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L'Ambrosiano

Storia e attualità

La pandemia è già storia. Il Corriere della Sera regala le prime grandi pagine dalla fondazione (1876) tra cui quella 10 marzo del 2020: “Ora chiusa tutta l’Italia”. Il Covid era esploso, minacciava il mondo. Storia è distanza, memoria, senso critico, pensieri articolati perché nella dialettica tra fonti e valutazioni cresca la coscienza collettiva e non si ripetano errori grossolani, ci si sforzi in politica: cambiare in una tradizione vissuta nel bene comune. Storia sarebbe magistra vitae se non ci fossero cattivi maestri a praticarla o a riscriverla. Nel 2020 una generazione sparì; nei numeri: la popolazione d’un capoluogo. Da Bergamo di notte partivano camion militari per portare salme ai crematori d’altre città. Il mantra fu: medici e infermieri eroi, fondi alla Sanità pubblica, ricerca, investimenti sui giovani, mai più partiti a equiparare privato e pubblico. Oggi: Meloni taglia miliardi alla sanità pubblica, la destra fa una commissione d’inchiesta sul Covid (però non indagherà sulle Regioni che gestiscon la salute: Lombardia in testa), gli specialisti fuggono, le code di pazienti crescono, milioni rinunciano a curarsi. Intanto Calenda e Renzi van col centrodestra in Basilicata, con quelli di cui la Corte dei Conti ha svelato le magagne del PNNR: rimodulazioni, meno soldi agli ospedali e più poteri a Palazzo Chigi. Il Corriere offrirà altre pagine per verificare coerenza tra storia e attualità: 25 aprile 1945; 2 giugno 1946; 27 dicembre 1947; sconfitta del nazifascismo, Repubblica, Costituzione. Intanto però Liliana Segre vien fatta oggetto di attacchi inqualificabili e l’Autorità dello Stato che ha voluto andar con lei al Binario 21 non riesce a pronunciare la parola “antifascista” e anche chi si dice liberale continua a non cogliere i nessi tra Costituzione frutto della lotta di Liberazione e sanità e scuola pubblica, tasse giuste (non pizzo di Stato!), dare ai giovani futuro non manganelli, accogliere chi fugge da guerre e povertà invece di esercitare il sadismo di Stato: navi Ong spedite a Ravenna con disperati salvati nel Mediterraneo mentre compagni e amici morivano o venivan ripresi da libici e riportati in lager che l’Europa, per la quale andremo a votare, finge di non vedere o finanzia per tener lì i migranti.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Appunti sulla mondialità

La “ricetta” di Bukele in Salvador

Il metodo usato dal presidente di El Salvador Nayib Bukele per sgominare le bande criminali che imperversavano nel suo Paese sta diventando sempre più popolare anche in altri contesti latinoamericani. In breve, si tratta di un mix di repressione, sospensione dei diritti costituzionali e riconquista dello spazio pubblico da parte dello Stato: in Salvador, questa ricetta ha dato risultati strabilianti.

Bukele è arrivato al potere nel 2019 dopo essere stato sindaco della capitale San Salvador, e non si può escludere che nella sua ascesa abbia goduto del sostegno di alcune maras, le bande criminali originarie di Los Angeles che sono state “esportate” in America centrale dagli Stati Uniti con espulsioni di massa. All’epoca El Salvador era il Paese americano più violento, ogni anno si contavano oltre 100 omicidi ogni 100.000 abitanti e vaste zone erano controllate con le armi dalle maras, che riscuotevano il pizzo, trafficavano droga e soprattutto imponevano il loro potere con il terrore. Nel 2022 il tasso di criminalità è crollato a 7,8 omicidi ogni 100.000 abitanti, il più basso del continente.

Nel frattempo, Bukele aveva lanciato il suo piano di lotta alla criminalità, dichiarando la sospensione dei diritti costituzionali, costruendo un gigantesco carcere “smart”, assumendo nuovo personale di polizia e imprigionando 62.000 persone anche solo sospettate di far parte delle bande criminali. Molti capi delle gang sono scappati all’estero, quelli rimasti in patria non possono agire senza che vi siano ritorsioni verso i loro parenti e sodali detenuti, ad esempio sospendendo l’erogazione del cibo in carcere. Questa politica da un lato è stata condannata da quasi tutti gli organismi internazionali che difendono i diritti umani, dall’altro ha permesso ai cittadini onesti di riconquistare la loro libertà, a lungo presa in ostaggio dalle bande.

A febbraio Bukele si è ricandidato alla presidenza, forzando la Costituzione che non avrebbe permesso un secondo mandato consecutivo, e alle elezioni ha ottenuto un consenso record: quasi l’85% dei voti. Ora sul suo “modello” si comincia a ragionare anche in altri Paesi, perché il problema della criminalità organizzata è comune a tutta l’America Latina, che si tratti di cartelli del narcotraffico o di bande criminali comuni che il narcotraffico ha reso più forti. Il grande alimentatore di questa situazione è infatti sempre lo stesso, il traffico degli stupefacenti, che fino agli anni ’80 aveva ricadute solo su Bolivia, Colombia e marginalmente sul Messico. All’epoca il mercato dei cartelli era altrove, negli Stati Uniti e in Europa, e non c’era bisogno di coinvolgere altri Paesi latinoamericani. Ma dagli anni 2000 la situazione è cambiata: tutta l’America Latina è diventata un mercato consumatore, inoltre molti Paesi sono stati scelti dai grandi trafficanti per estendere la produzione di droga o riciclare soldi sporchi. I piccoli delinquenti sono stati foraggiati per diventare guardiani dei nuovi capi, che ora sono messicani, e oggi la capacità militare e organizzativa dei gruppi criminali risulta spesso superiore a quella delle istituzioni pubbliche. È stato un processo velocissimo, totalmente ignorato dalla politica sia di destra sia di sinistra: silenzi, connivenze, finanziamento illecito di molte campagne elettorali e, di tanto in tanto, qualche scandalo.

La cronaca è piena di casi che spiegano come la politica sia diventata funzionale al narcotraffico, ma ora la situazione è sfuggita di mano. Basti pensare a Paesi come El Salvador e Honduras, o a città come Rosario in Argentina, Guayaquil in Ecuador e Rio de Janeiro in Brasile, dove lo Stato non c’è oppure si palesa ogni tanto uccidendo persone a caso nelle baraccopoli. Per questo il “metodo Bukele” diventa un modello: dimostra che in due o tre anni è possibile eliminare le bande, e cosa importa se per farlo bisogna sospendere il diritto alla difesa degli imputati, allungare i tempi della detenzione preventiva, trasformare le carceri in luoghi di tortura fisica e psichica? Un governo che sta cominciando a ragionare in questi termini è quello argentino di Javier Milei, e lo stesso Bukele si è offerto per risolvere il problema delle bande che controllano Haiti.

Questa svolta securitaria altro non è che il rovescio della stessa medaglia del lassismo complice: entrambi sono espressione di una gestione dell’ordine e della giustizia incapace di trovare una sintesi e di garantire insieme la sicurezza, i diritti dei cittadini e quelli dei detenuti. Ma è una scorciatoia molto popolare, come dimostrano i numeri di Bukele. I cittadini di El Salvador hanno fatto la loro scelta netta tra una democrazia che non è riuscita a tutelarli e una ricetta autoritaria che però ha funzionato. Quando si tocca il fondo, come è successo in America centrale, è difficile avere dubbi.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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L'Ambrosiano

Il primo passo

Il Papa che sprona a lavorare per la pace e a impedire che i conflitti degenerino è cosa nota: lo fa da dieci anni, da quando in uno dei suoi primi viaggi rivelò un mondo borderline: governi e alleanze instabili; ingiustizie; violenze; nazionalismi; neocolonialismi; economia senza umanità; migranti respinti; Mediterraneo ridotto a cimitero. Coniò l’espressione “terza guerra mondiale a pezzi”. La novità con l’intervista alla Televisione Svizzera è che Francesco pone con le spalle al muro i protagonisti delle guerre in corso: Russia, Ucraina, Nato, Israele, Hamas e i Paesi schierati pro l’uno o l’altro. Sul tavolo il Papa mette la questione nodale: il coraggio di fare il primo passo. Di fatto denuncia che aspettare che sia l’altro a prendere l’iniziativa è non voler affrontare le ragioni del conflitto; insistere perché il nemico ceda è non fare nulla per la pace; il rischio è che la Terza Guerra scoppi davvero. Regola fondamentale della psicologia è che ognuno risponde di ciò di cui dispone, in primis la propria volontà. Perché le manifestazioni di questa siano credibili e inconfutabili ci vogliono gesti concreti, proposte, incontri effettivi; i propositi sono insufficienti; si diceva una volta: “di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno”. Alla base del pensiero di Francesco c’è una categoria, la responsabilità, che è individuale, dal cittadino all’uomo di Stato, e collettiva, riferita a decisioni di chi governa istituzioni, economia, imprese, media, a scelte popolari (elezioni), a umori dell’opinione pubblica indotti da social, business di piattaforme, like, rumors. Gli imbarazzi ufficiali mostrano che il Papa ha colto nel segno. Mosca, Kiev, Nato, Netanyahu, Usa, Hamas per ora non sembrano voler muovere loro il primo passo, basta vedere il dibattito su “bandiera bianca” e le esegesi per girare le parole di Francesco a difesa propria e riprovazione del nemico. Il richiamo al “primo passo” è luce su equilibri internazionali, politica, media, coscienza di ciascuno, a volerne approfittare. Se si insiste sulle colpe dell’altro il piano verso la guerra totale s’inclina di più; sarà poi difficile opporre che sarebbe toccata ad altri l’iniziativa. Non ci sarà tempo neanche per giustificarsi, né per piangere.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Appunti sulla mondialità

2024, l’anno dell’incertezza

Nel 2024 si rischia che il caos internazionale già presente assuma proporzioni ancora maggiori. Vi sono in calendario due importanti appuntamenti politici, le elezioni per il Parlamento europeo a giugno e l’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti a novembre, che stanno provocando lo slittamento di decisioni sul quadro internazionale, nel timore che prese di posizione forti potrebbero spostare gli equilibri elettorali. La stessa politica europea che in due anni di guerra tra Russia e Ucraina non ha proposto nemmeno un abbozzo di piano di pace né è riuscita a favorire il dialogo tra le parti, e che peraltro non intende essere coinvolta militarmente nel conflitto, ora rimanda qualsiasi decisione al dopo elezioni. Negli Stati Uniti il governo in carica, che dopo 5 mesi di conflitto a Gaza continua a chiedere timidamente e senza successo un “cessate il fuoco”, ora è in crisi perché una parte della base democratica rumoreggia e potrebbe decidere di disertare le urne, compromettendo la rielezione di Joe Biden.

Siamo davanti a una politica del nulla che, con l’alibi degli appuntamenti elettorali, si prende ulteriori mesi di ferie, lasciando nel frattempo il campo libero a progetti geopolitici di espansione attraverso la guerra e a regimi che guadagnano legittimità proponendosi come mediatori: sono Paesi nei quali il rischio di perdere consenso non esiste, semplicemente perché non si vota oppure si recita la parodia del voto, come nella Russia di Putin. In questi contesti i regimi sono inevitabilmente più dinamici e decisi nel prendere decisioni anche radicali, non avendo necessità di rendere conto a nessuno, non dovendo affrontare un’opposizione organizzata né media indipendenti pronti a denunciarne gli errori.

Di fronte alle sfide in atto, le democrazie dovrebbero riflettere sulle cause della paralisi che le blocca al momento di prendere decisioni. Cause che non nascono dai meccanismi della democrazia, per quanto più complessi e dunque più lenti rispetto a quelli dei regimi, ma dal progressivo processo di delega di responsabilità e poteri reali che ha ridotto la politica a incidere ormai quasi esclusivamente sulla dimensione locale: negli anni ’90 del XX secolo la politica delegò infatti all’economia la costruzione della globalizzazione, insieme alla definizione delle sue regole; negli anni 2000 ha delegato la gestione delle crisi e delle tensioni internazionali alle alleanze militari. Per i Paesi dell’Europa occidentale, la Nato è diventata il vero ministero degli Esteri: è all’interno della coalizione militare che sono maturate le principali decisioni e azioni compiute negli ultimi decenni al di fuori dai confini dell’UE, dal Kosovo alla Libia, dall’Afghanistan all’Ucraina. Oggi sta emergendo l’idea di coordinare o unificare le forze armate dei Paesi comunitari, operazione che però dovrebbe essere preceduta dalla costruzione di una posizione internazionale autonoma dell’Unione. Come potrebbe esistere un esercito europeo senza una politica europea sulla difesa e sulle grandi questioni internazionali? Ma anche di questo si discuterà quando avremo eletto il nuovo Parlamento europeo e la nuova Commissione a Bruxelles… Che però avrà sicuramente altre priorità, malgrado alle porte dell’UE stia divampando un conflitto pericoloso per tutto il continente, e altri focolai si stanno manifestando in Europa orientale e nel Mediterraneo meridionale.

A meno di colpi di scena militari, per capire l’andamento dei conflitti in corso non basterà nemmeno aspettare giugno: solo a novembre, infatti, sapremo chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca. Se tornerà Donald Trump ne vedremo delle belle perché Trump, anche se sarà presidente di una democrazia, prenderà le sue decisioni senza farsi problemi, lasciando spiazzati gli alleati storici degli USA come i Paesi europei, considerati ingrati debitori che traggono vantaggio dalle spese militari sostenute dagli USA. Se nemmeno davanti a questi scenari a Bruxelles scattano i campanelli d’allarme, c’è il serio rischio di una dissoluzione futura del processo europeo, piuttosto che del suo allargamento o di una maggiore integrazione tra i Paesi membri. Questo perché se non sei tu a occuparti di politica estera, sarà la politica estera a occuparsi di te…

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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Infelicità

L’impensabilità d’eventi e scelte di governi dal 24 febbraio 2022 a oggi passando per il terrorismo del 7 ottobre hanno spinto il linguaggio corrente all’uso di sostantivi e aggettivi che adombrassero la portata distruttiva di quanto accadeva: massacri, crimini di guerra, attacchi nucleari, pulizia etnica, genocidi, esecuzioni, stupri arma bellica, apartheid. Le parole son rimaste vuote; s’è impennata invece l’industria della morte: carrarmati, missili, aerei, cannoni, navi, mine. Al crescente potere evocativo del lessico e all’orrore di bambini uccisi da soldati e fame, case distrutte, donne violate noi opinione pubblica siam passati da stupore ad assuefazione. Del pari i belligeranti in campo e tifosi non han dato segni di rinsavimento di fronte a prove d’orrori; non s’è svegliata una coscienza collettiva capace di vedere l’istanza di morte da cui tutti ci s’è lasciati possedere; lo sforzo di vigilanza, aggregazione, sentire comune animato da richiamo alla vita s’è preso botte e polemiche. Manzoni ne I promessi sposi dà a don Rodrigo del «povero infelice», «lì immoto» al Lazzaretto dove il potente signorotto era finito pure lui causa peste. Infelice vuole dire “infecondo”, “non fertile”. In tempi di pesti (dopo il Covid la guerra è infezione collettiva, psichica) infelicità non sono solo sgomento per i lutti inconsolabili, impiego di miliardi, intelligenze, mezzi per negare l’altro, espellerlo, ucciderlo invece che per alleviare discriminazioni, povertà, sofferenze. Alla componente depressiva indotta dal lacerante vissuto d’impotenza e all’empatia frustrata da migliaia di vittime innocenti si somma uno stigma che marchia lo spirito del tempo; contro lo slancio vitale prevalgono non fecondità, disaffezione a immaginare, sognare, progettare, sperare, incapacità di concepire futuro e figli, realtà e simboli. Sono enormi le responsabilità di chi invade, stupra, bombarda, fa politica per consenso e potere non come servizio e bene comune, fa diplomazia di facciata, crea ingiustizie e miserie e provoca esodi epocali. Ma c’è un “male di vivere” a cui ciascuno è chiamato a dar nome per sé e a rispondere in prima persona. Coscienza individuale e iniziativa son la prima cura dell’infelicità di tutti.

  • Marco Garzonio

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    La Scatola Magica - 06-08-2025

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    Summertime è il nostro “contenitore” per l’informazione delle mattine estive. Dalle 7.45 alle 10, i fatti del giorno, (interviste, commenti, servizi), la rassegna stampa, il microfono aperto, i temi d’attualità. E naturalmente la musica. Ogni settimana in onda uno dei giornalisti della nostra redazione.

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    Hiroshima. 80 anni dopo la prima bomba atomica si parla ancora di guerra nucleare

    Erano le 8 e un quarto, l’una e un quarto ora italiana del 6 agosto 1945 quando il bombardiere americano Enola Gay sganciò la bomba atomica sulla città giapponese di Hiroshima. Ottant’anni fa l’umanità scopriva l’orrore della bomba nucleare. Stamattina a Hiroshima le celebrazioni per ricordare quella giornata. Ma mentre in tutto il mondo si ricorda quella giornata, oggi ancora si parla della possibilità di usare armi nucleari nei vari conflitti in corso. Paolo Cotta Ramusino, fisico, esperto di energia nucleare, impegnato per il disarmo atomico.

    Clip - 06-08-2025

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    Apertura Musicale di mercoledì 06/08/2025

    Svegliarsi con la musica libera di Radio Popolare

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    News della notte di martedì 05/08/2025

    L’ultimo approfondimento dei temi d’attualità in chiusura di giornata

    News della notte - 05-08-2025

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    Jazz in un giorno d'estate di martedì 05/08/2025

    “Jazz in un giorno d’estate”: il titolo ricalca quello di un famoso film sul jazz girato al Newport Jazz Festival nel luglio del ’58. “Jazz in un giorno d’estate” propone grandi momenti e grandi protagonisti delle estati del jazz, in particolare facendo ascoltare jazz immortalato nel corso di festival che hanno fatto la storia di questa musica. Dopo avere negli anni scorsi ripercorso le prime edizioni dei pionieristici festival americani di Newport, nato nel '54, e di Monterey, nato nel '58, "Jazz in un giorno d'estate" rende omaggio al Montreux Jazz Festival, la manifestazione europea dedicata al jazz che più di ogni altra è riuscita a rivaleggiare, anche come fucina di grandi album dal vivo, con i maggiori festival d'oltre Atlantico. Decollato nel giugno del '67 nella rinomata località di villeggiatura sulle rive del lago di Ginevra, e da allora tornato ogni anno con puntualità svizzera, il Montreux Jazz Festival è arrivato nel 2017 alla sua cinquantunesima edizione.

    Jazz in un giorno d’estate - 05-08-2025

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    Italia in fumo, nei primi sette mesi del 2025 sono bruciati 30.988 ettari di territorio

    Nei primi sette mesi del 2025 in Italia bruciati 30.988 ettari di territorio pari a 43.400 campi da calcio. Sono i dati in continuo aggiornamento che ci fornisce Legambiente nel dossier Italia in fumo. Abbiamo sentito il suo relatore Antonio Nicoletti, responsabile nazionale aree protette di Legambiente a "La scatola magica" di Cecilia Di Lieto

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    Parla con lei di martedì 05/08/2025

    PARLA CON LEI: a tu per tu e in profondità con donne la cui esperienza professionale e personale offre uno sguardo sul mondo. Con Serena Tarabini.

    Parla con lei - 05-08-2025

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    Sound Queens #2 - Dusty Springfield

    Le donne nella musica hanno costantemente sfidato difficoltà e infranto barriere, hanno lottato attraverso esperienze potenti e stimolanti e conquiste significative, spesso in un modo fatto e gestito dagli uomini. Le loro vite, le storie complesse, le loro canzoni e le esibizioni hanno contribuito in modo determinante alla storia della musica e all’emancipazione femminile. C'è ancora molta strada da fare per le donne nell'industria musicale, ma è un motivo in più per celebrare le pioniere, le portatrici di cambiamento e le donne che con la loro determinazione, libertà, nonostante le difficoltà e le tragedie e tormenti personali hanno sfidato le aspettative, il sessismo la misoginia e le avversità nel corso della loro carriera musicale. La protagonista di questa puntata è Dusty Springfield. Scritto e condotto da Elisa Graci.

    A tempo di parola - 05-08-2025

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