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Il “Piano delle cinque dita”: la strategia israeliana per rioccupare la Striscia di Gaza

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Quello che il premier israeliano ha chiamato Corridoio Morag, è un area tra Khan Younis e Rafah, nel sud della striscia di Gaza composta principalmente da terre agricole. Il nome Morag, fa riferimento ad una colonia israeliana costituita in quella zona dal 1972 al 2005, quando Israele si è ritirato dall’enclave. Netanyahu ne ha parlato come di un secondo corridoio Philadelphia, che corre lungo il confine tra Rafah e l’Egitto. Il ritiro da quest’ultimo corridoio era una delle condizioni previste dall’accordo di tregua, ma Israele non l’ha mai rispettato. Con la riconquista del corridoio Netzarim – che separa il nord dal resto della striscia di Gaza – e la creazione di Morag, l’esercito israeliano ha già separato la striscia in 3 fasce isolate tra di loro. Il nome Morag, non è casuale, il riferimento all’ex insediamento israeliano, rimanda al piano sempre più chiaro ed evidente di rioccupazione della Striscia. Secondo alcuni osservatori, poi, questo potrebbe essere il primo passo verso la frammentazione della striscia in 5 isolate e sovraffollate enclave. È il cosiddetto piano delle “5 dita”, come era stato soprannominato per la prima volta nel 1971 dall’allora comandante del Comando Sud dell’esercito Ariel Sharon. La chiave del piano è l’istituzione di ampi “corridoi” israeliani con posti di blocco per controllare i movimenti palestinesi e fungere da rampa di lancio per regolari incursioni israeliane. Una replica, sostanzialmente, di quanto fatto in questi anni in Cisgiordania. Questo piano prevede anche la concentrazione della popolazione palestinese in aree sempre più ristrette, controllate dall’esercito israeliano che gestisce anche l’ingresso di aiuti umanitari. Un aspetto, questo, che stiamo già parzialmente vedendo con le richieste di sfollamento della popolazione verso la zona di Al Mawasi e lo stop – ormai da un mese – dell’ingresso di tutti gli aiuti umanitari.
Più nell’immediato, la creazione del corridoio Morag, taglia fuori anche il valico di Karem Shalom, che – insieme a quello di Rafah – era uno dei principali valichi per l’ingresso di aiuti.
Israele insiste sul fatto che la pressione militare è l’unico modo per costringere Hamas a rilasciare i restanti 60 ostaggi e che quando questo avverrà, l’avanzata si fermerà. L’obiettivo finale, però sembra un altro. Le ultime mosse dell’esercito, dai bombardamenti su aree già distrutte, agli ordini di sfollamento, alla creazione di nuove zone cuscinetto, fanno temere che l’idea sia mettere in atto il piano di Donald Trump. Cosa che, per altro, Netanyahu non nasconde più. Nel week end ha detto che intende proseguire: «Implementeremo il piano Trump, e favoriremo l’emigrazione volontaria», ha detto il premier israeliano. L’emigrazione volontaria, però, non esiste: sia perché la maggior parte dei palestinesi non vogliono lasciare la loro terra, nemmeno sotto costanti bombardamenti, sia perché nessun Paese al momento è disposto ad accoglierli tutti. Quindi, si prospetta la realizzazione del piano già anticipato qualche giorno fa dal Financial Times: confinare la popolazione in aree sempre più strette, possibilmente recintate, senza alcuna possibilità di auto-organizzarsi o autogestirsi, dipendenti dalla distribuzione degli aiuti dell’esercito israeliano.

  • Autore articolo
    Martina Stefanoni
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