteschi (l’irruzione di “Cavallo Pazzo” con “Il Festival è truccato, lo vince Fausto Leali!”. Baudo governava il caos dell’uscita del rito con metalinguaggio da direttore d’orchestra: smentita, ripresa del filo, ristabilimento del rito).
E CON I COMICI?
Anche qui, per lo stesso motivo, Baudo ha avuto un rapporto altalenante con i comici e la satira (la comicità è, per definizione, “deviazione”, “rottura del programma”). Colpisce, sulla celebre battuta di Beppe Grillo (“Ah, qui in Cina siete tutti socialisti? E a chi rubate?”, che porto al comico genovese il bando dalla TV), la sua immediata presa di distanze, in diretta (“Grillo è uscito fuori… ha detto cose che non doveva dire”), se rapportata all’ascolto deferente e divertito di monologhi certamente più caustici (seppur portati in forma più sottile: Troisi su Andreotti, che “è fesso, è ingenuo: in Italia abbiamo avuto trent’anni di stragi, terrorismo, Mafia, servizi deviati: lui non s’è ai accorto mai di nulla”), e alla disponibilità a collaborare con i comici (la scoperta del Trio ‘Lopez-Marchesini-Solenghi’ e la sua partecipazione alla loro versione de “I Promessi Sposi”); una disponibilità che volte si declinava in gioco a sostegno (con Benigni, su Berlusconi, nel 1994: -“Sono tornato da poco in Italia, non so niente di quello che è successo… Che fine ha fatto quello ricco, milanese, inquisito, amico di Craxi?…” -“Ehm… È Presidente del Consiglio” -“Ahaha… e magari Giuliano Ferrara ministro!” -“Eh!…” -“E i fascisti al Governo!” -“Quasi!”), o che raggiungeva vette di coinvolgimento anche proprio fisico (farsi palpare i genitali da Benigni e Fiorello). In generale, anche qui, prevale il tentativo di tenere la linea del registro anche quando attorno soffia burrasca, a mo’ di guardrail linguistico: incanalare, delimitare, rinominare senza mai perdere il controllo.
Pippo Baudo, quindi, non ha inventato parole, slogan o battute: ha inventato CORNICI. Ha trasformato la conduzione in regia linguistica, ha dato all’Italia un italiano di servizio – pulito, inclusivo, nazionale – con cui per anni ci siamo parlati la sera, tutti insieme. Più che condurre, ha tenuto compagnia all’italiano.
E noi, senza lui, siamo più soli. Perché in fondo, è vero pure che Pippo Baudo, nel nostro immaginario, “l’avevamo inventato” anche un po’ tutti noi.
Che ne pensate? Per qualunque cosa vogliate dirmi riguardo ai miei articoli su questo Blog, dagli apprezzamenti, ai consigli, alle critiche fino agli insulti (questi ultimi però purché formulati rigorosamente in lingue antiche), scrivete a: antonellotaurino1@gmail.com .