Tra Buddha e Jimi Hendrix

In ricordo di Shane MacGowan, il santo bevitore dei Pogues

Notizia orribile. Saputo ora. Shane MacGowan ci ha lasciato. Avrebbe compiuto sessantasei anni il giorno di natale. A stroncarlo una rara forma di encefalite virale, un’infiammazione del cervello che ha avuto vita facile in un corpo distrutto dagli abusi e in sedia a rotelle da otto anni per una rovinosa caduta che gli ha fratturato il bacino.
Il frontman matto dei Pogues è uno di quei personaggi difficili da raccontare in poche righe. Parliamo di carne, sangue e whisky che si mescolano nella stessa tazza per la zuppa, un sogno alcolico vestito di poesia che incendia i cuori dei figli del pub da quasi quarant’anni.
Nasce il giorno di Natale del 1957 a Tunbridge Wells, in Inghilterra. I suoi genitori, fieramente Irish, sono lì in vacanza da alcuni parenti.
I Mac Gowan vivono in una fattoria della contea di Tipperary, in Irlanda, con Shane che cresce circondato da uno stuolo di parenti, come nella migliore tradizione contadina. Alcuni sono davvero bizzarri, come la zia Nora, la più religiosa della famiglia. La signora ha uno strano modo di insegnare il catechismo al nipote: gli fa bere birra e sigarette fino a stordirlo e poi lo indottrina con la religione. Per un periodo sarà quella la sacra triade del piccolo Shane: alcool, tabacco e fede, tant’è che valuta anche l’idea di farsi prete. Poi la fede verrà sostituita dalla musica.
Un altro personaggione da romanzo è il taciturno zio John, che dice solo “fuck” ed è solito portarsi quel nipotino al pub a bere con lui dopo il faticoso lavoro nei campi.
“Mi mettevano sul tavolo per cantare qualche canzone” ha ricordato Shane “avrò avuto tre, quattro anni. All’inizio ero intimidito ma poi cominciai a sentirmi a mio agio, e tutti mi dicevano che ero bravo. Si può dire che realizzai di essere un grande già in tenera età”.
Un grande tanto a cantare quanto a bere alcolici, visto che tracannare birra e poi whisky è un rito che inizia prima ancora di andare a scuola. E non è il solo fra i ragazzetti della zona. C’è un detto fra gli uomini di Tipperary che spiega meglio di mille discorsi come la si pensa sul dare alcolici ai bambini: “Beh, se gliene dai abbastanza quando sono giovani non esagereranno da grandi”.
Quando Shane compie sei anni, la famiglia si trasferisce a Londra e lui ne soffre tantissimo.
Nella capitale inglese cresce ribelle e confuso, come tutte le persone autentiche. E subisce episodi di bullismo, perché per certi beceri inglesotti gli irlandesi stanno una spanna sotto, sempre e comunque, soprattutto in quegli anni politicamente così tesi. Quell’odio, quasi razziale, ha un solo effetto sul giovane MacGowan: consolidare ancor più l’orgoglio di essere irlandese. Ma la vita è sempre complicata, i genitori a casa litigano, mamma soffre di depressione e lui fatica a ritagliarsi un proprio posto in quell’angolo di mondo bagnato dal Tamigi. Per consolarsi, oltre all’onnipresente alcool arrivano le pillole e i viaggi con gli acidi. Quando ci aggiunge anche gli psicofarmaci che rubacchia alla madre, Shane va fuori di testa e finisce in un centro di igiene mentale dove rimane quasi sei mesi.
Ripulito dalle psico-porcherie, ritorna in tempo per i Sex Pistols, che vede dal vivo nel 1976. Folgorato sulla via del punk, inizia a frequentare assiduamente la scena londinese. Piccolo particolare: ci ha dato un taglio con acidi e pillole ma continua a bere come una spugna.
Sempre in quell’anno, mentre assiste a un concerto dei Clash completamente ubriaco, cerca di baciare una ragazza che gli addenta l’orecchio con un morso. Il giovane MacGowan rotola a terra e inizia a perdere sangue. Un giornalista assiste all’accaduto e scatta una foto. Quell’immagine capeggerà sul giornale del giorno dopo sotto al titolo, inequivocabilmente punk: “Cannibalismo al concerto dei Clash”.
Ma non esistono solo le birre e i concerti. L’inquieto Shane è un tipo sensibile e complesso che ama la poesia, il disegno, le vite complesse degli underdogs, il tratteggiare gli aspetti più nascosti dell’esistenza. In quegli anni giovanili così veloci e tormentati non sta fermo un momento. Infatti, quando non viene azzannato dalle ragazze, lavora al Rocks Off, un celebre negozio di dischi sulla Hanwey Street, proprio a due passi del Virgin Megastore, cura una fanzine di sua creazione chiamata Bondage e milita nei Nipple Erectors – che più o meno vuol dire “inturgiditori di capezzoli” – un gruppo punk che forma con la bassista Shanne Bradley.
“Gli feci un’audizione nel mio monolocale sulla Stavordale Road. Stavo cercando un frontman” racconterà Shane anni dopo “Non appena entrò nella stanza iniziò a tuffarsi e rotolarsi sulle lenzuola di lino da quattro soldi, urlando come un pazzo: stava facendo una sua personale rivisitazione degli Stooges. Mi è bastato questo per capire che era la persona giusta”
Dopo l’uscita del primo singolo, King Of The Bop (1976), il gruppo cambia nome nel più accettabile The Nips e registra altri tre singoli.
La formazione è tutto fuorché stabile, per un periodo alla batteria siede anche Jon Moss, prima di accasarsi con i Culture Club e vendere milioni di copie insieme a Boy George.
I Nips smettono di suonare sotto questo nome alla fine del 1980; della loro gloriosa storia resta un album dal vivo, Only The End Of The Beginning, e l’orgoglio di aver aperto gli show di gruppi mitici quali Jam e Clash.
Nello stesso periodo in cui milita nei The Nips, Shane suona la chitarra anche in un altro gruppo punk, The Millwall Chainsaws, in cui si alterna alla voce con Peter Stacy, un tipo tosto originario di Eastbourne che tutti chiamano Spider. Altri musicisti che gravitano intorno alle due band in cui è impegnato MacGowan sono Jem Finer – un amico di Shane che suona banjo, mandolino, sassofono e ghironda – e l’aspirante scrittore Jamer Fearnley, che invece se la cava discretamente con chitarra, fisarmonica, pianoforte e mandolino. Poi c’è il percussionista Andrew Ranken, che abita vicino a Shane e anni dopo, si dice, vivrà una turbolenta relazione con una giovane e inquieta Courtney Love. Il basso invece lo imbraccia Cait O’Riordan, bionda diciassettenne irlandese, che incontra Shane al negozio di dischi dove lavora. È più o meno questa la formazione embrionale dei Pogues, perlomeno dal 1982, perché prima la line up cambia spesso, esattamente come il loro nome. Saranno prima i The New Republicans, poi i Pogue Mahone e solo alla fine arriverà il nome della leggenda: The Pogues.
Il loro stile? Una mescola di musica tradizionale irlandese, poesia, folk e rock n’roll, il tutto benedetto da un’attitudine punk ubriaca.
La prima canzone dei Pogues – Streams of Whisky – MacGowan la scrive dopo essersi sgolato una bottiglia di sidro nel suo appartamento a King’s Cross. Ne seguiranno tante altre, ispirate e bellissime. Come incredibili sono i loro concerti: allegri ma anche brutali, sudati e fradici di birra, conditi tanto dai baci sulla bocca quanto da risse, denti che saltano, balli selvaggi e abbracci fraterni. D’altronde di questo parlano molte delle canzoni del gruppo: della vita, delle sue amarezze, delle difficoltà da annegare nell’alcool, ma anche e soprattutto della luce che filtra dalle cicatrici. Non sorprende che Joe Strummer abbia definito MacGowan come “un poeta visionario, probabilmente il più raffinato scrittore di questo secolo”.
Shane rimane con la band dal 1982 al 1991, realizzando cinque dischi e due EP che vendono tantissimo, rivoluzionano il modo di approcciarsi al folk e trasformano i Pogues in un gruppo di culto assoluto.
Sono loro, per dire, insieme alla cantante Kristy Macall, a realizzare Fairytale in New York, una delle canzoni di natale più famose, amare e discusse della storia della musica. Il pezzo racconta la storia di un migrante irlandese chiuso in una cella di New York a seguito di una sbornia che inizia a sognare a occhi aperti la sua donna, con cui ha litigato proprio alla vigilia, per via dell’alcool e dei suoi problemi con la droga. Musicalmente la violenta lite dei due ex innamorati doveva essere un duetto tra Shane MacGowan e Cait O’Riordan ma la bassista lascia il gruppo nel 1986 per sposare Elvis Costello, che tra l’altro ha prodotto i due precedenti album della band prima di litigare con Shane ed essere allontanato. Steve Lillywhite, il produttore subentrato a Costello, chiede allora a sua moglie Kirsty MacColl di registrare una traccia vocale in modo da utilizzarla come linea guida per le prove. La voce della MacColl colpisce cosi tanto i Pogues che la vogliono in studio per cantare la versione definitiva della canzone. Il successo del tormentato brano è senza precedenti: Fairytale in New York diventa la canzone di maggior successo dei Pogues e trascina l’album “If I Should Fall from Grace with God” fino alla terza posizione della chart inglese e nella top ten in tanti altri paesi, inclusi gli Stati Uniti.
Il cuore, la passione, il raccontare la sofferenza e le difficoltà della vita senza piangersi addosso e risultando credibili sono sempre più la cifra stilistica dei Pogues, come quando reinterpretano a loro modo Dirty Old Town, il celebre brano datato 1949 del cantastorie inglese Ewan Macoll
“È una delle mia canzoni preferite da quando avevo 16 anni” mi racconta il musicista basco Tonino Carotone, uno che con Shane ha non poche cose in comune “si tratta di un pezzo triste, profondo e caldo che ti da forza, come sanno fare solo gli inni popolari”.
Il resto lo fa la leggenda di MacGowan, il poeta ubriaco che sul palco fa cose pazze, ha perso i denti davanti chissà come, vive una vita sull’orlo del baratro ma è capace di spremersi l’anima davanti al pubblico fino a far gocciolare l’ultima emozione.
Ironico, confuso, passionale e brutalmente onesto.
“Un’adorabile testa matta a cui si finisce per perdonare tutto, o quasi”. È così che lo descrive la giovane scrittrice Victoria Mary Clarke in una lunga serie di interviste che poi finiscono nel libro A Drink with Shane McGowan (edito in Italia dagli amici di Tsunami). Incontri attraversati dal dardo di Cupido, visto che i due si mettono insieme e, dopo molti anni di convivenza, convoleranno a nozze.
I giorni di Shane con i The Pogues terminano nel novembre 1991 durante un tour in Giappone. La motivazione? MacGowan è ingestibile: ogni notte si temono disastri, ritardi, la paura che non riesca a raggiungere il palco è una costante, senza scordare le rovinose cadute, le liti da ubriaco, i denti in bocca sempre di meno e i chili intorno alla vita sempre di più. La verità è che Shane sta male, soffre un esaurimento nervoso dietro l’altro, patisce nel passare oltre trecento giorni in tour per cavalcare l’onda lunga della fama e, soprattutto, mal digerisce il successo di Fairytale in New York, che ha trasformato i Pogues proprio in quello che la band all’inizio non voleva essere: il tipico gruppo rock commerciale.
Quel pomeriggio in Giappone i compagni lo convocano in una stanza del Pan Pacific Hotel di Yokohama, dove sono alloggiati. La sera stessa devono esibirsi al Womad, il festival itinerante organizzato da Peter Gabriel.
“Tutto bene?” esordisce Shane appena mette piede nella stanza. Nessuno risponde. I suoi capelli sono sporchi, la barba sfatta, il viso pallido, per nulla illuminato dal bavaglino di collane, perline e talismani appeso al collo. Anche il suo odore non è dei migliori, d’altronde indossa la stessa t-shirt nera da due settimane.
Non si scompone quando gli viene comunicato che lo vogliono tutti fuori dalla band.
“’Siete stati tutti molto pazienti con me’” ci disse. Poi esplose a ridere, lasciando che l’aria passasse nei buchi dove una volta c’erano i suoi denti, e concluse: ‘Come mai ci avete messo così tanto?’” racconta James Fearnley nel suo libro “Here Comes Everybody”.
Dopo l’uscita dal gruppo, seppur intraprendendo un percorso professionale frammentario e accidentato, MacGowan realizza cose pregevoli, spendendosi in duetti e featuring vari – memorabile la versione di What A Wonderful World realizzata insieme a Nick Cave – ma faticando a portare avanti progetti più lunghi e articolati. Tra visioni abbozzate e collaborazioni, arriva un disco solista nel 1994 – The Snake, dove appare crocifisso in copertina – e una nuova band per accompagnarlo, che ironicamente chiama The Popes. Disco ispirato e sottovaluto, tra l’altro, con l’amico Johnny Depp a suonare la chitarra in That Woman’s Got Me Drinking, secondo singolo estratto dalla raccolta.
Tre anni dopo arriva un nuovo album con i The Popes, The Crock of Gold, poi basta. All’alcol si è aggiunta l’eroina a inibire vita e creatività di Shane: impensabile realizzare nuove canzoni o, ancor peggio, cantarle su un palco.
Nel 2001, l’amica di una vita Sinead O’ Connor arriva a denunciarlo alla polizia inglese per possesso di eroina nella speranza che l’arresto possa salvarlo dal baratro in cui è precipitato. Qualche anno dopo, passata tanto la scimmia quanto l’incazzatura, Shane la ringrazierà pubblicamente.
Disintossicato dall’eroina ma non dall’alcol, eccolo tornare sul palco con i Pogues nel 2001 per una serie di concerti, che si ripeteranno abbastanza fedelmente negli anni fino al 2014, regalando, ai tanti che se l’erano persa, l’esperienza di vedere il gruppo dal vivo.
Anche alla voce “dentatura” le cose sono migliorate. Dopo anni da sdentato – l’ultimo dei suoi denti naturali era caduto nel 2008, stroncato dalla solitudine – nel 2015 Shane si è finalmente fatto rimettere in sesto la bocca, sottoponendosi a una procedura di nove ore, con otto impianti in titanio incastonati nelle mascelle più un dente d’oro, quest’ultimo inserito per puro sfizio. La procedura è stata oggetto di un programma televisivo intitolato Shane MacGowan: A Wreck Reborn.
Ma la notizia più ghiotta, dal mondo del figlio ubriaco d’Irlanda, è arrivata qualche mese dopo, proprio all’inizio della pandemia da Coronavirus, un annuncio che quasi nessuno si aspettava: Shane si sarebbe messo al lavoro su un nuovo disco d’inediti con la band dei Cronin, dei fratelli Mick e Johnny Cronin.
E intanto è uscito Crock of Gold: a Few Rounds with Shane MacGowan, il tanto atteso documentario prodotto da Johnny Depp. Uscito nel dicembre 2020 per la regia di Julian Temple, il film è un commovente quanto esilarante ritratto dove il leader dei Pogues emerge in tutta la sua autentica quanto imperfetta bellezza.
È quasi come se ci fosse qualcosa di profetico nella carriera di MacGowan. All’inizio di “Crock of Gold”, infatti, Shane candidamente racconta di essere assolutamente certo che il Padreterno l’abbia scelto da bambino per salvare il folk irlandese. E quando una voce fuori campo gli chiede perché mai l’avrebbe fatto, eccolo confezionare una risposta che sono certo diventerà una maglietta assai venduta nei tanti shop per turisti da Dublino a Galway: “Perché Dio è irlandese”.
E invece non arriverà più alcun disco, libro o show. Shane è salpato per il paradiso dei poeti, dei figli di Dio nati senza pelle, dei peccatori dal cuore grande.
Caro Shane, ti onoreremo col vino. Con la poesia.
Emozioni crude e vita.
Bicchieri rotti e risa.
Imperfezioni incoronate nella terra dei giusti,
Ciao meraviglioso pazzo scatenato irlandese…

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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