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37mila neo-mamme hanno lasciato il lavoro nel 2019

mamme lavoro

Nel 2019 sono state 37mila le neo-mamme costrette a lasciare il lavoro. Lo rivelano i dati dell’Ispettorato del Lavoro, che evidenziano invece come i papà che nello stesso anno hanno lasciato la propria occupazione per seguire la famiglia siano stati appena 13.947. Ne abbiamo parlato con Barbara Poggio, docente di Sociologia del Lavoro presso l’università di Trento.

L’intervista di Lorenza Ghidini e Claudio Jampaglia a Prisma.

Questi dati la colpiscono?

Il rapporto ci offre anche i dati relativi agli anni precedenti e rispetto all’anno prima il numero è stazionario. Invece l’aumento è molto rilevante se si guardano gli ultimi dieci anni: nel 2011 erano complessivamente 17mila, quasi tutte donne. Oggi siamo a 37mila, un dato importante. Aumenta anche il dato maschile, pur restando minoritario. Il dato delle madri colpisce e forse va letto anche nel contesto più generale dei dati sul mercato del lavoro in Italia. Non abbiamo quello sul 2019, ma sappiamo che nel 2018 c’erano state un 28% di donne lavatrici che avevano lasciato il lavoro dopo la nascita del primo figlio. Lo studio ha considerato nel totale soltanto le persone che si sono dimesse con figli fino a 3 anni e il 60% di questi dati riguarda il primo figlio. Già dopo il primo figlio, o in attesa del primo figlio, si lascia il lavoro.

Perché, invece di migliorare, le cose stanno peggiorando?

La crisi sicuramente ha peggiorato la situazione per tutti, ma in particolare per le donne nel lungo periodo. Poi c’è anche un cambiamento del lavoro con un aumento della precarietà che ancora una volta colpisce in modo più forte le donne e in alcuni casi rende più difficile mantenere un lavoro e porta anche a fare delle valutazioni legate al fatto che se il salario è basso e non sicuro, forse vale la pena lasciarlo. I dati forniscono anche le motivazioni, che sono l’assenza di parenti di supporto come la mancanza dei nonni, ma anche i costi elevati dei servizi. Il problema cronico in Italia è legato al fatto che a fronte di grande enfasi, le politiche sono molto ridotte.

Lei ricordava le motivazioni. Il 53% delle donne che hanno lasciato il lavoro non riusciva a conciliarlo con la cura del bambino. Una parte di queste, però, lo ha fatto anche per ragioni legate all’azienda, non soltanto al sistema. E il 60% per un figlio, non per due o tre. Al primo figlio era già in crisi. È sempre stato così o è una cosa che notiamo oggi?

Il problema è antico in Italia, ma qualche anno fa i dati non erano così significativi. In Italia è davvero complicato lavorare e fare le madri. Da un lato c’è un mercato del lavoro poco attento, in cui il fatto di avere figli, soprattutto se si è madri, rappresenta un handicap, mentre per i padri la storia è un po’ diversa e la presenza di figli può essere anche considerata un elemento di affidabilità. Un altro dato della ricerca è che i part-time sono concessi poco, ma io aggiungerei che il part-time in Italia è sempre più involontario: quando serve all’azienda si fa, in altri casi meno. E credo che il grande esempio in Italia sia stata l’emergenza COVID: lo smart working prima era impossibile da fare e invece di colpo sono finiti tutti in smart working.

E invece questi quasi 14mila papà che nel 2019 hanno lasciato il lavoro quando è arrivato il figlio, chi sono e perché lo hanno fatto?

Questo bisognerebbe capirlo meglio. Teniamo conto che tra gli uomini è più alta la percentuale di coloro che hanno lasciato il lavoro per cercarne un altro. Magari hanno cercato lavori che consentissero di conciliare meglio con la famiglia, e questo è difficile da dire. Però va anche detto che fra le generazioni più giovani per fortuna ci sono dei cambiamenti e si spera che ce ne sia una parte che lo ha fatto per cercare un lavoro che fosse più flessibile o che consentisse meglio di prendersi cura del figlio o dei figli.

I congedi parentali sono determinanti o sono un dettaglio?

Io credo che siano un fattore fondamentale e credo che in Italia ci si sia mossi molto tardi rispetto ad altri Paesi. Ora il Family Act in qualche modo spinge in questa direzione, anche se in modo non sistematico e con alcuni limiti. Credo che il tema non sia l’unico, ma bisogna insistere sull’utilizzo dei congedi da parte dei padri. Credo sia assolutamente fondamentale.

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    “Mi ricordavo di questo omino con gli occhiali che leggeva degli annunci un po’ strani”, racconta Valerio Finessi, regista di “Walter Valdi, un milanese a Milano”. Finessi descrive in un documentario la figura di Walter Valdi (Nicola Walter Gianni Pinnetti 1930-2003), cantautore e cabarettista della squadra storica del Derby Club di Milano. Prima avvocato e poi attore, è stato diretto da Giorgio Strehler, ha sempre scelto di cantare in dialetto milanese, senza però ottenere il successo di altri suoi compagni di lavoro come Cochi e Renato, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci. “E’ stato dimenticato perché la scelta del dialetto meneghino lo ha un po’ isolato” spiega Finessi. Walter Valdi ha scritto brani per il Coro dell’Antoniano, portati in scena allo Zecchino d’Oro e ha recitato in alcuni film di Maurizio Nichetti, Carlo Lizzani, Ermanno Olmi e Luigi Comencini. Ascolta l'intervista di Barbara Sorrentini a Valerio Finessi.

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