Mia cara Olympe

Il dibattito sì: elogio della discussione argomentata

Una (bella) aula dell’Università di Pavia, due team che discutono una mozione – pro e contro – un pubblico attento che fa domande, interviene e vota, all’inizio e poi alla fine della discussione,  per decidere l’argomentazione più convincente. Insomma, in tempi di opinioni urlate, polarizzate, poco informate, una boccata di ossigeno.

Ed è così – con la sensazione di una boccata di ossigeno e avendo capito più cose di quante ne sapessi all’inizio e assicuro che avevo studiato – che sono tornata a casa dopo aver partecipato come speaker ad uno dei dibattiti del ciclo ‘Fluidi’  organizzato dalla Società dei dibattiti pavese, un’associazione nata da studenti e docenti che dal 2019 promuove il pensiero critico, ispirandosi alla Debating Society della Oxford Union e alla versione didattica sperimentata da Ian Carter, docente di Filosofia Politica a Pavia. La mozione del nostro dibattito  – “Il consenso è sufficiente perché una relazione sessuale sia etica” – mette i piedi nel piatto di una questione di grande attualità – dal Metoo alla legge spagnola ‘Solo sì es sì” al recente pronunciamento del parlamento europeo – e di altrettanta complessità. E  direi che il dibattito ha rispecchiato la problematicità della mozione con il concorso di un pubblico che ha anche posto questioni ulteriori rispetto a quelle proposte dai team e alla fine ha concluso che il consenso è certo una misura necessaria per un sesso etico ma non sufficiente, perché – lo dico in breve – vanno tenute in considerazione le molte variabili – strutturali e individuali, dalle aspettative di genere agli stereotipi  – che in quel consenso hanno un ruolo.

Riprendendomi dalla  piacevole fatica del dibattito – né prepararlo né parteciparvi è semplice e, per esempio, il mio team ha miseramente fallito sul rispetto dei tempi che è rigidissimo-  mi sono imbattuta in questo articolo di Alessio Marchionna su Internazionale: nel momento in cui nelle università americane divampano le proteste contro la guerra a Gaza, con arresti, polizia nei campus eccetera, nel momento in cui, come ha scritto Zadie Smith sul New Yorker, il linguaggio e la retorica sono – come lo sono sempre stati quando si parla di Israele e Palestina – armi di distruzione di massa, da qualche parte si riesce ancora a discutere. E proprio come, nel senso del metodo, abbiamo fatto a Pavia. Steven David, docente di relazioni internazionali, tiene alla Johns Hopkins university di Baltimora un corso, che si intitola “Israele ha un futuro?”: facile capire  quanto sia utile adesso e quanto la discussione strutturata e informata che lì avviene sotto la sua guida chieda a ciascuno di sostenere l’argomentazione in maniera dialettica e informata, rispondendo alle obiezioni degli altri. “Dico sempre che non è una questione di giusto e sbagliato, ma di argomenti buoni e argomenti cattivi. E mi aspetto che sostengano le loro affermazioni con letture e discussioni per rafforzare i loro punti di vista”, dice David. Chi ha partecipato al corso che è arrivato all’oggi e alla domanda sulla reazione di Israele al  massacro del 7 ottobre ha raccontato di essere uscito con posizioni, oltre che più informate, anche più sfumate e problematiche sull’intera questione convinto che non esistono superiorità morali da sbandierare e con una maggiore insofferenza verso gli integralismi di entrambe le parti. Da qualche parte insomma e ciò consola in tempi così difficili  si depongono le armi di guerra, anche retoriche, si abbandonano gli slogan e le parole d’ordine troppo facili e ci si siede a ragionare: piccoli semi che speriamo germoglino o almeno resistano.

 

 

 

 

 

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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    È da ieri in Italia Lael Neal, cantautrice della Virginia che in questi mesi sta portando in tour il nuovo album "Altogether Strangers" uscito a maggio. Pubblicato dalla Sub Pop, storica etichetta alternativa di Seattle, il disco è un viaggio etereo e surreale che unisce folk e dream pop, l’inconfondibile suono dell’omnichord a paesaggi naturali e cittadini. Ieri dal vivo a Roma e domani a Torino, Lael Neale è oggi passata a Volume per suonarci alcuni pezzi prima del concerto di questa sera all’Arci Bellezza di Milano. E sulla presenza di figure femminili nell’industria musicale di oggi spiega: “non importa se sei uomo o donna perchè la qualità della musica dovrebbe parlare da sé”. L’intervista di Elisa Graci e Dario Grande e il MiniLive di Lael Neale.

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