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“Dividiamo il conto a cena”

Visto che sono rimasti separati per 66 anni, si sono lasciati andare a una stretta di meno durata 70 secondi.

Magari è solo un caso, ma abituati alle sottigliezze dei cerimoniali cinesi siamo portati a credere che la cosa fosse voluta, come a dire che il legame tra le diverse anime della Cina è più duraturo e profondo delle “incomprensioni momentanee”. Laddove sei decenni e passa sono un “momento” di fronte a tremilacinquecento anni di storia (cinquemila per alcuni, “solo” duemila-e-qualcosa per altri ancora).

Occhi, flash, telecamere, puntati sull’hotel Shangri-La di Singapore dove alle 15:00 locali, le 8:00 italiane, è cominciato lo storico incontro tra il presidente cinese Xi Jinping e quello taiwanese Ma Ying-jeou. Dopo l’interminabile stretta di mano, i due si sono rinchiusi nella sala dove solo pochi giornalisti erano ammessi. Si sono chiamati a vicenda “signore”, cioè senza titoli ufficiali, visto che non possono riconoscere i reciproci ruoli. Le parti erano composte di sette da una parte e sette dall’altra; gli osservatori sono rimasti sconcertati che non fossero otto, visto che quello è il numero fortunato per tutti i cinesi di ogni latitudine e longitudine.

Alle 16.15, ora locale, Zhan Zhijun – il direttore dell’ufficio cinese per gli affari di Taiwan – è stato il primo a raccontare urbi et orbi che cosa si fossero detti – o avessero concordato di dire – i due presidenti-signori, che in sala erano seduti in modo da guardarsi direttamente in faccia.

La novità più sostanziale pare essere la prossima istituzione di una hotline tra Pechino e Taipei per dirimere in tempo reale qualsiasi problema urgente. Entrambi i Paesi hanno citato il “consenso del 1992” – il protocollo che sancisce il principio di “una sola Cina” – come base delle relazioni future, anche se Ma ha sottolineato come restino divergenze su come interpretarlo.

La Cina ha chiesto ai dirimpettai di partecipare attivamente al progetto One Belt One Road, la rinnovata Via della Seta che tanta ricchezza porterà a Eurasia (dicono); e li ha invitati nella Asian Infrastructure Investment Bank – l’istituto finanziario a guida cinese – da cui erano finora esclusi in quanto entità non riconosciuta dalla Cina.

Pechino, ancora una volta, preferisce lasciar parlare gli affari, ma i messaggi economici lasciano intendere un riconoscimento politico. Zhang ha aggiunto che “la più grande minaccia reale per uno sviluppo pacifico [delle relazioni] è il gruppo pro-indipendenza di Taiwan e le sue attività”.

A esplicita domanda della stampa, Ma Ying-jeou ha affermato di avere sollevato con Xi il problema dei missili cinesi puntati su Taiwan, ricevendo dal presidente cinese una bizzarra rassicurazione: “Lo spiegamento [di missili] è olistico (!) e non è rivolto contro la popolazione di Taiwan”.

Qualsiasi cosa volesse dire il presidente cinese, è la prima volta che rappresentanti di Pechino e Taipei parlano del problema. Si è discusso anche delle difficoltà che incontrano i membri taiwanesi di Ong che operano sul suolo cinese e del disturbo che Pechino reca all’attività diplomatica di Taiwan.Tra le note a margine, va detto che la conferenza stampa di Zhan Zhijun è stata determinata da un protocollo rigidissimo, criticato esplicitamente da qualcuno in sala, e pare che i taiwanesi non abbiano apprezzato che solo a un giornale di Taipei – il China Times – sia stato concesso di rivolgere una domanda al rappresentante della Repubblica Popolare. Più alla mano l’approccio di Ma.

Che cosa resta di questo storico incontro? Le analisi arriveranno copiose, nelle prossime ore. Per ora si può dire che Taiwan non è né il Tibet né lo Xinjiang, non è neanche Hong Kong. Taiwan è fuori dalla portata della Cina. Per questo motivo, nello storico incontro di oggi, a entrambi i presidenti-signori era richiesto un equilibrismo diplomatico da camminatori sul filo. Il modello cinese win win, quello per cui lo sviluppo economico avvicina gli opposti e risolve i conflitti, negli affari taiwanesi non basta più: dopo anni di ammiccamenti reciproci, aperture commerciali e addirittura un patto di libero investimento firmato e mai ratificato, Pechino non poteva eludere oggi il fatto che le relazioni con Taipei richiedono un salto di qualità politico, non solo economico.

Alle elezioni del gennaio 2016, il Kuomintang – favorevole al riavvicinamento con la madrepatria – probabilmente perderà a vantaggio del Partito democratico progressivo, indipendentista, quello a cui si riferiva Zhan Zhijun parlando di “minaccia”. Ma Ying-jeou è oggi presidente della “provincia ribelle” ma soprattutto un “morto che cammina”: si trova a fine mandato ed è soprattutto il massimo rappresentante di quel Kuomintang che cerca di riguadagnare consensi e che – di fronte a sondaggi sfavorevoli – non è riuscito ancora a candidare un successore.

Xi Jinping doveva favorire l’ulteriore riavvicinamento con Taipei, senza però lasciare intendere all’elettorato taiwanese che la Cina voglia esercitare una “tutela” in stile Hong Kong, pena l’ulteriore tracollo del partito che sull’isola gli fa da sponda. Al tempo stesso, doveva tranquillizzare i cinesi nati, cresciuti ed educati nel culto del ritorno dell’isola alla madrepatria. Doveva dare una specie di pacca sulla spalla a Ma, sperando che non si riveli controproducente, ma al tempo stesso tenersi buona anche Tsai Ing-wen, la leader del Partito democratico progressivo che sarà probabilmente la sua prossima interlocutrice.

Quanto a Ma, lui doveva lasciare intendere alla sua gente che il rapporto con Pechino è alla pari, enfatizzando al contempo i buoni risultati finora conseguiti nei rapporti economici bilaterali, senza però dare ad intendere che Taiwan stia calando le braghe. L’impressione è che il presidente taiwanese ne sia uscito a testa alta, forse assecondato in questo dal suo interlocutore, che gli ha lasciato il palcoscenico finale.

Resta la sensazione di un incontro altamente simbolico, improntato al rispetto reciproco nel segno di una comune “sinicità”. Quasi una fratellanza. Sarà probabilmente lasciato a decantare, affinché si sedimenti nelle menti e nei cuori di tutti i cinesi, senza che si accelerino troppo i tempi per risolvere ciò che è rimasto in sospeso per 66 anni. Dopo le conferenze stampa, c’è stata la cena congiunta. Qualche burlone ha scritto su Twitter che Cina e Taiwan si erano precedentemente accordate per dividere il conto.

  • Autore articolo
    Gabriele Battaglia
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    Violenza stradale, numeri un po' in calo. Il rimedio: l’educazione e diminuire la velocità

    L’Istat ha pubblicato i report sugli scontri stradali, su base regionale (relativi al 2024) e anche alcuni dati sui primi sei mesi di quest’anno. Ci sono meno feriti e meno vittime sulle strade, anche se i numeri restano ancora drammaticamente elevati. Secondo l’Istituto di Statistica nel primo semestre del 2025 i morti sono stati 1310 (si parla di morti per scontri stradali se il decesso avviene entro 30 giorni dall’evento, quindi sono escluse le persone che muoiono, nonostante la causa siano le conseguenze dello scontro, oltre quel limite temporale) contro i 1406 dello stesso periodo dell’anno precedente. I feriti sono stati 111090, anche in questo caso in calo rispetto al 2024, quando erano stati 112428. Gli obiettivi europei sulla sicurezza stradale prevedono il dimezzamento del numero di vittime e feriti gravi entro il 2030 rispetto all’anno di riferimento, che è il 2019. In Italia al momento registriamo una diminuzione del 4,5% (in Lombardia del 12,6). Bisogna ancora fare molto per riuscire a raggiungere l’obiettivo. Uno degli aspetti fondamentali, oltre la diminuzione della velocità, è l’incremento dell’educazione stradale. Stefano Guarnieri, padre di Lorenzo, morto nel 2010 a causa di un omicidio stradale a Firenze ha fondato l’associazione Lorenzo Guarnieri, che da anni si impegna a portare avanti un discorso di educazione. Alessandro Braga lo ha intervistato nella trasmissione Tutto Scorre.

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