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From Ground Zero, le storie da Gaza sotto i bombardamenti. Intervista al regista Rashid Masharawi

Rashid Masharawi - From Ground Zero

Nei giorni scorsi è passato a trovarci negli studi di Radio Popolare il regista palestinese Rashid Masharawi, nato e cresciuto a Gaza, ma che ora vive a Ramallah. Il suo ultimo film “From Ground Zero”, è un progetto corale e ambizioso, una raccolta di tanti cortometraggi realizzati da registi di Gaza, in questi mesi di bombardamenti. Martina Stefanoni l’ha intervistato, partendo proprio da qui, per poi parlare di cinema, arte e Pace.

Ho avuto l’idea di fare “From Ground Zero” già a novembre 2023. Erano passate tre, quattro settimane dal 7 ottobre. E a dicembre, gennaio, stavamo già girando a Gaza tutti questi cortometraggi.

La cosa interessante è che non è solo un documentario. I cortometraggi che compongono il film sono alcuni documentari, altri fiction. Quindi l’obiettivo non è solo documentare cosa sta succedendo lì, ma riguarda anche l’arte.

Sì, l’idea era di realizzare storie mai raccontate e anche di provare a realizzarle artisticamente, con il linguaggio del cinema. Ho lavorato con 22 registi, diversi tra loro. Sono stati liberi di scegliere il modo migliore per esprimere non solo quello che sta succedendo o le loro storie personali, ma anche il loro modo di fare cinema.
Ecco perché tra i film di “From Ground Zero” puoi trovare documentari, fiction, video arte, film sperimentali, animazione e anche marionette. L’obiettivo era fare cinema, anche in questa situazione molto difficile.

Sì, perché sappiamo tutti cosa sta succedendo. Vediamo l’orrore sui media, anche sui social media. Ma a volte, purtroppo molto spesso, le persone sono semplicemente raffigurate come un gruppo senza identità, sono vittime, numeri.
E con questo film,invece, approfondiamo la vita di queste persone e anche la vita quotidiana. Penso che questo sia importante per noi.

Sì, anche questo faceva parte dell’idea iniziale, perché, come dici tu, le persone morivano come numeri. Oggi, 200 persone domani 300, 500. From Ground Zero cerca anche di trasformare questi numeri in esseri umani.
Perché questi numeri sono persone. Hanno nomi, hanno sogni. Anche perché poi, guardando i media tradizionali, sembra che ci sia una guerra tra lo stato israeliano e Hamas.
Ma chi sta pagando il prezzo? Sono le persone innocenti di Gaza. Parliamo di più di 2 milioni di persone che vivono a Gaza e la maggior parte di loro non ha niente a che fare con Hamas. E ci sono più di 50.000 persone uccise. Più di un milione di rifugiati, circa 12.000-14.000 ancora sottoterra. Nessuno può tirarli fuori. E per tutti gli altri c’è il trauma, compresi per molti bambini.
Quindi penso che From Ground Zero, dia una possibilità a queste persone di portare la propria voce fuori dalla striscia.
Le persone devono sentire e vedere e dare loro la possibilità di vivere, di restare in vita.

Tu hai anche dato vita molti progetti e workshop per insegnare ai giovani registi a fare cinema. Perché pensi che il cinema e l’arte in generale siano importanti per la Palestina?

Sono molto importante per la Palestina. Innanzitutto, il cinema e l’arte sono importanti ovunque. Ma forse per i palestinesi ora, lo sono ancora di più.
Perché forse la gente può pensare che tutti i nostri problemi con l’occupazione israeliana siano iniziati il 7 ottobre. Ma noi siamo sotto occupazione da più di 77 anni. Da prima del 1948, quando hanno fondato lo stato israeliano e noi, i palestinesi, siamo diventati profughi fuori dalla Palestina.
Questo significa che non siamo grandi economisti, politici o militari. Quello che abbiamo è la nostra identità, la nostra storia, la nostra cultura. E il cinema può occuparsi di questo.
Il cinema può proteggerlo. E penso che gran parte della nostra resistenza, e del motivo per cui stiamo ancora lottando per uscire da questa occupazione, è perché siamo di lì, è la nostra terra. E il cinema può mostrarlo, può mostrare la memoria.

Anche perché una delle cose che il governo israeliano dice è che i palestinesi non esistono, che sono solo arabi. Ma con il cinema, con l’arte, si stabilisce un’identità, una memoria, come hai detto, una cultura. Ed è questo che crea un paese.

Sì, ecco perché per me non è sufficiente essere un regista che fa film. Ho fatto molti film nella mia vita. Li ho presentati in molti festival: a Cannes, a Berlino, a Venezia, a Toronto, in tutto il mondo. E mostro i miei film in giro per il mondo. Ma il mio obiettivo è anche quello di creare un cinema palestinese, di incoraggiare le persone ad andare a fare film e a studiare cinema, di fare molti workshop, di formare i palestinesi a fare film, di continuare a raccontare la storia, di occuparci dell’arte e del cinema, di condividere la nostra vita con il mondo.

Molti dei tuoi film non sono documentari, sono fiction. E a volte le persone fuori dalla Palestina possono pensare che l’unica cosa che la gente in Palestina può fare è un documentario perché è succedono così tante cose lì, che l’obiettivo è solo raccontarle. Ma la fiction stessa porta qualcos’altro.

Sì, nel cinema di finzione puoi usare la tua immaginazione. Puoi fare delle metafore su ciò che sta succedendo. Puoi gestire tutto l’assurdo di ciò che sta succedendo con un linguaggio cinematografico. E puoi anche usare l’ironia per raccontare quello che sta succedendo in Palestina. E poi, comunque, dovremmo avere il cinema. Noi palestinesi, dovremmo avere il cinema come ogni altra nazione.
Siamo una società e abbiamo le nostre tradizioni, la nostra lingua, il nostro accento, il nostro abbigliamento, cibo, danza, musica, teatro, qualsiasi cosa. Il cinema può farsi carico di tutto questo, esserne messaggero.
Questo vuol dire che se mettiamo fine all’occupazione israeliana, smetteremo di fare film? No, forse inizieremo a fare film migliori.

Quando sei andato a Cannes per presentare il tuo film, non hanno voluto proiettarlo e hai organizzato la proiezione all’esterno. E in questi giorni abbiamo visto quello che è successo al regista di No Other Land. Perché pensi che il cinema faccia arrabbiare così tanto, perché può essere considerato così pericoloso da non volerlo proiettare insieme a tutti gli altri in un festival importante come Cannes?

C’è una grande macchina israeliana di propaganda per danneggiare la realtà, la verità e per cercare di presentarci in certe categorie come se fossimo solo terroristi. E i film, specialmente i documentari come No Other Land, come From Ground Zero e altri ancora, affrontano la realtà, mostrano la verità. E l’occupazione israeliana e tutti i sostenitori di Israele – e ce ne sono molti nel mondo, in America, in Europa e anche in alcuni paesi arabi – non vogliono che noi raccontiamo questa verità, non vogliono che portiamo questa consapevolezza al di fuori della Palestina. Per loro è pericolosa, perché mostra che quello che stanno facendo è un crimine. E lo è.
Siamo a più di 600 giorni di bombardamenti su Gaza, sotto assedio. Nessuno può portare acqua, cibo, medicine. La gente muore ogni giorno e c’è tutto questo silenzio.
Una volta che vieni in contatto con questa realtà, che ne parli, la tocchi con mano, la mostri, non è una situazione “comoda” per l’occupazione israeliana con tutti i massacri che hanno fatto. E non è comoda nemmeno per il mondo che sta guardando in diretta tutto. Nessuno può venire e dire “non me l’hanno detto, non lo sapevo.”
Per me, come regista palestinese di Gaza, sono nato e cresciuto a Gaza, ma anche come essere umano, non penso che il mondo esterno debba venire a sostenerci in quanto palestinesi, perché a Gaza stanno uccidendo l’umanità. Quindi tutti devono andare a difendere e a proteggere la propria umanità. Dovrebbe proteggere se stessi come esseri umani che condividono questa vita insieme.

Tu sei di Gaza, sei cresciuto lì. Cosa non sappiamo di Gaza? Perché a volte la gente parla di Gaza solo per via della guerra, ma non ne parliamo senza la guerra. Cosa dovremmo sapere su Gaza?

Devi sapere che tutti questi milioni di persone a Gaza, quello che vogliono è solo vivere normalmente. Non vogliono picchiare nessuno. Non vogliono occupare nessuno.
Vogliono solo vivere normalmente come qualsiasi essere umano al mondo. Non vogliono essere vittime e non vogliono nemmeno essere eroi. Vogliono solo proteggere i propri sogni, il proprio futuro.
Inoltre, la gente dovrebbe sapere che Gaza non è Hamas. Hamas è un gruppo a Gaza. Ma tantissime persone non c’entrano niente con Hamas e stanno morendo solo perché sono in quel posto, in questo momento, e stanno pagando con la loro vita.
La gente deve saperlo e capirlo.

Tornando a From Ground Zero, una cosa che mi chiedevo è come le persone hanno fatto il film, da un punto di vista pratico, perché sappiamo che non c’è elettricità ed tutto è distrutto…

È stato un progetto molto difficile. La priorità per me, per tutti questi registi, era che restassero in vita. Ma allo stesso tempo, quando lottavano per salvare la loro vita, per mettersi al sicuro, cercavo anche di salvare la storia, la memoria di ciò che sta succedendo. È stato difficile anche perché poggiava tutto su cose che non c’erano.
Ad esempio, l’elettricità. Una volta che non hai più elettricità, non hai più niente. Non puoi caricare il tuo cellulare, non puoi caricare le batterie, i laptop, le batterie delle fotocamere e non hai internet per comunicare. Poi la gente rischiava la vita ogni volta che si spostava da un posto all’altro per filmare o per cercare punti internet per caricare materiale o per parlare e non c’è un posto sicuro a Gaza. A volte perdevamo i contatti per qualche giorno e una volta che li riprendevamo, stavamo svegli per giorni per usare al massimo il tempo per lavorare o caricare materiale perché non sapevamo quanto tempo avremmo avuto.

In qualche modo, nonostante le difficoltà, lavorare a questo progetto è stato di aiuto per i registi di Gaza con cui hai lavorato?

Sì, molto perché le notizie mostravano sempre la guerra, in diretta, cosa stava succedendo, i numeri e la distruzione. Ma così potevamo occuparci anche di piccoli dettagli, personali, della vita quotidiana. Era molto importante anche mostrare alla popolazione di Gaza e a tutti questi registi che non erano soli. Ecco perché questi film sono stati mostrati in più di 100 festival cinematografici negli ultimi sei mesi. Siamo stati ufficialmente selezionati per il Toronto International Film Festival, a Cannes e in molti altri posti. Siamo stati anche selezionati per gli Oscar. Tutto questo crea e aggiunge consapevolezza su ciò che sta accadendo a Gaza e dà alle persone la sensazione di non essere sole. Aggiunge speranza ed è questo che ci mancava. Sai, se la vita può mostrare alle persone cose per cui perdere la speranza, il cinema può mostrare alle persone migliaia di motivi per cui mantenerla. Quindi è molto importante.

Ok, un’ultima cosa. Credi ancora nella pace?

Sì, certo. Certo, credo nella pace e penso che dobbiamo tutti credere nella pace. Per me, davanti a tutto quello che sta succedendo, la pace è la soluzione.
La pace è una soluzione ovunque nel mondo, per tutta l’umanità. Dovremmo tutti vivere in pace, per essere al sicuro, per garantire il futuro, per avere una vita normale ovunque. E anche la Palestina.
Penso che dovremmo continuare a lavorare per la pace. Ma a causa di tutto quelo che sta accadendo nel nostro paese, la pace da sola non è sufficiente. Abbiamo bisogno di pace e di giustizia.
La giustizia è molto importante. Non stiamo parlando di pace in modo romantico o come uno slogan. Ci serve giustizia.

E pensi che il cinema possa contribuire a portare pace e giustizia?

Penso, sì, ne sono sicuro. Mi fido del cinema. Di tutti questi progetti legati all’arte e alla cultura. Ovviamente non è che fai un film e liberi la Palestina. C’è bisogno di molti progetti, di molti film. E di dipinti, teatro, canzoni e danza. C’è bisogno di tutto. E anche di tempo. E lentamente questo creerà consapevolezza e questa può apportare cambiamenti nel mondo. Credo che se 10.000 film possono servire a smuovere qualcosa, voglio essere uno di loro.

Foto | Un fotogramma del film From Ground Zero

  • Autore articolo
    Martina Stefanoni
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