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Pluralismo, e democrazia, a rischio fusione

L’equazione è molto semplice: ad una maggiore concentrazione nel settore dell’informazione e della comunicazione corrisponde sempre un minore pluralismo. E ridurre la pluralità di fonti, di soggetti dell’informazione, impoverisce la democrazia.

Il fenomeno della concentrazione del potere mediatico non è nuovo nell’Italia del trentennio berlusconiano. Tanti sono stati i modi per favorirlo: si cominciò con i cosiddetti “decreti Berlusconi” che il governo Craxi nell’84 regalò al magnate di Arcore per non fare chiudere dai pretori le tv Fininvest. Poi fu la volta della legge Mammì nel 1990 e della legge Gasparri nel 2004.

Oggi le concentrazioni nel settore dell’informazione e della comunicazione riprendono vigore: prima la cessione dei libri e della radio della Rcs a Mondadori-Mediaset e poi, la settimana scorsa, l’annuncio della fusione Espresso-Repubblica-Stampa.

Memos ha ospitato oggi il giurista Paolo Caretti, uno dei massimi studiosi in Italia di diritto dell’informazione e tutela del pluralismo. Ospite anche Massimo Mucchetti, senatore Pd, presidente della Commissione industria, giornalista ed ex vicedirettore dell’Espresso e del Corriere della Sera.

E’ inevitabile questo nuovo processo di concentrazione nell’editoria?

«Non è inevitabile», risponde Mucchetti. «E’ una libera scelta fatta dal compratore, il gruppo De Benedetti, e dal venditore, la Fiat Chrysler. Certo l’editoria sta attraversando un momento molto difficile dal punto di vista dei bilanci e ciò, nel lungo termine, potrà incidere anche sull’autonomia delle fabbriche dell’informazione. Questa operazione è fatta nel segno del risparmio. Ci saranno dei tagli, si faranno le cosiddette sinergie. In questa operazione c’è un profilo antitrust e uno antipluralismo. La legge sull’editoria del 1981 stabilisce che nessun gruppo possa avere più del 20% delle tirature nazionali. In questo caso arriviamo al 22%. Ciò non vuol dire che l’operazione non possa essere fatta. Significa invece che il nuovo gruppo dovrà cedere alcune testate, con i tempi stabiliti dall’Autorità per le comunicazioni (Agcom), in modo da rispettare i vincoli di legge. Occorre anche riflettere – aggiunge Mucchetti – su un aspetto particolare: se i conti dei giornali portano a fare operazioni che diminuiscono in modo troppo sensibile il pluralismo delle testate, ciò può essere comprensibile dal punto di vista economico ma non è accettabile dal punto di vista della democrazia».

Professor Caretti, è a rischio il pluralismo informativo con questa annunciata fusione Repubblica-Stampa?

«E’ un’operazione di concentrazione nel settore dell’editoria che certamente non fa bene al pluralismo. La Corte costituzionale, con una giurisprudenza ultraventennale, ha fatto di questo principio il cardine fondamentale della disciplina dei mezzi di comunicazione di massa. Un’operazione come Repubblica-Stampa certamente va nella direzione opposta. Questa ferita al pluralismo dell’informazione va vista non soltanto con riferimento al settore specifico della stampa. Dobbiamo allargare lo sguardo al sistema complessivo dell’informazione in Italia. Abbiamo già un’anomalia grave, quella rappresentata da un’inesistente pluralismo nel settore della radiotelevisione e abbiamo adesso una tendenza alla progressiva riduzione delle testate giornalistiche. Nello sviluppo di questa vicenda molto dipenderà da come si comporterà l’Agcom. La norma del 20% è stata richiamata prima da Mucchetti. Quale sarà l’atteggiamento dell’Agcom? Userà tutti i poteri a disposizione per, quanto meno, contenere entro quel limite gli effetti della fusione Stampa-Repubblica che si sta progettando?».

Professor Caretti, in gioco c’è solo una questione di concorrenza tra proprietari di giornali oppure è in discussione la solidità della democrazia in Italia?

Paolo Caretti
Paolo Caretti

«Guardi, qui non si tratta di opinioni personali. La Corte costituzionale si è pronunciata in più di un’occasione. Occorre tenere distinta la normativa anticoncentrazionistica generale che riguarda diversi settori merceologici del mercato, dove il principio della libera espansione di un’impresa deve trovare il modo di conciliarsi con la libertà di concorrenza. Nel settore dell’editoria il discorso è invece diverso. Quelle editoriali sono certemente delle imprese. Ma quanto producono è particolarmente rilevante: si tratta di aziende che non producono dentrifrici o altro, ma informazione. Stiamo parlando dell’informazione, e cioè dell’elemento decisivo per la formazione di una opinione pubblica consapevole. C’è dunque da tutelare, come ha detto la Consulta, qualche cosa di diverso: non solo la libera concorrenza tra imprese editoriali, ma anche la posizione del cittadino, del fruitore dell’informazione. Il cittadino ha un diritto – ha sostenuto la Corte costituzionale – ad un’informazione plurale tutelato dalla Costituzione. Non è un caso che le concentrazioni nel settore dell’informazione siano affidate – quanto a controllo e vigilanza – ad un’autorità specifica, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Negli altri settori i fenomeni di concentrazione del mercato sono affidati ad un differente organismo come l’Autorità per la garanzia del mercato. Sono due autorità indipendenti, diverse. Tale diversità si spiega proprio con la diversità dei diritti che l’una e l’altra sono chiamati a far rispettare».

Presidente Mucchetti, dall’annuncio della fusione alla sua concreta operatività passerà un anno. Tempi lunghi anche per l’uscita della Fiat dal Corriere. In questo anno ci saranno appuntamenti politici importanti: le amministrative a giugno, il referendum confermativo sulle modifiche alla Costituzione a ottobre. Non rischia di esserci un serio problema di pluralismo nell’informazione e di concentrazione di potere? Durante i prossimi mesi, infatti, si realizzerà una situazione anomala: ci saranno tre tra i principali giornali (Repubblica, Stampa e Corriere) che avranno di fatto proprietà intrecciate tra loro (Elkann con De Benedetti per quanto riguarda  Repubblica e Stampa mentre Elkann non avrà ancora ceduto il controllo del Corriere).

«Oggi il problema – risponde Mucchetti – è il rapporto dei giornali con il governo e con i propri azionisti. Quanto ai propri azionisti lo abbiamo raccontato prima. Quanto al governo oggi c’è una diffusa propensione all’appoggio, ad andare in soccorso del vincitore. Spesso e volentieri è stata una caratteristica della stampa italiana per tanti anni. Un tempo si giustificava col fatto che dall’altra parte ci poteva essere un partito comunista piuttosto che dei movimenti politici di base che venivano percepiti come contrari al sistema democratico. In questi ultimi anni la situazione è decisamente cambiata, si giustifica meno, detto tra virgolette, il conformismo che si coglie nella grande stampa. Naturalmente ci potrebbero essere tanti modi per creare condizioni per avere una stampa più incisiva, più libera, che faccia meglio il mestiere di cane da guardia del potere».

Massimo Mucchetti

«Uno di questi modi, per esempio, potrebbe essere – sostiene Mucchetti – la parziale privatizzazione della Rai da mandare in borsa senza padroni particolari, con la formula della public company. Se è brava potrà incidere anche sulle stesse proprietà dei giornali, come si può immaginare. E’ vero che oggi tutto il mondo dell’informazione è in difficoltà, ma la televisione lo è un po’ di meno. In termini relativi la tv sta quindi meglio dei giornali. Un soggetto televisivo alternativo, sia alla Rai partitocratica che alla Mediaset di proprietà di un esponente della politica di primo piano come Berlusconi, porterebbe una ventata di novità. Io non mi concentrerei tanto e soltanto sui piccoli affari della carta stampata. Tenterei di allargare lo sguardo fino ad arrivare ad interrogarmi su quale gioco potranno svolgere i grandi operatori del web, i cosiddetti over the top. Il giorno che Google volesse entrare nell’editoria, reputando che quello potrebbe diventare uno dei suoi affari del domani, avremmo degli sconvolgimenti epocali su scala globale. Accadrà? Forse no, però potrebbe. Abbiamo già visto, ad esempio, che uno dei grandi del web come Amazon ha già comprato il Washington Post. Il mondo sta cambiando rapidamente. Credo che l’operazione Espresso-Stampa tra la famiglia Agnelli e la famiglia De Benedetti vada ridimensionata nel peso che può avere dal punto di vista industriale, mentre dal punto di vista politico il peso è tutt’altro che modesto».

Professor Caretti, lei citava gli interventi che potranno esserci delle varie autorità di controllo sull’operazione Espresso-Stampa. Non c’è il rischio che accada come in passato: e cioè che queste autorità, insieme al legislatore, finiscano per fotografare l’esistente, per non disturbare le manovre che accadono sul mercato?

«Sì. E’ un rischio che oggi è un dato di fatto. Vent’anni fa quando si ragionava di introdurre un maggiore pluralismo nel settore radiotelevisivo qualche possibilità c’era. Nel 1997 il legislatore aveva previsto una sorta di disarmo bilanciato tra Mediaset e Rai: la prima avrebbe dovuto mandare una delle sue reti tv sul satellite e la seconda avrebbe dovuto trasmettere sulla terza rete programmi senza pubblicità commerciale. Era un modo per liberare risorse trasmissive ed economiche da mettere a disposizione di imprenditori che volessero entrare sul mercato. Fu una soluzione debole, di compromesso, ma apriva qualche spiraglio. In realtà questa soluzione del ’97 non è mai entrata in vigore perché l’approvazione della legge Gasparri nel 2004 la annullò. Nel settore radiotelevisivo oggi ci troviamo praticamente nella stessa situazione di vent’anni fa, ma con l’aggravante che adesso è molto più difficile pensare di modificare questo assetto di mercato. C’è un’ultima cosa che va segnalata: la legge che stabilisce le soglie massime di espansione di un’impresa editoriale risale addirittura al 1981, trentacinque anni fa! Faccia i conti su quanto è cambiato da allora nell’assetto del mercato dell’informazione stampata. La classe politica dovrebbe fare un tentativo di rimettere mano a questa normativa antitrust che ovviamente non risponde più alle esigenze di un mercato completamente cambiato. E’ evidente che i mutamenti del mercato della stampa non possono essere disciplinati da regole concepite quasi quarant’anni fa!».

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    Raffaele Liguori
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