La scuola non serve a nulla

Cosa? Una conferenza internazionale sull’Umorismo? Ma scherziamo? Dai, su… – Puntata 3

Nelle precedenti settimane vi stavo raccontando dell’ISHS Conference, l’annuale conferenza dell’International Society of Humour Studies (tradotto: la Società Internazionale di studi sull’Umorismo), riportandovi (fingendo, come tutti gli influencers che si rispettino, una qualche vostra richiesta in tal senso), il succo degli interventi più interessanti. Dopo la prima puntata, con lo spiegone a grandi linee sul “cosa, come e perché” della Conferenza più cliffhanger con la puntata dopo, la seconda con i primi interventi, e una breve pausa per commentare i commenti alla frase di Concita de Gregorio, ecco che continuo imperterrito a sciorinarvi un riassunto dei panel più fighi, da quel che ho capito io. Tanto non è che stia accadendo niente di particolare, in Italia e nel mondo, tale da catturare la vostra attenzione: indi per cui, per scongiurare il rischio d’addormentarsi nella sonnolenza del sottombrellone agostano, ecco qui un avvincente e mozzafiato sillabo di quanto è successo…

Eravamo arrivati a Luca Bischetti dello IUSS di Pavia? E si continua con Giselinde Kuipers. Costei si è soffermata sullo stesso argomento di Bischetti, cioè il “Disaster Humour” del Covid-19 (visto che gancio?) per puntualizzare che in effetti quella del Covid è stata sì “la prima volta” dell’umanità per tante cose, ma anche la prima occasione in cui tutti i comedians – e non solo – del pianeta hanno provato a creare materiale comico sullo stesso argomento. Da lì la pubblicazione sul Web, indipendentemente, di battute molto simili anche a latitudini lontanissime. Interessante come questo materiale rispettasse dei “cicli”, della fasi, che Kuispers ha potuto isolare e definire così:

– Fase 1: “Durerà poco” (essendo il virus “di fabbricazione cinese”, “andrà tutto bene”, ecc.”);

– Fase 2: “Non è reale, non esiste” (visto che “è solo un’influenza come altre”);

– Fase 3: “Panico e morte, tentativo di fronteggiare il trauma con il ridicolo” (per intenderci, l’umorismo in stile Taffo);

– Fase 4: “Lock down, noia, adattamento al nuovo” (tipo “Gita che parte dalla cucina, fermata autogrill in corridoio, arrivo in salotto”)

– Fase 5: “Critica alle disposizioni dei governi”, percepite come incoerenti (modalità “perché i teatri sono chiusi e le chiese no”).

Per ognuna di queste fasi gli umoristi, come del resto tutti i comici su un palco con un pubblico, hanno lanciato input e poi aggiustato il tiro dei successivi interventi sulla base della risposta ai precedenti: “un po’ come fanno proprio i tanto bistrattati pipistrelli, che mandano segnali nell’aria e aspettano la risposta per capire dove possono andare”. Che il povero pipistrello avrà fatto pure danni, ma come analogia con il comico è perfetta.

Nel panel “Neurodiversity and humour”, Evelyn Ferstl, Mikhail Fiadotau e Noemi Treichel hanno analizzato la ricaduta dell’uso dell’umorismo nel lavoro di rieducazione con soggetti che presentano disturbi vari nell’area della neurodivergenze. Il loro studio ha rivelato come, sottoponendo allo stesso materiale umoristico un vasto campione di soggetti con quattro tipi di neurodiversità o disturbi diversi (autismo, iperattività/ADHD, schizofrenia e depressione), coloro che dimostrano meno difficoltà nel comprendere un messaggio con intenzione umoristica sono, udite udite (benché il loro sia il disturbo che impatta in maniera più devastante sulla rete relazionale dell’individuo e sul sistema sanitario nazionale) proprio i soggetti con schizofrenia. “E grazie al cavolo: sono almeno due, dentro, possono chiedere e aiutarsi fra loro”, ho commentato sapidamente io, nello spazio finale delle domande, rischiando di essere cacciato dalla Conferenza… ma questa è un’altra storia. Che fa pendant con una della migliori battute della conferenza, quella di una Comedian in un video, che in suo pezzo raccontava: “Mi è stata diagnosticata la Sindrome di ADHD: sono iperattiva e ho difficoltà a mantenere l’attenzione. Volevo dire una battuta per tutti quelli nel pubblico che sono nella mia stessa condizione… Ma temo si siano già distratti a pensare ad altro”. Non ricordo il nome della comedian. Credo mi fossi distratto anch’io.

Peccato poi, sempre nello stesso panel, esservi persi la prof.ssa Michelle Matter. Sì, perchè la professoressa ha illustrato i risultati di un suo bellissimo studio (come approccio, simile al precedente): ha fornito i medesimi stimoli umoristici (battute, barzellette, vignette) a soggetti con autismo e poi ad altri con sindrome di Williams-Beuren (ne ignoravo l’esistenza: è un disturbo che porta nel soggetto uno “sviluppo puberale precoce dei caratteri sessuali secondari e statura definitiva più bassa della media, ma si caratterizza soprattutto per un atteggiamento sociale aperto, spesso immotivatamente, con una tendenza a essere particolarmente gentili ed estroversi con gli estranei, specie se di età diversa”: a dirla male, un disturbo i cui sintomi parrebbero agli antipodi dall’autismo). Dallo studio è emerso come i soggetti appartenenti a entrambi i gruppi hanno grosse difficoltà a comprendere l’umorismo, ma se i soggetti con sindrome di Williams-Beuren non lo ammettono, gli autistici invece sì; e perché? Questione di gelotofobia (altra parola che ho appreso quel giorno: è la “paura di essere derisi”), molto più alta in soggetti con questa sindrome che in quelli con autismo. Riconoscere di non aver compreso una battuta esporrebbe al rischio di essere considerati diversi, e quindi di essere esclusi dal gruppo: perciò il soggetto con sindrome di Williams-Beuren riderà alla battuta pur non avendola compresa (specie se, per imitazione, ridono anche gli altri); mentre una persona con autismo non ride e ti chiede, impassibile e senza filtri, cosa c’è di divertente, perché lui non l’ha capito (esponendosi, inconsapevolmente, allo stesso rischio di esclusione, benché di segno opposto). Voi direte: e perché questo studio sarebbe interessante? Be’, fornisce idealmente i due estremi del paradigma entro cui ritrovare tutte le possibili sfumature delle reazioni che anche i soggetti neurotipici hanno verso l’umorismo quando esso è prodotto in situazioni di socialità. In altre parole: quante volte accade di ridere anche se non abbiamo compreso il motivo? Perché lo facciamo? E perché a volte è difficile dire “Non ho capito”? Quando ero piccolo, certi bulli carogne della mia cumpa, più grandi di me, probabilmente non sapevano di sottopormi allo stesso esperimento della Matter: questi spernacchiavano una battuta a tema sessuale; io non capivo, mancandomi le conoscenze fondamentali, ma ridevo lo stesso per sintonizzarmi con tutti gli altri. Poi mi chiedevano perché: io non lo sapevo spiegare. Mi picchiavano. Fine della breve storia triste.

A seguire, Maggie Hennefeld e Luvell Anderson hanno presentato il bel libro “Uproarious: How Feminists and Other Subversive Comics Speak Truth”, di Cynthia Willett e Julie Willett: una sorta di storia della comicità al femminile Made in U.S.A a partire dagli anni ‘50. Giusto per ribadire come purtroppo il pregiudizio che “le donne non fanno ridere” non è solo roba Made in Italy. Un libro che racconta come gran parte della storia della rivendicazione dei diritti delle donne sia passata anche dai palchi di tanti Comedy Clubs. Tra le tante comedians, si parla anche di Wanda Sykes, e della sua celebre battuta dopo l’elezione di Donald Trump: “Sono certa che non è la prima volta che abbiamo eletto un presidente razzista, sessista, omofobo. È semplicemente il primo che ci ha avvisato in anticipo.”

E poi? E poi basta… cioè, tanti altri interventi interessanti, ma ve li racconto nell’ultima puntata della settimana prossima…

 

Che ne pensate? Per qualunque cosa vogliate dirmi riguardo ai miei articoli su questo Blog, dagli apprezzamenti, ai consigli, alle critiche fino agli insulti (questi ultimi però purché formulati rigorosamente in lingue antiche), scrivete a: antonellotaurino1@gmail.com .

 

  • Antonello Taurino

    Docente, attore, comico, formatore: in confronto a lui, Don Chisciotte è uno pratico. Nato a Lecce, laurea in Lettere e diploma in Conservatorio, nel 2005 si trasferisce a Milano. Consegue il Diploma di attore nel Master triennale SAT 2005-2008 del M° J. Alschitz e partecipa a Zelig dal 2003 al 2019. Si esibisce anche inglese all’estero con il suo spettacolo di Stand-up, Comedian. Attualmente è in tournèe con i suoi spettacoli (non tutti la stessa sera): Miles Gloriosus (2011), Trovata una Sega! (2014), La Scuola non serve a nulla (2016) e Sono bravo con la lingua (2020). La mattina si diverte ancora tanto ad insegnare alle Medie. Non prende mai gli ascensori.

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    L'abbiamo scoperto con l'EP "Somewhere only we go" e oggi a Volume abbiamo avuto modo di conoscere meglio la storia di questo cantautore nigeriano, che si è poi formato musicalmente in Ghana: "Nel corso degli anni le nostre musiche si sono fuse: l'highlife ghanese, il palm-wine, il folk di Kumasi, il suono contemporaneo della chitarra. Ho potuto unire questi due mondi, mescolandoli con le radio occidentali che ascoltavo da ragazzo". Il risultato è un folk pop pieno di anima e di profondità: "Il mio obiettivo non è solo una carriera internazionale, ma costruire qualcosa in Africa. Voglio creare una struttura che funzioni per artisti come me, gente con una chitarra o un tamburo, artisti contemporanei che non hanno modo di raggiungere il loro pubblico". Ascolta l'intervista di Niccolò Vecchia a Tommy WA.

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    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

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    Teatro. La rivoluzione delle "piscinine" milanesi vista da due piccioni in crisi esistenziale Al Teatro della Cooperativa, a Milano ha debuttato in prima nazionale "Lo sciopero delle bambine", in scena Rita Pelusio e Rossana Mola di PEM Habitat Teatrali, compagnia che porta avanti una ricerca artista che declina contenuti civili e ironia. Lo spettacolo, con la regia di Enrico Messina, racconta una storia avvenuta a Milano nel 1902, quando le “piscinine”, che in dialetto meneghino significa “piccoline”, bambine, tra i sei e i tredici anni, che lavoravano senza diritti, sfruttate e sottopagate, ebbero la forza di scioperare e, per cinque giorni, fermare l’industria della moda della città. A raccontare la vicenda delle piscinine in scena sono due piccioni, due creature che abitano le piazze, le cui parole rispecchiano lo sguardo dei contemporanei, spesso stanchi e disillusi davanti alle sfide della storia. Nella trasmissione Cult Ira Rubini ha intervistato l’attrice Rita Pelusio.

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