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La Turchia delle donne

I film girati dalle giovani donne turche arrivano a Milano per prima volta con Turchia dei nostri giorni, il Focus della XXIII edizione di Sguardi Altrove, dal 17 al 25 marzo 2016. Con il titolo “Il tempo, le donne. Tra memoria e progetto”, lo storico festival milanese di regia al femminile propone un sguardo globale sulla condizione e le tematiche emergenti che riguardano le donne. In un momentoin cui la Turchia è nell’occhio del ciclone, per i recenti attentati ad Ankara, per il dibattito infuocato sui migranti e sull’Europa, la fragilissima condizione femminile rischia di finire in secondo piano.

Due film turchi nel concorso internazionale: Motherland di Senem Tuzen e Until I lose my breath di Emine Emel Balci, il primo passato lo scorso settembre alla Settimana della Critica di Venezia e il secondo apprezzato alla Berlinale 2015. Due storie di emancipazione, alla ricerca di se stesse rifiutando i dogmi restrittivi della famiglia tradizionale.

La biografia di Senem Tuzen, regista di Motherland (Ana Yurdu) ha qualcosa di simile a quella della sua protagonista Nesrin. Una spinta vitale e creativa che una generazione di giovani donne turche porta nel Dna, così diverso da quello delle loro madri e delle loro nonne. Non si dovrebbe mai generalizzare perché sappiamo che molte donne nate in Turchia hanno fatto battaglie per emanciparsi e pagato sulla loro pelle il forte maschilismo che ancora esiste nel loro Paese. Ma nel rapporto tra madre e figlia che si sviluppa in Motherland sembra di vedere tradotto in immagini il pensiero del Presidente Erdogan, con quell’idea di sottomissione da parte della donna nei confronti dell’uomo. Ecco quindi che nell’incontro generazionale che avviene nella casa di famiglia in Anatolia, Nesrin non riesce a concentrare il suo desiderio di scrivere un libro a causa della presenza ingombrante della madre, che la vorrebbe occupata in faccende femminili come l’economia domestica e servire il marito da cui Nesrin ha appena divorziato. Senem Tuzen ha studiato cinema a Istanbul e il bisogno di libertà è visibile non solo nella trama del suo film, ma anche nella ricerca visiva, con l’alternanza tra interni claustrofobici ed esterni che trasportano verso l’immensità.

Il cinema turco racconta un po’ questo, al di là delle storie che mette in scena. Come succede nei film pluripremiati di Nuri Bilge Ceylan. Ma nei  lavori firmati dalle registe turche, le storie sono importanti per lasciare un segno nella società turca di oggi. Sono donne coraggiose queste registe, che stanno rivoluzionando il cinema e la cultura in Turchia. Si chiamano: Ahu Ozturk, Belmin Soylemaz, Eva Stotz, Yesim Ustaoglu e narrano di ragazze che fanno scelte diverse da quelle convenzionali. Artiste, ballerine, lavoratrici in un’area di servizio, operaie, attiviste sociali e politiche scese in piazza Taksim, donne che si ribellano ai mariti prepotenti e che cercano una vita migliore che le veda protagoniste. Come nel documentario My letter to Pippa, in cui la regista Bingol Elmas prosegue, con un vestito da sposa nero, il viaggio di Pippa Bacca l’artista italiana stuprata e uccisa nel 2008, per mostrare quanto maschilismo c’è ancora in Turchia.

Radio Popolare è media partner di Sguardi Altrove e gli aggiornamenti quotidiani sono sul daily della rete dei festival Milano Film Network.

  • Autore articolo
    Barbara Sorrentini
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    La legge sul consenso si ferma al Senato perché la presidente della Commissione Giustizia Giulia Buongiorno vuole correggerla, ma la Lega esprime anche dubbi generali sulla necessità di una legge che definisca il consenso. Secondo Alessandra Maiorino, vice-capogruppo M5S Senato e Coordinatrice Comitato Politiche di Genere e Diritti Civili: “Da noi al Senato il provvedimento è arrivato tardi, da una parte c’è una questione strumentale per cui la Lega vuole più tempo, dall’altra parte c’è una questione reale, vogliamo leggere e approfondire il testo, quindi non trovo lunare la richiesta di prendere più tempo”. Insomma l’accordo c’è per approvare la legge. “L’importante è che il 609 bis che punisce la violenza sessuale agita finora con violenza, minaccia o abuso di potere, sia adegui a quello che dice la giurisprudenza: non servono il sangue, i lividi, le botte o le minacce perché ci sia violenza sessuale, basta che quell’atto sia stato compiuto senza il consenso della donna”. L'intervista di Cinzia Poli e Claudio Jampaglia.

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