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Gianfelice Facchetti torna a teatro con “La Tribù del calcio”

gianfelice facchetti tribù del calcio

Gianfelice Facchetti torna in scena per raccontare il mondo di cui fa parte da sempre, ancora prima di nascere: “La Tribù del calcio”. Uno spettacolo, in scena dal 14 al 19 gennaio presso il Campo Teatrale di Milano, in cui Gianfelice  Facchetti prova a descrivere e delineare i caratteri dei milioni di appassionati in giro per il mondo. Il testo teatrale prende ispirazione dal saggio del 1981 di Desmond Norris “La tribù del calcio”, uno dei primi trattati di sociologia calcistica. La domanda di partenza è: come ha fatto l’uomo a passare da essere cacciatore a calciatore? Durante la trasmissione Barrilete Cosmico, Gianfelice Facchetti ha raccontato i pensieri e le riflessioni che stanno alla base del suo spettacolo.

Gianfelice Facchetti, quanto è stato arduo provare a raccontare la “La tribù del calcio”?

Io ho provato a mettere insieme tutti quelli che sono parte di questa tribù: chi lo gioca, chi lo racconta, chi lo vive dagli spalti o da altre parti del mondo. E’ facile far parte di questa tribù, ha radici profonde e non è composta solo da chi tifa. Il punto di partenza è: se quando c’è un mondiale il pianeta si ferma vuole dire che dentro a quel rituale qualcosa di ancestrale si sta compiendo. C’è dentro una forza che poche altre cose nel mondo hanno.

Ti poni la domanda su come l’uomo sia passato da cacciatore a calciatore. Lo sport richiama il brivido di quella caccia perso?

Si, questo vale per lo sport in generale e in particolare del calcio, il più popolare in Italia. Quello che ha il calcio in più di primitivo rispetto ad altre discipline è il fatto che la parte del corpo che comanda sono le gambe e non le mani, che rappresentano un passaggio evolutivo verso la civiltà ulteriore. Lo sport è qualcosa che permette di incanalare delle pulsioni che appartenogono alla nostra specie, a volte anche distruttive, che altrimenti potrebbero avere risvolti più drammatici nella vita quotidiana. Il calcio è una caccia ritualizzata dove la porta è la preda e l’arma diventa la palla.

Negli anni però è cambiato però il modo di andare allo stadio…

Si, perché deve rispondere a delle logiche di profitto e marketing nuove e diverse, gli stadi devono essere più simili a centri commerciali che al Colosseo. Il vantaggio è che per quanto costa oggi andare allo stadio è anche normale aspettarsi delle condizioni, per esempio dei bagni, di un certo livello. E’ un passaggio di civiltà ulteriore che va fatto. Il cambiamento c’è, è partito quando il calcio è entrato in televisione, diventando quindi uno spettacolo televisivo e rilegando il ruolo del tifoso a quello di consumatore; viene meno il momento di incontro tra atleta e tifoso, ma comunque quando parte la partita c’è sempre quel qualcosa che fa dimenticare tutto e permette di estraniarsi da tutto.

Quindi serve trovare un equilibrio tra i nuovi stadi e le sue esigenze e gli aspetti primitivi del gioco del calcio?

Esatto, poi certi aspetti vengono garantiti  dall’atto atletico: nel momento in cui comincia la partita tutti i pensieri sui cambiamenti e sulle nuove dinamiche spariscono, poi dopo torni a pensarci, ma questo non riguarda solo il calcio ma altri aspetti della nostra civiltà. E’ curioso che dentro gli stadi si tocchino delle corde che altrimenti non ci toccano mai: basti pensare che quando chiude un teatro difficilmente assistiamo a prese di posizione di massa simili a quello che sta succedendo con San Siro e il suo possibile abbattimento: è qualcosa che tocca la pancia della gente. Poi ci sono delle differenze, certo, ma è curioso che nel calcio ci siano tanti contraddizioni, nel bene e nel male, ma continui ad avere un senso conservativo della storia che altri mondi non hanno, come ad esempio il teatro.

Sono passati quarant’anni dal libro di Norris. Nei prossimi quaranta, sarà ancora attuale come adesso?

Probabilmente se venisse ristampato oggi avrebbe molti aspetti nuovi, che vanon dal Var ai nuovi mercati asiatici, farebbe nuove riflessioni senza dubbio. Ma per quanto riguarda il blocco e l’idea centrale del libro, la sua componente storica, il passaggio da cacciatori ad autori di gol, rimarrebbe uguale, il cuore pulsante è sempre lo stesso. Questo perchè il calcio riesce a toccare corde uniche. Gli stadi possono cambiare, ma la sostanza rimane semrpe quella.

Parlare di calcio oggi è molto difficile, perchè è materia di tutti. Quanto è difficile rappresentarlo?

In altri spettacoli mi era già capitato di occuparmi di sport e di calcio, anche in tv. So che c’è un aspetto in video e uno da un palco che è diversa, il gesto atletico di un campione non è imitabile e quindi non lo sono neanche le emozioni che crea.  Si rischia di scadere nel ridicolo, è un qualcosa di insuperabile. Quello è successo realmente e non è costruito, quindi rimane unico e non provoca la stessa reazione. Fatta questa premessa, quello che si può provare a raccontare sono le storie che si nascondono dietro ad ogni atleta, che poi sono le stesse che abbiamo tutti noi. Parlare, come faccio nello spettacolo, di Pelè, Ghiggia o Bergamini è la stessa cosa che farlo di Romeo, Amleto o di altri personaggi teatrali. Ha la stessa dignità.

La narrazione del calcio è spesso ricca di retorica, tutto è meraviglioso, eccezionale, fantastico. Cosa ne pensi e questo ha influito la scrittura dello spettacolo?

Non mi sono posto il problema nello spettacolo, ma il fatto che io parli di storie che si fermano negli anni ’90 è la conferma di questo. Credo che raccontare un atleta sia più facile farlo alla fine della carriera, quando ha chiuso la propria parabola professionale, perché permette uno sguardo più completo e di avere più distacco. Però sicuramente l’aspetto della retorica è uno con cui si fa i conti, questo tipo di fame e curiosità è minore oggi rispetto al passato perché le società portano avanti la loro narrazione, i media un’altra che non si interrompe mai, come se sempre succedesse qualcosa anche se non è così. Gli altleti a loro volta hanno i propri canali e si narrano come preferiscono loro. I cambiamenti radicali riguardano la distanza tra sportivo e chi sta sugli spalti, che è considerato più un consumatore che un tifoso, è un solco irreversibile; l’altro riguarda la narrazione, che è stereotipata.

 

  • Autore articolo
    Matteo Serra
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