Appunti sulla mondialità

Torna il debito estero…ma in Africa

Quello del debito pubblico degli Stati è un problema antico, già emerso all’attenzione dell’opinione pubblica verso la fine del ’900, quando le istituzioni finanziarie internazionali individuarono come cura standard, per i Paesi che ne erano gravati, il taglio dei cosiddetti “rami secchi” (cioè istruzione, pensioni e welfare), la liberalizzazione dei mercati e la privatizzazione delle aziende pubbliche. Una ricetta che ebbe pesanti ricadute sulla vita dei cittadini, basata su pochi ingredienti giusti e molti altri dettati dall’ideologia. Non è mai stato dimostrato, ad esempio, che un minor investimento nell’educazione dei giovani o nella cura degli anziani possa migliorare stabilmente i conti di uno Stato: anzi, nel medio periodo di solito accade l’esatto contrario. Ma il problema dell’indebitamento è come un iceberg del quale si vede solo la parte superiore, quella economica, mentre tutto il resto rimane sommerso.

Tra gli anni ’80 del secolo scorso e gli anni 2000 la questione riguardò soprattutto l’America Latina: Messico, Brasile, Ecuador, Perù rischiarono il default o addirittura dovettero dichiararlo, come accadde all’Argentina nel 2001, il caso più noto. Non furono le ricette del Fondo Monetario Internazionale a sistemare le cose, bensì il ciclo di crescita economica e l’aumento delle quotazioni delle commodities agricole e minerarie, che aiutarono quei Paesi a uscire dalla crisi.

Situazione economica internazionale e quotazioni delle commodities sono le ragioni per le quali oggi, dopo la pandemia, con la guerra in Ucraina ancora in corso e con il rischio di una recessione globale all’orizzonte, il debito torna prepotentemente all’attenzione. L’America Latina, che nel 2019 aveva una media del 58% di debito in rapporto al PIL continentale, è balzata al 72%.

La situazione è ancora più delicata in Africa, continente finora risparmiato dalle grandi crisi debitorie e che diverse volte ha usufruito di cancellazioni del debito. Nel 2022 il debito estero africano ha superato quota 700 miliardi di dollari e ben 8 Stati, secondo gli analisti, rischiano il default a breve termine. La crisi debitoria nasce dalla debolezza della struttura economica della maggior parte dei Paesi africani, che dipendono talvolta dalle quotazioni di una sola materia prima da esportazione, a fronte di una popolazione giovane in aumento e di una bassa tendenza al risparmio; si aggiungono il problema insoluto della corruzione generalizzata e la bassa fiscalizzazione dell’economia locale. Ora, prima che scatti l’effetto domino, si cercano soluzioni: ma in questo caso non è soltanto il Fondo Monetario a dettare le regole, perché quando si parla di Africa bisogna fare i conti con la Cina, che detiene quasi il 15% del debito estero del continente. Per anni, infatti, Pechino ha elargito agli Stati africani prestiti a buone condizioni, spesso per ripagare infrastrutture costruite dalla Cina stessa, e oggi teme l’insolvenza di alcuni dei Paesi con i quali ha stabilito rapporti di dipendenza. Almeno 6 Stati saranno chiamati a breve a ristrutturare il loro debito, e alcuni di essi sono Paesi importanti, come il Kenya, l’Egitto e la Nigeria.

A differenza di quanto accaduto in America Latina, qui c’è poco da tagliare, perché il welfare è quasi inesistente e gli Stati non possiedono grandi risorse. Assisteremo quindi a un negoziato che avrà poco di economico e molto di geopolitico, con la concessione di vantaggi agli investitori provenienti dai Paesi creditori, politiche restrittive sulle migrazioni e allineamenti politici che possano bilanciare l’avanzata dell’influenza di Mosca. Del resto, già in passato il debito estero è stato un fenomenale strumento di pressione politica oltre che economica. I Paesi indebitati devono abbassare le loro pretese, dimenticare il protagonismo internazionale e sopportare il commissariamento dei loro bilanci pubblici. Finché la prossima crescita economica allenterà la pressione debitoria e si potrà ancora una volta ricominciare a fare debito, come se nulla fosse.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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    Una casa editrice di estrema destra si iscrive alla Fiera nazionale della Piccola e Media Editoria “Più libri, Più liberi”, organizzata dall’Associazione editori italiani. Alcuni intellettuali si chiedono se sia opportuno ospitare pensieri razzisti o apologie del nazismo e come spiega la filosofa e scrittrice Donatella Di Cesare, esperta internazionale di "negazionismo" (l'ultimo suo libro per Einaudi si intitola “Tecnofascismo”): “Non discutiamo la libertà di pensiero e di pubblicazione per una casa editrice, ma l’idea della Fiera intitolata Più libri, Più Liberi a cui chiediamo se è giusto offrire questa vetrina ulteriore, così emblematica e significativa, dove verranno esposti autori e tematiche che in altri paesi europei come la Germania non sono tollerate”. “In Italia c’è una soglia molto bassa di attenzione, forse perché i temi storici non vengono approfonditi e siamo ancora nella vulgata del rigurgito del passato che ritorna o di temi folcloristici da non prendere seriamente e secondo me è un elemento critico e una mancanza di vigilanza culturale ed etica”. Ascolta l'intervista di Claudio Jampaglia e Cinzia Poli.

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    C’è un tesoro in Italia, ambito da sempre, ed è il tesoro delle Assicurazioni Generali. Chi comanda a Trieste, comanda su un pezzo importante del paese. Per 70 anni il tesoro delle Generali è stato controllato da Mediobanca, che una volta era il salotto del capitalismo familiare italiano e oggi è una solida banca milanese. Nell’ultimo anno, grosso modo, due capitalisti nostrani, non si sa se anche coraggiosi, Francesco Gaetano Caltagirone, insieme a Francesco Milleri, hanno portato a termine il colpo del secolo: con un’operazione di scambio di azioni – e con il concorso esterno del MPS, fino a qualche mese fa banca di stato - hanno cacciato i vecchi azionisti dagli uffici di piazzetta Cuccia a Milano (Mediobanca) e al loro posto ci hanno messo se stessi più alcuni amici. In questo modo l’immobiliarista e editore Caltagirone, insiene al socio un po’ litigioso degli eredi Luxottica, hanno preso il controllo di Mediobanca. E lo hanno fatto con l’aiuto del MPS, banca pubblica privatizzanda. Preso il controllo di Mediobanca, i “nostri” Caltagirone&Soci hanno cominciato a vedere terra, la costa triestina, la casa mitteleuropea di Generali. Ora, su tutta questa operazione – sommariamente sintetizzata – qualcosa non ha funzionato. La Procura di Milano sta indagando per il mancato rispetto di alcune importanti formalità da codice penale: il “concerto” non previsto, il rispetto del “mercato” e delle autorità di controllo. Aspettiamo fiduciosi che la giustizia faccia il suo corso, mentre la politica rivendica i suoi meriti, giusti o sbagliati che siano. Pubblica oggi ha ospitato il giornalista e saggista Vittorio Malagutti (Domani) e il senatore del Pd Antonio Misiani.

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