Mia cara Olympe

Una tenda, è questo il posto dei giovani?

Il popolo delle tende si spande, giorno dopo giorno: dalla prima, Ilaria davanti al Politecnico di Milano, le e gli accampati si fanno vedere in tante città, dai portici bolognesi alla Sardegna, in una protesta che si potrebbe dire marxista in quanto prende la mosse da precise e pesanti condizioni materiali –  il caro affitti  come primo anello di una catena di diseguaglianze che riguardano le generazioni più giovani  – e insieme assai efficace dal punto di vista comunicativo. Come non vedere lo spostamento di significato dell’uso di una tenda in mezzo a una città? Lontano da immagini di boschi e campeggi, la tenda rimanda alla condizione degli homeless: quelli che con le loro pinetine affollano i giardini di Washington, i quartieri centrali di San Francisco, quelli che anche a Milano siamo abituati a vedere in Corsia dei servi, pieno centro città.

Homeless, senza casa, senza posto: condizione che si vorrebbe lontana da giovani che frequentano l’università e che dovremmo tenerci cari visto che sono anche pochi, essendo l’Italia uno dei posti in Europa con meno laureati. E invece. Troppo facile, troppo ‘vittimista’ – qualcuno lo pensa – pensare che ciò che studentesse e studenti dalle loro tende stanno mandando a dire ad una politica così misera da farne una questione di schieramento – il ministro Valditara – è che il caro affitti racconta di un modello escludente di città e società e di una grande questione generazionale alla quale negli anni i e le giovani hanno dato, silenziosamente e individualmente, risposte diverse? Molti se ne sono andati in una varietà di traiettorie che quasi nessuno si è dato la briga di vedere per quello che indicano: non una questione privata semmai venata di privilegio, ma una domanda inevasa, una perdita che il nostro Paese non ha saputo colmare con altri arrivi – figurarsi adesso con le politiche della destra sulle migrazioni – o dando la possibilità di un ritorno. Molti in realtà, complice il Covid, sono tornati e, come quelli rimasti, sono andati a ingrossare le fila degli stage, del ‘Comincia a lavorare e poi ci aggiustiamo’, i più fortunati con posti di lavoro la cui ‘flessibilità’ va solo a vantaggio delle aziende, tutti  alle prese con un gap salariale tra generazioni che ormai, secondo il recentissimo studio ‘Countries of Old Man: an Analysis of the Age Wage gap’,  arriva al 40% e intrappolati ai livelli bassi delle carriere. Per non dire, ed è sempre da dire, che per le giovani donne è tutto e sempre ancora più difficile e hai voglia a lamentare la natalità più bassa della nostra storia e a fare gli Stati generali…

Sotto quelle tende c’è tutto questo e qualcosa di più impalpabile ma altrettanto importante (e che da questa parti suscita grande simpatia): la richiesta di porsi come soggetto collettivo, come forza – energie, idee, saperi, progettualità –  di cui noi, società invecchiata e assai disillusa, abbiamo disperatamente bisogno. E non solo per pagarci le pensioni.

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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