Appunti sulla mondialità

Come nel “civile” Canada, le certezze del passato sono lastricate di stragi

Le ideologie positiviste ottocentesche non prevedevano che un solo destino per l’intera Umanità: ripercorrere a tappe forzate l’evoluzione della cultura occidentale industriale. Questa visione totalizzante però, nei luoghi del resto del pianeta dove si erano verificati importanti flussi migratori dall’Europa e il modello occidentale aveva preso piede, si scontrava con le resistenze dei popoli indigeni o aborigeni che erano stati depredati delle loro terre e libertà. I luoghi dello scontro erano le grandi praterie e i grandi laghi nordamericani, la Pampa argentina e la Patagonia cilena, l’Australia e la Nuova Zelanda. Uno scontro che fu vinto dall’Occidente dal punto di vista militare, grazie alla superiorità tecnologica delle armi, al telegrafo e al treno, e soprattutto grazie all’infinita quantità di coloni e soldati che l’emigrazione europea forniva a ciclo continuo. In modi e con fortune diverse, i popoli nativi che vivevano nei luoghi strategici della globalizzazione del XIX secolo furono messi da parte, in alcuni casi addirittura scomparvero. La loro era una fine annunciata, almeno da quando la scienza dell’epoca aveva decretato che quei popoli non erano recuperabili al progresso, che non avrebbero mai potuto diventare bravi agricoltori né cambiare religione e lingua. Venivano definiti “fossili viventi”, relitti del passato ineluttabilmente destinati a scomparire nello scontro con la “civiltà”. Da qui discendevano le diverse teorie dell’epoca, sempre più in basso, fino a quella statunitense che diceva che l’unico indiano buono era quello morto e a quella argentina che considerava la ripugnanza l’unico sentimento possibile nei confronti degli indigeni. In questi due Paesi la guerra fu di sterminio.

In Australia e in Canada, invece, si scelse un altro approccio: quello di “ammazzare l’indiano nel bambino”. Sequestrare cioè i bambini, sottraendoli ai loro genitori amerindi o aborigeni per educarli in collegi, quasi sempre gestiti da religiosi, allo scopo di farli diventare “bianchi”, almeno nei costumi, nella lingua e nella fede. Fu uno dei genocidi culturali più articolati e duraturi di cui si abbia memoria. In Australia i sequestri iniziarono nel 1869 e finirono nel 1969, in Canada si cominciò nel 1863 per finire solo nel 1998. L’unica differenza tra i due Paesi è che in Canada finivano in collegio i bambini amerindi mentre in quelli australiani si rinchiudevano i figli di coppie miste, che così sarebbero cresciuti come il genitore bianco. Solo pochi popoli, come i Maori neozelandesi e i Mapuche cileni, riuscirono a superare, non senza traumi, la doppia sconfitta militare e culturale. I popoli originari non erano avversari degni di rispetto, ma selvaggi che andavano annientati o, nel migliore dei casi, ripuliti dalla loro cultura. Tutto era giustificato dalla pseudoscienza dell’epoca che classificava i popoli del mondo in modo gerarchico: in cima si trovava il cittadino di Londra, in fondo il cosiddetto “selvaggio” della Terra del Fuoco. Coloro che non erano in grado, o non volevano, salire lungo quella scala che portava alla “civiltà” potevano solo scomparire, per loro non c’era posto nel mondo del futuro. Questa visione determinista del positivismo influenzò sia il pensiero liberale sia quello marxista.

Oggi nei luoghi dove si consumarono questi orrori regna il politically correct, il dibattito politico è incentrato sui diritti civili, e le recenti scoperte di fosse comuni nei cortili dei collegi canadesi causano orrore. Sarebbe un grave errore, però, soffermarsi solo sugli aspetti tragici, cioè sulle stragi, e non ragionare sulle cause. Che, come sempre, furono ideologiche. In Canada come nella Germania hitleriana, a preparare il terreno agli esecutori furono quelle teorie, diffuse per troppo tempo, che spiegavano che c’erano uomini di serie A e di serie B. È il principio alla base di ogni razzismo, che immagina un mondo senza diversità. Una follia anche dal punto di vista scientifico, pari al terrapiattismo: eppure, anche se smentita dalla moderna genetica, quella teoria trova sempre terreno fertile per attecchire e infestare.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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    Niente autorizzazione per “la squadra di rugby del carcere di Livorno, il corso di scrittura nel carcere di Parma, una serie di attività di Ristretti orizzonti nel carcere di Padova…”, così Susanna Marietti coordinatrice nazionale di Antigone (e da 16 anni voce di Jailhouse Rock il lunedì sera su Radio Popolare) racconta i primi effetti del passaggio al Ministero delle richieste di attività trattamentali (laboratori, corsi, formazione) che prima erano nelle disponibilità delle direzioni degli istituti carcerari. Una scelta del Governo che sta ridisegnando il sistema carcerario: “Tassello per tassello si compie la visione di un carcere chiuso, è la stessa idea di carcere che troviamo nel reato di rivolta penitenziaria [che punisce anche le proteste nonviolente, N.d.R.]: stai zitto, obbedisci agli ordini e non rivendicare mai i tuoi diritti”. Nessuna funzione rieducativa. Ascolta l’intervista di Cinzia Poli e Claudio Jampaglia a Susanna Marietti.

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