Appunti sulla mondialità

Quale lavoro in futuro?

Nel 2017 Bill Gates, fondatore di Microsoft, lanciò l’idea provocatoria di tassare il lavoro che, in futuro, sarebbe stato svolto dai robot a discapito degli esseri umani occupati nell’industria. Ma il suo allarme fu considerato prematuro e cadde nel vuoto. Invece la sostituzione di manodopera umana con i robot, e più in generale con l’intelligenza artificiale, sta facendo passi da gigante. Si tratta di una riproposizione di ciò che accadde con le delocalizzazioni dell’industria negli anni ’90, quando attraverso il nomadismo delle aziende alla ricerca di Paesi con bassi stipendi si cercava – con successo – di abbattere i costi di produzione. Quei maggiori margini di guadagno, ormai è storia nota, in massima parte non andarono a vantaggio dei consumatori ma si tradussero in capitali accumulati in Paesi esentasse. Ora, con l’introduzione massiccia dell’intelligenza artificiale nei processi industriali, non ci sarà più bisogno nemmeno di migrare: per le aziende, i costi caleranno senza bisogno di uscire dai propri confini.

Secondo diverse indagini, nei soli Stati Uniti nei prossimi anni l’automazione farà perdere dagli 8 ai 15 milioni di posti di lavoro. E in prospettiva, secondo gli esperti, la sostituzione dell’attività umana potrebbe andare a intaccare il 45% circa dei lavori attualmente svolti. Questo processo di erosione dell’occupazione si somma ai costi e alle trasformazioni del sistema produttivo imposti dalla transizione ecologica che i Paesi occidentali, nel tentativo di porre rimedio al cambiamento climatico, hanno giustamente intrapreso. L’industria automobilistica europea, che dal 2035 non dovrebbe produrre più motori termici, potrebbe perdere mezzo milioni di posti di lavoro, solo in parte assorbiti dalla nuova occupazione creata dallo sfruttamento dell’energia rinnovabile. Per non parlare del ciclo industriale del petrolio, che è interessato sia dall’automazione (nella fase di trivellazione), sia dalle ricadute della transizione ecologia (nei settori della raffinazione e distribuzione dei derivati, in declino per via dei cambiamenti nella motorizzazione).

Si pone quindi un problema gigantesco per l’occupazione, paragonabile a quello determinato dalla rivoluzione industriale. Nell’800 i posti di lavoro, eliminati soprattutto nell’agricoltura, erano automaticamente ricreati nell’industria e nei servizi: semplificando, il cocchiere poteva diventare autista, il mezzadro operaio. Anche questa volta l’agricoltura è stata il primo settore nel quale sono comparsi i cambiamenti, con l’introduzione massiccia di macchinari che hanno ridotto al lumicino l’occupazione nel settore cerealicolo e dell’allevamento, risparmiando solo – almeno per ora – il ciclo della frutta e degli ortaggi. La differenza è che oggi il combinato disposto di irruzione dell’intelligenza artificiale nei cicli produttivi e decarbonizzazione del settore energetico sembra destinato a creare un duplice problema: dove troveranno impiego le persone che perdono i posti di lavoro? E come si potrà reggere un sistema pensionistico e di welfare in cui i “sostituti” dei lavoratori non verseranno contributi?

Questo è uno degli aspetti bui delle rivoluzioni green e smart. Tutto il dibattito si concentra sugli aspetti ambientali e sulle questioni produttive, raramente tocca l’aspetto occupazionale, quasi mai allarga il campo fino a comprendere le ricadute sulla società nel suo complesso.

L’ottimismo della volontà, largamente profuso dalla pubblicistica aziendale, non basta. Le promesse dei populisti della Silicon Valley sul futuro radioso dell’umanità, che sarebbe garantito a patto di usare i loro prodotti, non sono sostenute dai dati di fatto. Quella proposta di Bill Gates, di introdurre un prelievo fiscale extra per le imprese che costruiscono i robot e per quelle che li utilizzano al posto dei lavoratori, è rimasta un fatto isolato, nascosto nel silenzio generale. Si continuerà a ignorarla finché l’agenda della globalizzazione ci costringerà a recuperare e ad aprire questo capitolo: ma probabilmente ciò accadrà quando i problemi saranno già grandi e bisognerà ricorrere a criteri emergenziali.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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    Tommy WA: la nuova promessa del folk africano si racconta a Radio Pop

    L'abbiamo scoperto con l'EP "Somewhere only we go" e oggi a Volume abbiamo avuto modo di conoscere meglio la storia di questo cantautore nigeriano, che si è poi formato musicalmente in Ghana: "Nel corso degli anni le nostre musiche si sono fuse: l'highlife ghanese, il palm-wine, il folk di Kumasi, il suono contemporaneo della chitarra. Ho potuto unire questi due mondi, mescolandoli con le radio occidentali che ascoltavo da ragazzo". Il risultato è un folk pop pieno di anima e di profondità: "Il mio obiettivo non è solo una carriera internazionale, ma costruire qualcosa in Africa. Voglio creare una struttura che funzioni per artisti come me, gente con una chitarra o un tamburo, artisti contemporanei che non hanno modo di raggiungere il loro pubblico". Ascolta l'intervista di Niccolò Vecchia a Tommy WA.

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    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

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    Teatro. La rivoluzione delle "piscinine" milanesi vista da due piccioni in crisi esistenziale Al Teatro della Cooperativa, a Milano ha debuttato in prima nazionale "Lo sciopero delle bambine", in scena Rita Pelusio e Rossana Mola di PEM Habitat Teatrali, compagnia che porta avanti una ricerca artista che declina contenuti civili e ironia. Lo spettacolo, con la regia di Enrico Messina, racconta una storia avvenuta a Milano nel 1902, quando le “piscinine”, che in dialetto meneghino significa “piccoline”, bambine, tra i sei e i tredici anni, che lavoravano senza diritti, sfruttate e sottopagate, ebbero la forza di scioperare e, per cinque giorni, fermare l’industria della moda della città. A raccontare la vicenda delle piscinine in scena sono due piccioni, due creature che abitano le piazze, le cui parole rispecchiano lo sguardo dei contemporanei, spesso stanchi e disillusi davanti alle sfide della storia. Nella trasmissione Cult Ira Rubini ha intervistato l’attrice Rita Pelusio.

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    Il commento alla classifica di NME dei migliori album del 2025, l'intervista al musicista nigeriano Tommy Wà a cura di Niccolò Vecchia e la storia di Jesse Welles, da fenomeno social a uno dei cantautori americani più apprezzati del momento.

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