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Appunti sulla mondialità

2024: il declino della democrazia

In questo 2024 che viene presentato come un anno importantissimo dal punto di vista elettorale, dato l’enorme numero di cittadini che a livello globale sono chiamati alle urne, paradossalmente la democrazia sta arretrando. Accade perché molte delle elezioni che già si sono svolte o che si terranno nei prossimi mesi presentano vizi di forma o di sostanza. Basti pensare alla rielezione di Vladimir Putin in Russia, avvenuta senza la garanzia di osservatori internazionali, senza libertà di stampa e con il principale oppositore morto in carcere, in circostanze poco chiare, in piena campagna elettorale. Ma anche la rielezione a furor di popolo di Nayib Bukele a presidente di El Salvador, che pure non è stata contestata per la trasparenza del voto, appare viziata: la Costituzione del Paese centroamericano non prevedeva, infatti, la possibilità di due mandati consecutivi. Alle elezioni presidenziali che si sono tenute il 24 marzo in Senegal, con un mese di ritardo rispetto alla data inizialmente prevista, i principali leader dell’opposizione sono stati messi in condizione di non potersi candidare. Lo stesso accade in Venezuela, dove le elezioni si terranno a luglio: a María Machado, che i sondaggi davano per favorita, è stato impedito di presentare la propria candidatura.

Regimi totalitari, democrazie illiberali, processi elettorali truccati… Le sfumature sono sicuramente diverse ma, nell’insieme, si delinea un orizzonte allarmante per lo stato della democrazia nel mondo. La fondazione tedesca Bertelsmann Stiftung ha pubblicato recentemente il suo rapporto sulla qualità della democrazia, dello sviluppo economico e della governance nei Paesi del Sud globale: se ne evince che su 137 Stati presi in esame 74 sono autocrazie, e tra queste ben 49 sono autocrazie “forti”; dei restanti 63 Stati, 15 sono democrazie “in consolidamento”, 37 sono democrazie “difettose” e 11 “altamente difettose”. Da quando si è iniziato a monitorare questa situazione, il 2024 è l’anno in cui si sono registrati i risultati peggiori.

Ci sono anche storie di successo, come quella delle democrazie che riescono a resistere a pressioni interne ed esterne, come Taiwan, Corea del Sud, Costa Rica o Cile, e casi in cui la società civile è stata in grado di ripristinare lo strumento democratico, come in Brasile e Kenya, e ancora Paesi dove la mobilitazione popolare è riuscita a tutelare i diritti civili e sociali, come in Sri Lanka e Polonia. Luci e ombre, insomma, ma con una netta prevalenza delle ombre.

Il paradosso dei nostri tempi è che praticamente nessuno dichiara di rifiutare la democrazia come forma di governo: dal punto di vista teorico, perfino regimi liberticidi come quello russo, birmano o nicaraguense dichiarano di tutelare la democrazia. Ma al di là della retorica lo smottamento sui principi è costante. I principi più a rischio sono i “fondamentali” stessi della democrazia liberale: separazione dei poteri, libertà di espressione e di associazione politica, limitazione dei mandati. Ed è proprio a partire da questi punti che inizia l’erosione dei sistemi democratici. È un processo in atto anche nel cuore dell’Europa, in Paesi come l’Ungheria e – fino a pochi mesi fa – la Polonia, e che assume dimensioni grottesche quando assistiamo a elezioni durante le quali soldati armati irrompono nei seggi per controllare il voto dei cittadini, come si è visto nei brevi video scampati alla censura durante le ultime elezioni in Russia.

Il ritorno alla normalità dopo la pandemia non ha invertito la tendenza che già si era vista in piena crisi sanitaria: sempre di più, nel mondo si registra una diminuzione del coefficiente democratico. D’altro canto, la domanda di maggiori spazi di espressione politica e culturale oggi arriva da mondi nei quali non c’è una tradizione democratica, come Iran o Egitto: qui le coraggiose richieste delle piazze e della società civile rimandano proprio ai principi basilari della democrazia. Insomma, la realtà dimostra da un lato che rimane valida la celebre massima di Winston Churchill, secondo cui la democrazia è la peggior forma di governo eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate, e dall’altro che questa consapevolezza sta lentamente evaporando. Ciò accade perché si confonde la qualità della classe politica al potere con la bontà della forma di governo: così sempre più persone ritengono che ci voglia una “mano forte” per rimettere le cose a posto, a prescindere dalle regole, o giustificano la rinuncia ai principi democratici in nome di un bene superiore quale l’appartenenza etnica o nazionale. In ogni caso, oggi come ieri la democrazia è nemica mortale dei progetti autoritari, e per questo è un bene prezioso.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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Tra Buddha e Jimi Hendrix

io, nel dubbio, ASCOLTO I DOORS…

Tempi bui, difficili, scuri, quelli che stiamo vivendo. Tempi senza poesia, senza arte, senza musica. In più piove e, per lo meno qui in Liguria, il grigiume uggioso che ci circonda sembra non finire mai. Andiamo avanti così da settimane. E non è facile. In questo periodo sono sommerso dai problemi, credetemi. Volatili per diabetici duri come pietre. E, come detto, piove. Piove e manca poesia. Poesia e musica nell’aria.

E come si combatte quel misto di preoccupazione, malinconia, ansia e scazzo esistenziale che ti avvolge in certi momenti?

Davvero non lo so ma io, nel dubbio, ASCOLTO I DOORS.

L’ho sempre fatto e probabilmente sarà alla loro musica che mi rivolgerò finché campo. Sin da quella sera di ormai quasi quarant’anni fa quando, bimbetto di prima o forse seconda elementare, rimasi rapito da quel suono ipnotico e quella cadenza sinistra ma non triste che accompagnava l’ultima canzone del lato B di quella strana cassetta che mio padre aveva infilato nel mangianastri dell’autoradio mentre rientravamo dalla campagna, attraversando il passo del Turchino inghiottiti dalla nebbia. Gliela aveva passata mio fratello Fabrizio, sette anni più grande di me, che già abitava un mondo fatto di rock e ribellione alimentato da gente tipo Pink Floyd, Neil Young, Lou Reed, Deep Purple, Black Sabbath e, da qualche tempo, pure dal gruppo protagonista di quella cassetta matchata sony di colore bianco e rosso. The Doors, così aveva scritto a penna Fabri sulla banda adesiva. E ciao. Rimasi rapito da quel mondo, da quei suoni dilatati – a tratti morbidi, a tratti ossessivi – dalla sensazione di entrare in una dimensione coerente seppur narcotica in cui non ci si limitava all’ascolto di una successione di canzoni ma si andava a vivere un’esperienza “inusuale”.

E poi c’era la voce, quella strana voce, così diversa da quella degli altri cantanti che le mie giovani orecchie di bambino avevano ascoltato. Ovviamente allora non capivo nulla di musica, e ad essere onesti probabilmente neanche oggi che ne scrivo, ma avvertii in quel canto qualcosa che mi faceva venire in mente gli indiani d’America, un popolo che mi affascinava e per cui tifavo con cori da stadio durante ogni film western. No, nessuna coscienza politica, nessuna consapevolezza delle tante angherie che i nativi avevano dovuto subire dall’uomo bianco, semplicemente adoravo i capelli lunghi, e quelli degli indiani, cristo santo, erano fantastici.

Ma torniamo al viaggio in macchina, alla nebbia fitta, alla pioggerella che cade mentre qualcuno ci racconta che “the blue bus is calling us”. Credetemi, io lo sentii davvero quel richiamo, e lo sento ancora oggi, in particolare nei momenti di scazzo cosmico, in particolare quando piove.

Stacco temporale; ho sedici anni, faccio la seconda superiore, ho da poco scoperto le ragazze e mi trascino ogni mattina verso la scuola senza voglia, desiderando di essere da tutt’altra parte, a vivere una vita diversa, lontano dai problemi. A casa va di merda, in famiglia è arrivata l’eroina e ogni volta che squilla il telefono la paura ci mangia vivi. Fabrizio è sempre stato un tipo inquieto. Intelligente, sveglio, uno che leggeva Dostoevskij a 11 anni e si faceva un sacco di domande. Era prevedibile si incasinasse la vita. Continuo ad ascoltare quella cassetta dei Doors, in particolare quando piove, ed è bellissimo lasciare lo sguardo a briglia sciolta fuori dalla finestra mentre quel suono invade la stanza.

Allora non esiste internet e i giornali musicali raramente parlano di un gruppo il cui cantante pare sia morto in una vasca da bagno 20 anni prima. Le uniche cose che so di questi Doors, sono frammenti di storia che il mio meraviglioso fratello borderline mi racconta a spizzichi e bocconi, quando gli vengono in mente. Tipo che il cantante dalla voce così tribale e ipnotica si chiamava Jim Morrison e, cito le parole di Fabri come me le ricordo, “era un fuori di testa, viveva sui tetti, scriveva poesie e andava nel deserto a farsi di peyote, il catctus allucinogeno che prendevano gli sciamani indiani. Belin, deve essere una bella botta, peccato che qui da noi non si trovi…”.

Capite bene che per un ragazzino di sedici anni che cercava solo un modo per fuggire da una realtà incasinata, un racconto del genere fu quasi una rivelazione. Quando una sera mio fratello portò a casa un altra cassetta registrata – stavolta nera, rossa e bianca, e chi ce l’aveva i soldi per comprarle originali? – la mia epifania proseguì. Solita bianca banda adesiva, stavolta con scritto non soltanto The Doors ma L.A. Woman – The Doors.

Donna di Los Angeles, un concetto così distante da Sestri Ponente, la periferia di Genova in cui stavo crescendo, una realtà operaia fatta di cantieri navali, Italsider, tossici con gli aghi conficcati nel braccio che si accasciavano nei bagni della stazione e un mare che non si riusciva più a vedere, se non salendo in alto, fino alla Madonna di quel monte Gazzo che da lassù ci stava proteggendo poco e male.

Amici, mi credete se vi dico, che stava tuonando quando partì l’ultima canzone del disco?

Non riuscivo a capire se la pioggia che sentivo provenisse da fuori o da dentro le cuffie, per accompagnarmi attraverso la magia liquida di Riders on The Storm.

Quel disco mi ammaliò ancora più del primo, già mi immaginavo con lo zaino in spalla e le cuffie nelle orecchie, in giro per il mondo alla ricerca del grande beat.

Lo ascoltavo tutte le mattine, sul treno di noia che mi portava a scuola.

Considerate adesso che, fino ad allora, io Jim Morrison non l’avevo mai visto, nemmeno in foto.

Poi arrivò il film di Oliver Stone e cambiò tutto.

Fu Doorsmania. Fu Morrisonmania.

Poster, libri vecchi di anni che trovavano nuovo smercio e venivano ristampati, la copertina del The Best of the Doors che campeggiava ovunque, col ritratto a torso nudo del giovane leone Jim, con i capelli lunghi e arruffati, la collanina di perle e quello sguardo pericoloso.

Scazzo esistenziale a parte, a scuola andavo bene, così mia madre mi diede i soldi e quella raccolta – più tardi avrei capito che più che un best era una semplice selezione di singoli perché se nel meglio di un gruppo come i Doors tralasci pezzi come Soul Kitchen, Peace Frog, The Soft Parade, Roadhouse Blues, The Spy, sei un criminale – fu il primo disco originale comprato dal sottoscritto.

Poi, un sabato pomeriggio, andai a vedere il film.

… … … … …

Fermo restando che era una pellicola non del tutto veritiera, esagerata, non corretta nei confronti di Morrison e tutto quanto, avete idea cosa potesse provocare un film del genere in un ragazzino inquieto, poco avvezzo alle regole, con tanti casini in casa e una passione smodata per la poesia e il mondo degli indiani?

Fu una detonazione. Uscii da quel cinema – mi pare fosse l’Universale, che se la memoria non mi inganna stava in via Cesarea, più o meno dove ora c’è la Feltrinelli – che ero completamente stonato. Stonato di parole, suoni, suggestioni, idee, possibilità…

Combinazione, anche in quello strano pomeriggio del 1991, pioveva a dirotto ma me ne fregai bellamente e mi feci la strada fino alla fermata dell’autobus in P.zza Caricamento – amici non genovesi, credetemi se vi dico che da via Cesarea è un bel pezzo – sotto la pioggia, con L.A Woman in cuffia, i capelli fradici e il bomber blu d’ordinanza così zuppo che l’acqua iniziò a scendermi sul collo, visto che quel reperto bellico degli anni novanta di colletto non ne aveva proprio.

Qualche giorno più tardi scrissi la mia prima poesia, Era Lei, dedicata a una ragazza svizzera che avevo conosciuto d’estate all’isola d’Elba. Versi sciatti e banali ma almeno avevo iniziato. Un’altra ragazza dolcissima, dai capelli scuri tagliati tipo la Valentina di Crepax e gli occhi azzurri, mi regalò Nessuno Uscirà Vivo di Qui, la biografia di Jim.

Leggerla fu la fine di quello che ero e l’inizio di ciò che sarei diventato. Grazie al bellissimo, seppur discusso, libro della coppia Hopkins/Sugerman conobbi tutti quegli incredibili scrittori che avevano influenzato Jim: Baudelaire, Rimbaud e tutti i simbolisti francesi; Jack Kerouac, la beat generation; Carlos Castaneda, lo sciamanesimo; Aldous Huxley e le esperienze psichedeliche; William Blake; la meditazione trascendentale. E poi le onde dell’Atlantico, i motel da pochi spiccioli di L.A., la Parigi degli artisti, il deserto, i navajo, la stregoneria… da uscirne pazzi.

E infatti impazzii del tutto e, forse, non sono ancora rinsavito.

Oggi ho 45 anni, al solito piove a dirotto in questa fottuta città e la mia vita è cambiata almeno in 100 modi diversi da allora. Ho una moglie bellissima, due figli meravigliosi e qualche casino di troppo, ultimamente. Ho Imparato a meditare e a scendere a patti con le regole ma una certa inquietudine esistenziale è rimasta, credo che da quella non si guarisca. Dove sono io c’è sempre musica nell’aria, tanta musica nell’aria. Di mestiere faccio lo scrittore e ho un programma alla radio, si chiama Rock is Dead, come quella pazza jam che una sera del ‘69 i Doors registrarono ai Sunset Sound.

Perché faccia questo mestiere, perché continui a battere le dita sulla tastiera alla ricerca del grande beat, beh, ora lo sapete.

E quando piove, quando avete lo scazzo cosmico, davvero amici, datemi retta: ascoltate i Doors.

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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L'Ambrosiano

Buona Pasqua di guerra

Vivremo un’altra Pasqua di guerra: la terza a Kiev, la prima là dove tutto ebbe inizio per Ebrei e cristiani. «Sentinella, quanto resta della notte?», chiedeva Isaia grande profeta d’Israele, per i cristiani annunciatore del Servo del Signore messo a morte perché giustizia prevalga. Oggi la notte sembra non finire, però. «La pace si costruisce con quello che facciamo e con quello che diciamo», dice p. Francesco Patton. Il Custode di Terra Santa la scorsa settimana ha accolto 18 donne e uomini di Milano andati a Gerusalemme pellegrini. I primi dal maledetto 7 ottobre, l’11 settembre d’Israele. Volevano vedere, ascoltare, pregare. Ci son riusciti: le condizioni a Gerusalemme, Betlemme, Deserto di Giuda sono sicure; una piccola, importante notizia. Il problema è che nessuno osa più la speranza, la paura fa stare a casa a guardare in tv o social che succede; così gli arabi cristiani, che vivono d’accoglienza, senza pellegrini muoiono; dovranno emigrare per vivere. Pessima notizia per luoghi santi, Israele, Occidente; non se ne parla: effetto collaterale. Come vertice da cui guardar la notte p. Patton usa le parole di Rachel Goldberg, portavoce dei parenti degli ostaggi presi dai terroristi: «Noi dobbiamo comprendere la sofferenza dei palestinesi di Gaza e loro devono comprendere la nostra». Andare, vedere, ascoltare, propalare l’idea che esistono modi umani di rapportarsi; basta scontri, distruzioni, eliminazioni, morti. Ci vuol coraggio per farsi portatori di piccoli semi d’umanità. Martini, che amava la Terra Santa e si ritirò a Gerusalemme disse: «Qui tutti vogliono la pace, però nessuno vuole pagarne il prezzo». Costa, ma se si fa il primo passo la sentinella risponde: «Viene il mattino, e poi anche la notte». Si esce dal buio, dice Isaia. La Pasqua è donne e uomini che tornano pellegrini a Gerusalemme, cercan luce nell’oscurità, si fan loro fiammelle nel buio aiutati da istituzioni e tour operetor (com’han fatto Ambrosianeum e GeaWay). Il buio che verrà è il naturale corso del giorno: una notte di vigilia col Sepolcro vuoto in attesa d’un mattino senza attacchi vili, né bombe. «Quando ci sarà Pace a Gerusalemme, pace ci sarà nel mondo», sosteneva Martini.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Appunti sulla mondialità

Migranti: la polvere sotto il tappeto

Nel V secolo dopo Cristo, dopo il passaggio dei Visigoti di Alarico nel cuore dell’Impero e il saccheggio di Roma, il potere imperiale cercò di riorganizzarsi negoziando e stringendo alleanze con i sovrani barbari. Nel frattempo, l’esercito che presidiava il limes con i popoli germanici si riempiva di soldati appartenenti a quelle stesse genti che premevano sul confine, intenzionate a entrare nell’impero e a vivere come i Romani.

Nel suo saggio I barbari, Alessandro Baricco spiega che l’Impero Celeste cinese aveva di fronte a sé due scelte per rispondere al pericolo rappresentato dai popoli delle steppe che premevano sulle frontiere occidentali: commerciare con loro e riconoscerli come interlocutori, ma a rischio di “contaminarsi”; oppure combatterli in campo aperto, fino a sconfiggerli. La Cina imperiale scelse invece una terza via: alzare una gigantesca muraglia che dividesse la civiltà dalla barbarie. Come è noto, la Grande Muraglia non riuscì a fermare l’avanzata dei Mongoli: già nel XIII secolo a Beijing si insediava il primo imperatore di quell’etnia, fondatore della dinastia Yuan.

Gli Stati Uniti, che nel corso dell’800 hanno quadruplicato il loro territorio, sono i diretti responsabili del malsviluppo di quello che considerano il loro “cortile di casa”: i Caraibi e l’America centrale. Proprio da queste regioni oggi proviene la maggior parte dei migranti che preme sulla frontiera meridionale degli USA. È paradossale che una potenza nata e cresciuta grazie al contributo della migrazione, anziché affrontare i problemi che da decenni causano la fuga di moltissimi cittadini da Haiti, Honduras, El Salvador e altri Stati vicini, nel 1993 abbia cominciato a costruire una gigantesca barriera fisica al confine con il Messico per bloccare i migranti: persone che Donald Trump ha dichiarato di considerare barbari a tutti gli effetti. Su questa linea, Washington ha trovato la collaborazione del governo messicano in cambio di aiuti economici.

L’Europa dei nostri tempi non qualifica ancora i migranti mediorientali e nordafricani come barbari, ma sta replicando una pagina di storia che credevamo lontana foraggiando dittatori più o meno conclamati affinché garantiscano il blocco delle partenze dei richiedenti asilo e dei migranti economici. Sette miliardi all’autocrate del Cairo al-Sisi, un miliardo a Kaïs Saïed, il presidente che sta spingendo la Tunisia fuori dalla democrazia, quasi un miliardo elargito negli ultimi anni dall’UE e dall’Italia ai governi fantoccio della Libia. E poi sei miliardi all’autocrate turco Erdoğan per ingabbiare i profughi riparati nel suo Paese, 200 milioni alla Mauritania per bloccare le partenze verso le Canarie, mezzo miliardo al Marocco per controllare le sue frontiere… Una montagna di soldi che finiscono con il sostenere regimi sotto accusa per gravi violazioni dei diritti umani e politici, e nel caso libico direttamente coinvolti nella gestione dei lager nei quali vengono rinchiusi migranti in transito.

Siamo di fronte a una versione mediterranea, “acquatica”, del muro statunitense e della Grande Muraglia cinese, con l’aggiunta del contributo che viene offerto ai sovrani barbari affinché proteggano il limes europeo da altri barbari. In tutti i casi questa politica è fallita, e già si può intuire che lo stesso accadrà con il muro americano e la fortezza mediterranea. Questo perché arroccarsi sulla difensiva anziché affrontare le cause dei problemi è da sempre una posizione perdente, e lo è anche oggi, che si tratti di migrazioni o di cambiamento climatico. Siamo di fronte a problemi ineludibili, che non basta la retorica a risolvere. Possiamo scrivere interi trattati sulla sostenibilità, ma il clima non cambierà se ci limitiamo alle parole e non passiamo ai fatti. Possiamo parlare dell’Europa come del faro della civiltà mondiale, rispettosa dei diritti delle persone, ma i fatti ci raccontano che questa è solo retorica, solo apparenza, perché nel frattempo si foraggiano autocrati che fanno il lavoro sporco per conto terzi. Alla fine, la retorica ambientale e la retorica umanitaria raccontano la stessa cosa: la politica globale che oggi va per la maggiore è nascondere la polvere sotto il tappeto, sperando che nessuno la veda.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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L'Ambrosiano

Storia e attualità

La pandemia è già storia. Il Corriere della Sera regala le prime grandi pagine dalla fondazione (1876) tra cui quella 10 marzo del 2020: “Ora chiusa tutta l’Italia”. Il Covid era esploso, minacciava il mondo. Storia è distanza, memoria, senso critico, pensieri articolati perché nella dialettica tra fonti e valutazioni cresca la coscienza collettiva e non si ripetano errori grossolani, ci si sforzi in politica: cambiare in una tradizione vissuta nel bene comune. Storia sarebbe magistra vitae se non ci fossero cattivi maestri a praticarla o a riscriverla. Nel 2020 una generazione sparì; nei numeri: la popolazione d’un capoluogo. Da Bergamo di notte partivano camion militari per portare salme ai crematori d’altre città. Il mantra fu: medici e infermieri eroi, fondi alla Sanità pubblica, ricerca, investimenti sui giovani, mai più partiti a equiparare privato e pubblico. Oggi: Meloni taglia miliardi alla sanità pubblica, la destra fa una commissione d’inchiesta sul Covid (però non indagherà sulle Regioni che gestiscon la salute: Lombardia in testa), gli specialisti fuggono, le code di pazienti crescono, milioni rinunciano a curarsi. Intanto Calenda e Renzi van col centrodestra in Basilicata, con quelli di cui la Corte dei Conti ha svelato le magagne del PNNR: rimodulazioni, meno soldi agli ospedali e più poteri a Palazzo Chigi. Il Corriere offrirà altre pagine per verificare coerenza tra storia e attualità: 25 aprile 1945; 2 giugno 1946; 27 dicembre 1947; sconfitta del nazifascismo, Repubblica, Costituzione. Intanto però Liliana Segre vien fatta oggetto di attacchi inqualificabili e l’Autorità dello Stato che ha voluto andar con lei al Binario 21 non riesce a pronunciare la parola “antifascista” e anche chi si dice liberale continua a non cogliere i nessi tra Costituzione frutto della lotta di Liberazione e sanità e scuola pubblica, tasse giuste (non pizzo di Stato!), dare ai giovani futuro non manganelli, accogliere chi fugge da guerre e povertà invece di esercitare il sadismo di Stato: navi Ong spedite a Ravenna con disperati salvati nel Mediterraneo mentre compagni e amici morivano o venivan ripresi da libici e riportati in lager che l’Europa, per la quale andremo a votare, finge di non vedere o finanzia per tener lì i migranti.

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    50 e 50 - 13-12-2025

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    50 e 50 di sabato 13/12/2025 - dalle 12.30 alle 14.30

    Le 50 ore di diretta, la staffetta, il corteo, la mostra fotografica, tutte le iniziative per il cinquantenario di Radio Pop!  Con Alessandro Diegoli, Gianmarco Bachi, Lele Sacchi. Continua la 50 e 50!!

    50 e 50 - 13-12-2025

  • PlayStop

    50 e 50 di sabato 13/12/2025 - dalle 10 alle 12.30

    Le 50 ore di diretta, la staffetta, il corteo, la mostra fotografica, tutte le iniziative per il cinquantenario di Radio Pop! Con Gianmarco Bachi, Alessandro Diegoli, Disma Pestalozza e Roberto Maggioni collegati con gli equipaggi in gara che accumulano ritardi più staffettiste/i sui 5 percorsi.

    50 e 50 - 13-12-2025

Adesso in diretta