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Siria, l’obiettivo degli USA è incerto

Gli Stati Uniti stanno ancora valutando il tipo di intervento militare in Siria, mentre la Francia e la Gran Bretagna si stanno già preparando per partecipare a un possibile attacco. Lo stesso Presidente USA Donald Trump si è dimostrato molto confuso in queste ultimo 24 ore, promettendo prima alla Russia “l’arrivo di missili nuovi e intelligenti” e correggendo il tiro poco dopo, precisando che l’attacco in Siria potrebbe arrivare “molto presto o non così presto“.

Il Pentagono e Donald Trump sembrano avere idee molto differenti sull’approccio da seguire, ma in caso di un’azione militare in Siria continua a non essere chiaro quale possa essere l’obiettivo degli Stati Uniti. Lo abbiamo chiesto a Roberto Iannuzzi, ricercatore dell’Unione delle Università del Mediterraneo (Unimed) e caporedattore del sito di approfondimento sul Medio Oriente MedArabNews.

Che cosa vogliono fare gli Stati Uniti? Effetto finale della confusione strategica della politica estera di Trump oppure è un chiarimento strategico?

Credo che siamo ancora in un ulteriore aggravarsi della confusione strategica. Non si capisce qual è l’obiettivo strategico di questo tipo di intervento. Se si ripete quello che è stato fatto l’anno scorso dopo l’episodio chimico di Khan Sheikhoun, ovvero il bombardamento di una base militare come avvenne alla base di Al Shayrat, non cambia nulla sul terreno, sarà semplicemente uno sfogo militare che non porterà ad alcun risultato. Altrimenti si deve prevedere un intervento più consistente e quindi la possibilità di colpire più basi militari ed eventualmente anche edifici governativi. Ovviamente in questo modo crescerà il rischio di escalation perchè crescerà la possibilità di colpire obiettivi russi e iraniani. E quindi ci sarà il rischio di una risposta russa. Dove vogliamo andare a parare? Anche un intervento di questo tipo, da un punto di vista strategico e delle conseguenze che porterebbe per l’evolversi del conflitto siriano, non ha un chiaro obiettivo. Si può indebolire militarmente Assad, ma adesso Assad ha praticamente vinto quindi anche indebolirlo militarmente non determina un’alternativa sul terreno. Il rischio, invece, è quello di ridare fiato allo Stato Islamico, che ancora presenta sacche non indifferenti soprattuto nella Siria orientale, ma anche nella parte occidentale del Paese, e di sprofondare ulteriormente questo Paese nel caos. L’utilità di questa opzione è alquanto discutibile. C’è da tener presente, però, che la precedente strategia americana era quella di, pur riconoscendo il fallimento del piano di rovesciare Assad, negare la vittoria ai russi, in altre parole di impedire la ricostruzione mantenendo le sanzioni nei confronti del Paese e mantenendo la presenza militare americana nella Siria orientale.

È ancora realistico questo obiettivo?

Questo obiettivo è realistico nel senso che le sanzioni di cui molto poco si parla hanno un potete molto forte, perchè non solo negano l’arrivo di capitali occidentali in Siria, ma rendono molto difficile a Paesi come la Russia, l’Iran e la Cina, che potrebbero essere le alternative a cui si rivolge in questo momento il regime siriano, di investire in Siria. Questo perchè si tratta di sanzioni secondarie o extraterritoriali, colpiscono tutti coloro che fanno affari con la Siria, escludendoli di fatto dal sistema finanziario americano, che è centrale nel sistema mondiale. Questo impedisce anche alle aziende cinesi di investire in Siria, pena il fatto di essere sanzionate a livello internazionale, cioè di essere escluse dal mercato americano, da quello europeo e così via. È uno strumento potente, ma in questo modo si mantiene la Siria in questo stato di distruzione e non si costruisce nessuna alternativa. Non credo che sia un’ipotesi costruttiva.

Posta l’impossibilità fisica di un rovesciamento di Assad in questo momento da parte degli Stati Uniti, l’obiettivo potrebbe essere altrove?

La presenza militare americana in Siria è finalizzata essenzialmente a impedire il rafforzamento dell’influenza iraniana in Siria e in generale a contrastare l’influenza iraniana in tutto il Medio Oriente, e quindi parliamo anche di Iraq, Yemen e così via, e allo stesso tempo di contestare la rinnovata influenza russa. L’obiettivo strategico in particolare del Pentagono, e comunque condiviso anche dagli ambienti politici di Washington sia democratici che repubblicani, è proprio questo. E su questo c’è uno scontro politico con Trump, il quale ha questa tendenza a preferire un ritiro. Fino a questo momento Trump è stato sconfitto di fatto anche perchè è sotto ricatto con tutti gli scandali di cui sappiamo, dal cosiddetto Russiagate in poi.

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    “L'abbiamo vista arrivare”. La tecnica dell’odio secondo chi la studia da anni

    L'uccisione negli Usa di Charlie Kirk rischia di innescare un incendio che travalica i confini americani. Da subito la destra “globale” ha lanciato in quasi in tutto l’occidente una campagna contro la sinistra – a tutte le latitudini e senza distinzioni - accusandola di essere complice se non responsabile di quella morte. È un passo in più, nel paradosso in cui siamo immersi: chi ha alimentato campagne di odio ora accusa gli altri di fomentarlo. Una confusione da cui sarebbe necessario uscire rimettendo in fila i fatti, le cause, gli effetti e il loro intreccio. L'intervista di Massimo Bacchetta a Federico Faloppa, docente di “linguaggio e discriminazione” all’Università di Reading (UK), prova a farlo. Federico Faloppa è anche referente scientifico per la “Rete per il contrasto ai discorsi e fenomeni d’odio”.

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