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Essere giornalista in Egitto. L’intervista all’attivista Lina Attallah

Essere giornalista in Egitto. Intervista all’attivista Lina Attallah

Lina Attallah è una giornalista e attivista egiziana, cofondatrice del giornale online Mada Masr. È stata caporedattrice per il quotidiano Egypt Independent prima della chiusura della sua edizione cartacea, nel 2013. Racconta la lotta contro la repressione del giornalismo indipendente da parte del regime di al-Sisi. Nel 2017 il Time l’ha definita “leader della nuova generazione”

Cosa significa essere una giornalista in Egitto?

Significa essere in difficoltà per la maggior parte del tempo. Significa dover sempre scavare molto molto a fondo per capire cosa sta succedendo. Significa lavorare tra molti problemi e con diverse strutture che non vorremmo avere attorno. Ma significa anche tanta eccitazione, essere in grado di fare qualcosa quando sembra che tutto il resto sia impossibile.

Sei stata arrestata tante volte per il tuo lavoro. Cosa ti dà la forza per continuare?

Il fatto di continuare ad essere rilasciata. Il fatto che il mio giornale, Mada Masr, esiste da 10 anni e continua a esistere, con tante persone che ci lavorano – dentro e intorno – e i suoi lettori che continuano a crescere. La verità è che, fino ad ora, stiamo vincendo, e quindi non c’è nessuna ragione per fermarsi. L’unica cosa che è possibile fare è continuare.

Mada Masr è l’ultimo media indipendente rimasto in Egitto. Come riuscite a sopravvivere?

Ancora non riusciamo esattamente a capire come abbiamo fatto a sopravvivere fino ad ora. C’è sempre la sensazione che sia la fortuna che ci ha permesso di esistere così a lungo. E non abbiamo nemmeno dovuto fare degli sforzi particolari per garantirci la sopravvivenza, anzi: abbiamo fatto cose che sapevamo avrebbero potuto porre fine alla nostra presenza in Egitto e l’abbiamo fatto perché pensavamo fosse importante, più importante che sopravvivere.

Ma sembra che il fatto che stiamo crescendo, sia in termini di audience che di qualità dei contenuti,e il fatto che abbiamo investito in tutte queste forme diverse di potere (non solo il progetto giornalistico, ma di creazione di una comunità) ci assicura sufficiente forza per continuare.

Dal tuo punto di vista perché i regimi autoritari sono così spaventati dalla stampa libera?

La risposta comune è che ai regimi autoritari non piace che la gente sappia quello che succede. Perché sapere è il primo passo per criticare. Comprendere è il primo passo per capire cosa è in gioco e per iniziare a mettere in discussione lo status quo. Questo in generale. Ma nello specifico, le autorità del nostro paese, negli ultimi 10 anni, hanno pensato di poter governare il paese senza politica. E quindi senza giornalisti, senza media, senza partiti politici, senza attivisti. L’idea era che potessero semplicemente comandare, al di sopra della legge e al di sopra delle persone. Peccato che si stiano rendendo conto che non funziona.

Al momento chi sono i giornalisti, i blogger o gli attivisti ancora in carcere?

Ce ne sono molti, migliaia di persone in carcere perché hanno detto qualcosa sui loro social media o sul loro giornale o semplicemente nel loro ambiente. Alcuni di loro sono famosi e noti in giro per il mondo perché si è parlato del loro caso. E’ ad esempio il caso di Alaa Abd El-Fattah, che è un mio caro amico, che è stato in carcere negli ultimi 10 anni per un tweet. Ma non è l’unico: c’è un poeta, Galal El-Behairy, c’è un attivista, Mohamed Adel.. ce ne sono tanti che rimangono in prigione solo per aver detto qualcosa.

Quest’anno sono 10 anni da quando Al Sisi ha preso il potere. Come è cambiato l’Egitto in questi 10 anni?

Gli ultimi 10 anni sono stati segnati in primo luogo – come dicevo prima – dal tentativo del governo di governare senza politica. Quindi sono i 10 anni in cui attivisti e organizzazioni si sono fermati perché gli attivisti sono in carcere, in esilio oppure hanno essenzialmente abbandonato la politica. E quindi c’è stata una totale erosione di qualunque tipo di associazione della società civile. Non c’è politica. C’è solo un governo che comanda e tante persone che vengono comandate.

L’altra cosa che ha segnato questi 10 anni, è l’aggravarsi della crisi economica, soprattutto negli ultimi 3 anni, dopo la pandemia e la guerra in ucraina. E questo viene sentito e vissuto in modo sempre più intenso nella popolazione. La crescita dell’inflazione e della povertà e la distruzione della classe media. Questa crisi arriva da lontano, non dico che sia tutta colpa del presidente Sisi, ma negli ultimi 10 anni non abbiamo visto nessuna reale politica per far fronte a questa situazione, per migliorarla anziché peggiorarla.

Questa crisi economica influenza il potere del presidente?

Certamente, quando c’è una crisi economica c’è qualche concessione politica, questo almeno era quello che faceva Mubarak. Il problema è, ancora, che siccome c’è questa idea che si possa governare senza politica viviamo in un contesto in cui vengono fatte pochissime concessioni politiche e ancora meno concessioni economiche.

In Egitto c’è qualche forma di piccola resistenza tra la popolazione, resistenza all’interno della vita quotidiana?

Il problema è che puoi vedere che c’è una grande frustrazione e un grande malcontento. Puoi vedere che la vita delle persone peggiora giorno dopo giorno, in modo sensibile. Ma allo stesso tempo, proprio perché non c’è politica, non ci sono luoghi o canali dove poter vedere questo tipo di resistenza. E questa è anche la ricetta per un disastro. Questo è il motivo per cui possiamo aspettarci un’esplosione, perché non c’è mediazione per il dolore e la sofferenza della gente.

Ma ad esempio la mancanza di stampa libera come viene vissuta dalla popolazione?

È molto interessante perché le autorità hanno sempre pensato che l’informazione è un lusso e che alla gente non interessa se c’è informazione libera o no. Ma quello che abbiamo imparato in questi anni è che questo non è vero. La gente cerca la verità. La gente spegne la televisione di stato, e boicotta i giornali di stato, perché sanno che lì non c’è verità. Invece cercano Mada Masr, cercano di raggiungere i nostri contenuti anche se sono bloccati in Egitto dal 2017 perché cercano qualcosa di diverso. Penso anche che la gente abbia espresso in modo molto chiaro il diritto e il bisogno di informazione libera. Ma comunque è stata totalmente ignorata dai media governativi.

Quest’estate Al Sisi ha concesso la grazia a Patrick Zaki, ma anche ad Ahmed Saad Douma. Credi che questo sia un segnale di un qualche tipo di dialogo con le opposizioni in vista delle elezioni del 2024?

Quello che è successo è che da quando la crisi economica ha iniziato a colpire così duramente e visto che mancano pochi mesi alle elezioni presidenziali – alle quali verosimilmente Al Sisi si presenterà di nuovo
– il presidente sa che non può continuare a tenere la popolazione e tutte le opposizioni fuori. Quindi c’è stato questo momento in cui le opposizioni sono state chiamate ad un tavolo, nel tentativo di avviare una sorta di dialogo e far fronte anche ad un problema di legittimità – che in questo momento affligge le autorità. Ed è stato subito chiaro che per far si che questo accadesse, servivano delle concessioni politiche. E quindi alcuni degli oppositori politici, degli attivisti o dei giornalisti che erano in prigione sono stati rilasciati. Le concessioni politiche quindi sono state rappresentate dalla liberazione di Patrik e di Douma. Ma è una concessione negativa dal momento che queste persone non dovevano essere arrestate in primo luogo. Avrei preferito qualcosa che rendesse più difficile arrestare la gente, o che concedesse più libertà, in modo strutturale. Ma questo è, e almeno siamo felici di avere qualcuno dei nostri compagni di nuovo a casa.

In Italia il regime di Al Sisi è necessariamente collegato alla morte di Giulio Regeni. Uno dei problemi è l’impunità di cui godono le persone che l’hanno ucciso. Ci sono altri casi in Egitto di persone uccise dal regime che non hanno mai avuto giustizia?

C’è un problema in Egitto legato alla responsabilità di chi è vicino al comando, e questa non è una sorpresa considerando che non abbiamo le basilari istituzioni democratiche. E quindi si, ci sono stati omicidi politici rimasti impuniti. Ad esempio, nello specifico del caso Regeni, ancora non sappiamo cosa sia successo a quelle 5 persone che sono state uccise poco dopo il ritrovamento del corpo di Giulio e che sono state accusate di essere le persone che lo avevano ucciso per poi scoprire che non avevano assolutamente niente a che vedere con lui, che era tutta una montatura. Una montatura molto costosa, perché 5 persone sono morte e non abbiamo idea di cosa sia successo. Nessuno sa chi siano queste persone, né chi le abbia uccise. Purtroppo l’impunità c’è e temo che sia qui per restare.

Credi che nel caso di Giulio saremo in grado di raggiungere la verità?

Non penso che siamo in un buon momento a questo proposito. Non solo l’Egitto non ha interesse a collaborare, ma anche dal lato italiano l’interesse è calato. Quanto meno dal punto di vista politico, quello dei piani alti. Quindi non siamo in una situazione favorevole per la verità. Quello che so, è che che questo è un caso che – nonostante diversi governi abbiano cercato di contenerlo e di silenziarlo – ha avuto una risonanza importante nell’opinione pubblica, sia italiana che egiziana. Non ho mai visto un’altra persona uccisa all’estero che ha avuto un impatto così forte, al punto da trovare i manifesti “verità per Giulio Regeni” ovunque in questo paese. E questo è un seme per la verità, un giorno. Anche se adesso non è il momento migliore.

Hai paura per te stessa?

Certo. La mia strategia, però, è mettere la paura tra parentesi mentre faccio quello che devo fare e poi affrontarla dopo, in un secondo momento. Ma non posso fingere che non ci sia, non esiste il coraggio e basta. Siamo molto impauriti perché il governo è più forte di noi, loro hanno le prigioni e hanno le armi, noia abbiamo solo le parole. E la verità. Ma il punto è assicurarsi che la paura non interferisca in quello che facciamo e assicurarci che non ci fermi e questo è il motivo per cui la mettiamo tra parentesi, una parentesi a destra e una a sinistra.

  • Autore articolo
    Martina Stefanoni
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    Marina Berlusconi, una keynesiana (smemorata) a Segrate. In una lettera al Corriere della Sera di domenica scorsa la presidente di Fininvest e Mondadori ha denunciato lo strapotere mondiale delle Big Tech e ha vantato il sistema regolatorio pubblico vigente in Europa. «Quello delle Big Tech - ha scritto - è un potere che rifiuta le regole. E' concorrenza sleale bella e buona», ha scritto Berlusconi. La presidente Fininvest ha dimenticato la storia dell'impero industriale e finanziario che oggi controlla e guida. Una storia di norme ad personam: dai cosiddetti “decreti Berlusconi” emanati dal governo Craxi nel 1985, alla legge Mammì che certificò il monopolio TV privato, alla legge Gasparri del 2004. Nel suo articolo Marina Berlusconi ha scritto che «l’intreccio tra politica e Big Tech negli Usa è sotto gli occhi di tutti […] questi colossi non sono più solo aziende private, sono attori politici», ha sentenziato Berlusconi rimuovendo il fatto che il suo gruppo è ancora oggi l’azionista di fatto di un partito, oggi al governo, come Forza Italia. Pubblica ha ospitato Stefano Balassone, ex consigliere di amministrazione della Rai, già vice-direttore di Rai Tre, oggi produttore e autore televisivo.

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