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Napoli, vent’anni fa la dismissione dell’Ilva

«La dismissione dell’Ilva ha riguardato non solo una fabbrica, ma forse una città intera». E’ il giudizio che Ermanno Rea – autore del celebre romanzo “La dismissione” – ha riproposto oggi a Memos a distanza di vent’anni dalla chiusura di Bagnoli.

Che differenza c’è tra Bagnoli e la Torino del 1980, la Fiat dei 35 giorni di sciopero che abbiamo raccontato lunedì scorso con Diego Novelli? «La classe operaia è stata umiliata in entrambi i casi – dice Rea – con la differenza che la Fiat non è morta mentre l’Ilva sì. La classe operaia a Napoli è stata completamente spazzata via, non ha più avuto voce in capitolo e una parte cospicua della città è stata messa allo sbaraglio».

Rea racconta l’origine della storia centenaria della fabbrica dell’acciaio napoletana: «L’Ilva nasce all’inizio del secolo scorso con una missione salvifica rispetto alla città: dare lavoro ed essere un argine contro la camorra. E anche successivamente – nel dopoguerra – la fabbrica doveva compiere la sua missione di bonificare il vicolo, la Napoli sottoproletaria dell’illegalità diffusa. C’era una classe operaia estesa che portava nella società napoletana un elemento di ordine, di razionalità, di onestà e attaccamento al lavoro che contrastava con la città del vicolo».

Ermanno Rea
Ermanno Rea

Perchè è stata chiusa la fabbrica di Bagnoli all’inizio degli anni ’90? «E’ difficile dirlo. Che la fabbrica prima o poi potesse essere chiusa o delocalizzata lo capisco. La chiusura di Bagnoli avrebbe aperto la possibilità di riutilizzare aree di enorme valore immobiliare che facevano gola a molti. Ma ciò che mi colpì fu il modo brutale con cui fu chiusa, proprio mentre poteva essere rilanciata».

Ermanno Rea ha una sua spiegazione “sistemica” del fallimento di Bagnoli che spiega così: «l’Italia è colpevole di non essere riuscita a diventare un paese unito. E’ prevalso un incallito anti-meridionalismo della classe dirigente. Ma anche Napoli è stata colpevole quando si è ripiegata su se stessa e ha coltivato la cultura della sovvenzione».

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    Raffaele Liguori
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