
In Libia si muore in tanti modi, Diawara Jallow è morto con due pallottole nel petto.
“Gli hanno sparato le milizie paramilitari, gli Asma Boys” racconta Lamin, suo fratello. Lui è arrivato a Milano a fine 2014, vive in una delle strutture d’accoglienza del Comune di Milano e gioca a calcio nella squadra di richiedenti asilo Black Panthers. “Asma è un modo di dire per attirare l’attenzione, come dire amico amico, ma con il fucile in mano. Sono delle bande armate che rapiscono i migranti per ottenere riscatti”.
Diawara arrivava dal Gambia, era a Tripoli da sei mesi, non riusciva a lasciare il paese. Come altre migliaia di persone non poteva andare né avanti, imbarcarsi verso l’Europa, né indietro, tornare al suo paese d’origine. Gli accordi tra il governo italiano e quello libico hanno reso difficili, quasi impossibili, le partenze. L’Onu ha recentemente definito “disumana” la condizione dei migranti nei campi libici.
Fuori dai campi di detenzione le cose non vanno meglio, la storia di Diawara racconta questo. Diawara è morto fuori dalla casa in cui viveva con altri gambiani, ammazzato mentre stava cercando di scappare dalle milizie degli Asma Boys. Aveva 27 anni, studiava inglese, tifava Real Madrid. Lavorava a Tripoli nel quartiere di Grigaras, faceva il muratore, aveva un cellulare, stava mettendo da parte i soldi per partire. Le milizie se ne sono accorte, sono entrate nella casa dove viveva per ricattarlo, non era la prima volta. Lui ha cercato di scappare e gli hanno sparato due colpi nel petto.
Quando a Lamin hanno scritto che suo fratello era stato ammazzato non ci ha voluto credere. Lo aveva sentito la notte prima, giovedì 9 novembre, alle 23. Si erano mandati dei messaggi vocali, si erano salutati e avevano scherzato sul cibo italiano. Diawara sosteneva che quello libico fosse più buono, “perché non hai ancora assaggiato quello italiano” lo aveva ammonito Lamin. Poche ore dopo le milizie sono entrate nella sua stanza per chiedergli soldi e gli hanno sparato mentre cercava la fuga.
Venerdì mattina Lamin ancora non sapeva che suo fratello era morto, aveva solo notato che nel gruppo WhatsApp della squadra di calcio del loro paese in Gambia il consueto “buongiorno” del mattino non era arrivato. Come tutti noi, anche Diawara aveva i suoi gruppi WhatsApp e ogni mattina salutava gli altri con frasi, vocali e meme. Non ne sono più arrivati. Diawara resterà per sempre in Libia e i suoi famigliari non rivedranno mai più il suo corpo.
“È una situazione insostenibile, il governo italiano ha invertito l’ordine delle priorità dimenticando i diritti umani” ha commentato il portavoce di Amnesty Italia Riccardo Noury.
Ascolta l’intervista a Lamin:
L’intervista a Lamin è andata in onda all’interno della trasmissione Agitpop. Ascolta qui tutta la parte dedicata a questa vicenda