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Muhammad Ali, addio al più grande di tutti

Scioccare il mondo. Questo l’imperativo che Muhammad Ali, fu Cassius Clay, si era dato nella vita. Vi rimase fedele fino all’ultimo, in ogni uppercut e in ogni dichiarazione, sul ring e in privato, nei giorni da campione e nella malattia.
Nacque a Louisville nel 1942. Il lavoro di suo padre, pittore di insegne, garantì alla famiglia una casetta bianca con veranda e pasti abbastanza regolari. A indirizzare Muhammad alla boxe fu un poliziotto del quartiere, che cercava di calmarlo dopo il furto della sua bici: se vuoi vendicarti, gli disse, devi prima imparare a batterti. Le sue doti non erano comuni, si fece un nome quasi subito. Il mondo conobbe il suo sorriso da ragazzino alle Olimpiadi di Roma, quando salì sul gradino più alto dei mediomassimi. Sparirà tra i professionisti, pensarono in molti, e invece gli avversari, sempre più quotati, iniziavano a cadere. Nel 1964 l’hype attorno alle sue imprese era enorme e gli fu concessa la prima chance mondiale. Di fronte a lui per la cintura dei pesi massimi Sonny Liston. Ci volle poco a capire che il campione non poteva nulla contro l’agilità del ragazzo dal Kentucky: una leggenda sfioriva, una ancora più grande aveva inizio. Il giorno dopo tenne fede al suo impegno di scioccare il pianeta, si convertì e cambiò nome, aderì alla Nation of Islam. Nel rematch concesso a Liston lo mandò al tappeto dopo un minuto e inaugurò una galleria iconografica sterminata con le sue feroci esortazioni a rialzarsi.
La gente era sconvolta per davvero. I neri e i poveri stavano con lui, i ricchi pure. Difese il titolo otto volte, poi la sua carriera fu interrotta dalla chiamata in Vietnam da parte dell’esercito americano, che Alì rifiutò.“Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro” disse. Al suo ritorno conobbe la sconfitta per mano di Joe Frazier, in quello che sarà ricordato come Il match del secolo. La nuova chance per il titolo arrivò nel 1974 contro il successore di Frazier, George Foreman. A Kinshasa, in Zaire, andava in scena Rumble in the jungle, il suo apparato mediatico aveva fatto l’ennesimo capolavoro. Al resto pensò Muhammad che, accolto dal coro “Alì uccidilo” di 100 mila persone, diede vita a una battaglia indimenticabile. Era campione del mondo per la seconda volta. Un anno dopo toccò a Joe Frazier, questa volta alle Filippine. Thrilla in Manila andò di nuovo a Alì. “Impossibile non è per sempre” ripeteva in ossequio al vizio per gli aforismi. Fu uno degli ultimi squilli del campione. Che sul ring era più pesante, meno devastante. Perse il titolo nel 1978, si ritirò e tornò a combattere. Colpì e ferì la sua lentezza, erano i primi sintomi della sindrome di Parkinson.
Lasciò definitivamente nel 1981 con 61 incontri disputati e 56 vittorie, 37 delle quali per KO. Nel 1996, lui che mai aveva amato fino in fondo il suo Paese razzista, commosse tutti quando si fece tedoforo alle Olimpiadi di Atlanta. Le apparizioni in pubblico furono poche, la vita privata intensa: si sposò quattro volte ed ebbe nove figli. Oltre, come sempre.
Che sia stato il più forte pugile di sempre, come ripeteranno allo sfinimento nelle prossime ore, è possibile, probabile e del tutto irrilevante.
  • Autore articolo
    Dario Falcini
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