Tra Buddha e Jimi Hendrix

Paura diffusa, zen, nasi da pagliaccio e piatti di pasta

Come ci di difende da un periodo storico incerto, sfigato, che ci siringa continuamente sotto pelle cc di terrore sotto forma di strilli su virus sempre più mortali, povertà e imminenti guerre mondiali? Certamente serve tanto equilibrio per non farsi travolgere dall’onda della paura e riuscire a surfarla come uno scintillante Kelly Slater qualunque mentre tutto intorno echeggia la chitarra mistica di Dick Dale, the king of surf music. Bell’immagine vero? Ma bisogna guadagnarsela. Mettere qualche base solida su cui costruirla per poterla visualizzare.
Tanto per cominciare va accettata la nostra impermanenza, sdoganando finalmente il tabù della morte, che qui da noi ormai sembra essere diventata una parola impronunciabile.
Lo scrittore è filosofo Fabio Cantelli Anibaldi, ha scritto un pezzo illuminante sull’argomento. Andrebbe imparato a memoria, specialmente quando dice: “La maggior parte degli esseri umani vive come se fosse immortale e le conseguenze della finzione sono sotto gli occhi di tutti: la nostra è una società orribile, fondata su relazioni strumentali e posticce, una società dove il non parlare di morte si traduce in violenze esplicite come quelle delle guerre o implicite come quella selettiva che regola il mercato economico: mors tua vita mea”.
Compresa, accettata e superata l’idea che niente vive per sempre e prima o poi ci toccherà morire, possiamo tentare di passare al livello successivo e fare la conta delle nostre risorse disponibili. Realizzeremo così che corpo, mente ed energia vitale sono gli unici strumenti che abbiamo. Chi impara a usare consapevolmente questi strumenti vive una vita tendenzialmente serena. Chi non ci riesce è condannato a vivere male, a invidiare gli altri, a dare al mondo la colpa per essere preda di tutte le sfortune possibili e immaginabili.
Alla fine vivere sereni e perfettamente integrati nel mondo oppure vivere male, sentendosi fuori posto in ogni contesto, è spesso una nostra scelta.
Questa nostra società occidentale, tuttavia, non solo cerca di eliminare il concetto di morte, mortalità e invecchiamento – invitandoci a consumare come se dovessimo vivere 300 anni – ma ci ha passato l’errata convinzione che saremmo uomini e donne completi solo se esaudiremo i nostri sogni, che poi sono i loro, impiantati sotto pelle in anni di pubblicità. Un modo assai paraculo per giustificare una corsa cieca verso “bisogni materiali” e “caramelline per l’ego” su cui si fonda il mondo dei consumi. La vita cristallizzata in obiettivi da soddisfare. Un tentativo di esaudirci è sublimarci che volge sempre all’esterno, quasi mai all’interno. La carriera, la famiglia, i rapporti sentimentali, il sesso, il cibo, lo status sociale… Tutte cose che stanno fuori e che riusciamo ad assimilare solo superficialmente. E intanto che cerchiamo di esaudire questi infiniti bisogni, siamo dannatamente seri, quasi tristi, come fossero questioni di vita o di morte. E lo restiamo anche dopo, quando ci convinciamo che dobbiamo difendere quello che duramente, con sangue e fatica, abbiamo ottenuto.
Ma questa psicologia dei “bisogni di superficie” dove ci porta? A vivere coi paraocchi, lontani dalla realtà e dall’unico tempo che la sorregge: il presente. Facciamo colazione e pensiamo a cosa mangeremo a pranzo. Mentre completiamo un lavoro stiamo già pensando al successivo. Mentre diamo un bacio oggi, stiamo già pensando a come potremo darlo domani. La nostra normalità, se ci pensiamo un attimo, è abbastanza anormale.
Per semplificarci la vita ci raccontiamo che se avessimo più soldi, più amore, più potere, più attenzioni, più sicurezza, vivremo meglio, ma non è vero. Altrimenti i ricchi e i tanto amati non andrebbero dallo psicologo né ingollerebbero psicofarmaci proprio come le persone povere o sole.
Ma come ci si difende dall’infelicità, dalla paura, dal disagio?
Il mistico indiano Maharishi Mahesh Yogi suggeriva due modi, un semplice sistema binario.
Uno: comprendendo che il mondo esterno non ha alcun potere particolarmente rilevante sulla nostra serenità.
Due: comprendendo che paradiso è inferno sono dentro di noi e imparare quindi a tenere pulita la mente.
Ma come si fa a tener pulita la mente?
Meditando. Accontentandosi di quello che si ha senza cercare quello che non si ha. Smettendola di correre dietro ai pensieri, che sono come palloncini al vento, se li segui prendendoli per veri chissà dove ti portano.
Non siamo i nostri pensieri. Per fortuna, aggiungerei.
E poi bisogna cercare di ridere. Roshi Bernie Glassman, uno dei grandi illuminati di questo secolo, consigliava ai suoi discepoli di indossare per qualche secondo un naso da pagliaccio tutte le mattine davanti allo specchio. Giusto per farsi una risata e non prendersi troppo sul serio. Per capire che siamo microbi su una pallina che fluttua nello spazio infinito, uno sputo, neanche troppo lungo nell’eternità. Siamo talmente piccoli, brevi e precari che dovremmo solo rilassarci e ridere, ridere, e ancora ridere… Fly down, amici. Voliamo bassi.
Alan Watts lo ricorda bene quando nell’illuminante “La Saggezza del Dubbio” scrive di come sia assurda la brama di sicurezza dell’uomo che abita un universo completamente imprevedibile e insicuro.
Alla fine, i nostri ostacoli a una vita pacifica e serena solo in minima parte sono rappresentati dal Covid, dalla guerra, dalla malattia, dalla miseria e dalla morte.
I nostri ostacoli a una vita pacifica e serena sono in massima parte causati dalla paura del covid, dalla paura della guerra, dalla paura della malattia, dalla paura della miseria e dalla paura della morte.
È sempre tra le tortuose rapide della mente che nascono i colori che tratteggiano il nostro destino.
Sospensione del giudizio; accettazione della realtà precaria in cui viviamo; ironia tout court; e un bel piatto di pasta cucinato con amore.
Sono queste, secondo i grandi saggi, le chiavi per il giardino del re della pace mentale.
Il piatto di pasta, lo ammetto, i mistici non lo dicono, l’ho aggiunto io che sono tutto fuorché saggio, eppure credetemi, a volte aiuta.

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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    L'abbiamo scoperto con l'EP "Somewhere only we go" e oggi a Volume abbiamo avuto modo di conoscere meglio la storia di questo cantautore nigeriano, che si è poi formato musicalmente in Ghana: "Nel corso degli anni le nostre musiche si sono fuse: l'highlife ghanese, il palm-wine, il folk di Kumasi, il suono contemporaneo della chitarra. Ho potuto unire questi due mondi, mescolandoli con le radio occidentali che ascoltavo da ragazzo". Il risultato è un folk pop pieno di anima e di profondità: "Il mio obiettivo non è solo una carriera internazionale, ma costruire qualcosa in Africa. Voglio creare una struttura che funzioni per artisti come me, gente con una chitarra o un tamburo, artisti contemporanei che non hanno modo di raggiungere il loro pubblico". Ascolta l'intervista di Niccolò Vecchia a Tommy WA.

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