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Un no-global alla Casa Bianca?

Il Presidente USA Donald Trump

L’accordo preliminare della nuova intesa commerciale con il Messico è il primo atto concreto in materia di politica commerciale dell’amministrazione di Donald Trump. Ovviamente al netto dei dazi, che però da soli non costituiscono una politica.

Finora l’inquilino della Casa Bianca si era prodigato in una serie di no, buttando via anni e anni di negoziati promossi dai suoi predecessori. Il primo no è stato quello al TPP, l’accordo di libero scambio del Pacifico fortemente voluto da Barak Obama. Più importante ancora il TTIP, l’accordo di libero scambio Usa-UE, che molto probabilmente non sarebbe passato per le divisioni tra i partner europei e per la pressione della società civile, ma che alla fine è stato congelato da Donald Trump in persona.

Con l’annuncio del pre-accordo con il Messico, al quale potrebbe aggiungersi il Canada, viene archiviato il Nafta, l’accordo di libero scambio del Nord America firmato da George Bush e inaugurato da Bill Clinton il primo gennaio del 1994. Il Nafta fu il primo di una nuova tipologia di accordo commerciale. Delineate alcune protezioni su pochi settori scelti dai firmatari, per il resto venivano abolite le frontiere commerciali e produttive tra i paesi creando un nuovo grande mercato praticamente unificato. Diverso dall’UE però, senza compensazioni, senza una politica estera commerciale comune, senza fondi strutturali, senza un governo né un controllo democratico come quello esercitato dal parlamento europeo.

Per i Paesi minori, Messico e Canada, l’accordo ha portato all’aumento dei loro scambi con gli USA, ma fino al punto di dipendere quasi interamente da quel mercato. Conseguenze non calcolate al momento della firma sono state ad esempio la delocalizzazione del lavoro statunitense in Messico per via del costo della manodopera, oppure il riversamento in Messico delle eccedenze agricole sovvenzionate statunitensi che hanno distrutto il mercato agricolo messicano dei piccoli e medi produttori. Quel mondo agricolo che velocemente si è riconvertito alla coltivazione di sostanze stupefacenti e passato sotto il controllo dei cartelli del crimine. Dopo 24 anni, il Nafta è stato un affare per i grandi soggetti dell’economia dei tre paesi, dalle multinazionali ai signori della droga, ma molto di meno per i lavoratori, dagli operai di Detroit ai braccianti messicani.

Il nuovo accordo che Usa e Messico firmeranno è un passo indietro rispetto al Nafta, visto che si tratta di un semplice accordo bilaterale (trilaterale se aderirà il Canada) di scambio commerciale. Non più un’area comune, un diritto specifico per risolvere le controversie, l’obbligo di dovere spalancare il proprio mercato. Uno dei punti cardini dell’intesa è alla voce automobili, di cui il Messico è un grande esportatore negli USA.

L’accordo prevede che le auto esportate negli USA siano prodotte da operai che non guadagnano meno di 16 dollari l’ora, e che le parti utilizzate siano almeno al 90% prodotte nella regione (contro il 62% attuale). Con questa clausola, nessuno potrà più utilizzare il Messico per produrre macchine competitive in base al costo della manodopera o all’uso di parti provenienti dall’Oriente da esportare negli USA. Si suppone che clausole come questa riportino lavoro negli USA, cosa tuta da verificare.

Il Messico torna invece libero di firmare accordi commerciali con altri Paesi, cosa che il Nafta ostacolava anche se non impediva. La Cina, da quando ha vinto le elezioni Trump, fa la corte al Messico per firmare un importante accordo, ma anche l’area del Pacifico e il rapporto con il Sudamerica interessa molto a Città del Messico. Il paese che rischia di più è il Canada, in quanto parte integrante dell’economia statunitense che ora però rimette di nuovo le frontiere economiche. Per questo motivo Trudeau da tanta importanza alla firma del trattato CETA con l’Europa, anche il Canada ha bisogno di diversificare i clienti e i fornitori.

La risposta delle Borse all’annuncio del nuovo trattato è stata spumeggiante, non tanto perché l’accordo in sé sia positivo, ma perché dimostra la volontà della Casa Bianca di non portare fino in fondo sole politiche isolazionistiche. Trump ha applicato con successo la sua politica del dividere per fare pesare la potenza del suo paese. Non ha ridiscusso il Nafta insieme agli altri due partner, ma li ha affrontati uno ad uno.

Il presidente degli Stati Uniti sarà sì no-global, a modo suo ovviamente, ma capisce benissimo che il suo Paese dipende dai rapporti con il Mondo e l’economia gli sta dando ragione. I numeri della crescita e dei nuovi posti di lavoro che si continuano a creare negli Stati Uniti varranno al momento del voto molto di più delle vecchie storie a sfondo sessuale.

Il Presidente USA Donald Trump
Foto dal profilo ufficiale di Donald Trump su Facebook https://www.facebook.com/DonaldTrump/
  • Autore articolo
    Alfredo Somoza
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    Un anno di Trump (dopo i primi quattro dal 2016). Il 6 novembre 2024 il tycoon veniva rieletto alla Casa Bianca con una maggioranza risicata, poco più di 2 milioni di voti su 156 milioni di schede votate. In un anno Trump ha trasformato il declino di una superpotenza - gli Stati Uniti degli ultimi anni - in una forza aggressiva contro paesi e principi che erano stati amici dal dopoguerra ad oggi. Trump e il tramonto della relazione privilegiata americana con l’Europa; Trump e il tramonto delle garanzie democratiche dello stato di diritto. Nel primo anniversario del ritorno di Trump alla Casa Bianca è arrivata l’elezione del sindaco di New York Zohran Mamdani. Ecco un passaggio del suo discorso della vittoria: «la saggezza convenzionale direbbe che sono ben lontano dall’essere il candidato perfetto. Sono giovane, nonostante i miei sforzi per invecchiare. Sono musulmano. Sono un socialista democratico. E, cosa ancora più grave, mi rifiuto di chiedere scusa per tutto questo». Pubblica ha ospitato Ida Dominijanni, giornalista e saggista, fa parte del direttivo del Centro per la Riforma dello Stato. Ha insegnato filosofia politica e teoria femminista all’università di Roma Tre ed è stata ricercatrice alla Cornell University (NY).

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    A Belèm in Brasile lunedì si apre la Cop30 per il clima per cercare di tenere insieme la lotta al riscaldamento globale sotto i colpi del negazionismo di Trump e delle guerre; insieme alla Cop nella città amazzonica si riuniscono migliaia di rappresentanti di movimenti e organizzazioni sociali per elaborare proposte sulla crisi climatica, a partire da quelle relative all'Amazzonia e ai popoli che la abitano. Si chiama Cupola dos Povos ovvero "cupola dei Popoli", e non è la prima volta che si riunisce anzi, è una tradizione. Come ci racconta una delle leader del movimento indigeno brasiliano Sila Mesquita Apurina intervistata da Sara Milanese.

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    Gaza, l’Onu chiede cibo e tende per l’inverno, ma Israele continua a demolire edifici con raid aerei

    Gaza, l’Onu chiede cibo e tende per l’inverno, ma Israele continua a demolire edifici con raid aerei “A Gaza mancano cibo e rifugi, bisogna aprire il valico di Rafah”: è l’ennesimo appello che l’Onu rivolge a Israele. A quasi un mese dall’entrata in vigore del cessate il fuoco, nella Striscia entra ancora solo una minima parte degli aiuti previsti; le agenzie umanitarie denunciano che Israele impedisce l’ingresso anche a tende, coperte e rifugi. I palestinesi della Striscia, in gran parte sfollati, non sono in condizione di affrontare la stagione fredda che si avvicina. L’esercito però, in violazione del cessate il fuoco, continua l’opera di demolizione degli edifici: dall’alba sono in corso raid aerei sui quartieri orientali di Gaza City. A livello diplomatico intanto gli Stati Uniti, intanto, portano avanti il loro piano per Gaza presso il consiglio di sicurezza dell’Onu: nelle scorse ore la risoluzione che autorizza la Forza internazionale di stabilizzazione è stata presentata anche ai paesi arabi coinvolti nel processo di mediazione tra Hamas e Israele. Da Deir al Balah, la testimonianza di Nicolò Parrino, responsabile logistica di Emergency a Gaza, intervistato da Chawki Senouci.

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