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Repubblica democratica del Congo, la vita nelle miniere di cobalto

Still i rise - Congo - miniere di cobalto

Il sottosuolo della Repubblica Democratica del Congo nasconde la metà delle riserve di cobalto del mondo. L’oro blu, indispensabile per costruire le batterie elettriche, viene estratto principalmente nelle miniere del sud-est del paese, che rispondono da sole ai tre quarti della domanda mondiale. Molte di queste miniere sono meccanizzate, gestite da grandi gruppi internazionali, ma si stima che oltre 250.000 persone lavorino a mani nude, in condizioni terribili, nelle miniere artigianali sparpagliate nella regione. Tra di loro, moltissimi sono bambini e non è un caso che proprio qui si registri il più alto tasso di mortalità infantile del mondo: 1 bambino su 5 muore prima del compimento dei 5 anni. L’ONG italiana Still I Rise, che cerca di offrire istruzione e protezione ai minori profughi e vulnerabili, opera in Repubblica Democratica del Congo da alcuni anni. Vital Kasongo Kamungu, il Program Manager dell’ONG in Congo, ci racconta cosa vuol dire vivere qui:

Kolwezi è una città famosa per le sue risorse minerarie ed è la capitale mondiale del cobalto. Il sottosuolo è sfruttato su larga scala dalle industrie ma anche a piccola scala da quello che chiamiamo artigianato minerario, attraverso le miniere artigianali. È una città della Repubblica Democratica del Congo molto popolosa perché qui vengono in cerca di ricchezze sia gli stranieri che i congolesi. Il mondo intero è a Kolwezi: i cinesi, gli indiani, i libanesi, gli americani, gli europei… Tutti in cerca dell’oro blu chiamato cobalto. Si pensa spesso cha sia facile venire qui e fare i soldi ma non è vero. La vita qui è molto dura. Mentre parliamo, il dollaro aumenta continuamente e i prodotti di prima necessità sono carissimi. Il prezzo del cobalto sul mercato invece scende. Le persone quindi devono lavorare di più per trovare più chili da vendere e poter tornare a casa la sera con qualcosa da mangiare. Se non lavori abbastanza, la sera a casa tutta la famiglia ti punta gli occhi addosso e spesso i minatori finiscono per portare i familiari a lavorare con loro.

Cosa vuol dire lavorare nelle miniere, in particolare per i bambini?

Nelle miniere artigianali lavorano persone di culture diverse ma, che siano adulti o bambini, quando arrivano sul sito pensano solo al numero di chili di cobalto. Chi è nella laveria pensa ai chili di cobalto da lavare, e sono tanti se vogliono guadagnare qualcosa. Chi lavora nel trasporto sa che dovrà trasportare sempre più chili. Chi si occupa della selezione deve setacciare sempre più materiale. Per i bambini è davvero difficile perché sono praticamente ai lavori forzati. Una vita da forzato nelle miniere è una vita da vittima. A volte sono i genitori che li spingono a lavorare perché li considerano parte della loro squadra, perché se lavorano da soli guadagnano meno. Ma a Kolwezi ci sono anche molti bambini che non hanno i genitori e vivono per strada. Con tutta la povertà e la sofferenza che ci sono qui, a volte le famiglie si separano e i bambini ne pagano le conseguenze, finendo per essere sfruttati nelle miniere. Altri sono rimasti orfani di padre, morto in un pozzo. Il nuovo marito della madre li caccia di casa e l’unica opzione per loro è lavorare nei giacimenti. A prescindere dalla ragione, partono per lavorare la mattina prestissimo, per approfittare del fresco. Appena arrivati in miniera contattano i negozianti, spesso delle donne, che gli prestano dei soldi che loro dovranno rimborsare con quello che raccolgono. Quei soldi servono ai bambini per poter mangiare qualcosa e avere la forza di lavorare tutto il giorno ma di fatto si indebitano. Un piccolo secchio di farina di mais, che serve per fare il fufu, l’alimento base di queste parti, oggi costa circa 15000 franchi congolesi. Sono poco meno di 5 euro ma i bambini escono dalle miniere con meno di 2 euro ogni giorno. Quindi non possono nemmeno comprare un secchiello di farina. Lo vediamo chiaramente nei quartieri a che punto l’insicurezza alimentare, la fame, sta consumando le comunità. Anche chi lavora tutti i giorni nelle miniere ne esce perdente. Solo chi compra e negozia i prezzi del cobalto si arricchisce, sulla pelle degli altri.

Poche settimane fa in Repubblica Democratica del Congo ci sono state le elezioni presidenziali. Il presidente uscente, che è stato poi rieletto, Félix Tshisekedi, ha detto in campagna elettorale che tra le cose che è più fiero di aver fatto durante il suo mandato c’è l’aver implementato l’istruzione primaria obbligatoria. Una norma prevista dalla costituzione fin dal 2006 ma non applicata. Quindi, il governo congolese si interessa alla questione?

Ho le lacrime agli occhi quando ci penso. È inammissibile ingannare la gente così, senza vergogna. Prendiamo il quartiere di Kaki Fuluwe: per una comunità di oltre 80.000 persone abbiamo individuato una sola scuola, cattolica e convenzionata, recuperata dallo Stato e in cui sono state attivate 3 classi. Nel quartiere di Mutoshi, dove si trova la nostra scuola, non c’è nessuno stabilimento statale. C’è solo una scuola cattolica che accoglie una trentina di alunni. In tutta la provincia le scuole pubbliche si possono contare sulle dita delle mani. La verità è che in Congo ci sono quasi 100 milioni di abitanti e quasi 100 milioni di cervelli marci. I politici parlano ma nessuno pianifica o implementa le misure che servono. Abbiamo delle leggi raffinate, prese dai francesi, delle ottime leggi copiate dal resto del mondo, ma chi le applica realmente? Chi le fa applicare? I bambini hanno già sofferto abbastanza e queste sofferenze vengono inflitte proprio da chi dovrebbe averne la responsabilità. I genitori e lo Stato, che hanno fallito la loro missione. Ma la responsabilità maggiore ricade sullo Stato congolese, perché dovrebbe essere lui a fare in modo che la ricchezza venga redistribuita e offrire delle soluzioni ai problemi delle comunità. Oggi non è così. Quello che facciamo con Still I Rise dovrebbe essere un modello per il governo, perché aiutiamo efficacemente i bambini a recuperare il loro ritardo a livello scolastico ed è un modello che andrebbe replicato in tutta la Repubblica Democratica del Congo.

In Congo Still I Rise ha creato Pamoja, che in Swahili significa “insieme”. È una scuola detta di emergenza e di riabilitazione perché opera in un contesto emergenziale e precario ma, con un programma di due anni e un insegnamento d’eccellenza, punta a permettere a chi non è mai andato a scuola o ha interrotto gli studi di reintegrare il sistema pubblico. Come è nata l’idea e come l’avete resa possibile? Come avete convinto i bambini e le loro famiglie?

La scuola è nata in seguito a una ricerca del giugno 2021 nelle miniere artigianali di Nicolo Govoni e Giovanni Volpe, ispirata dal rapporto del 2016 di Amnesty International “Ecco cio’ per cui moriamo” sulle terribili condizioni di lavoro dei minori nei giacimenti di cobalto. Sin dall’inizio, abbiamo parlato con i minatori, che ci hanno confidato di non voler più vedere i bambini in miniera e che avrebbero voluto mandarli a scuola. La nostra struttura punta a ridurre il tasso di frequentazione delle miniere da parte dei bambini ma anche ad agire contro le violenze che i minori vulnerabili subiscono in un contesto di questo tipo. E la nostra missione principale è offrire un’educazione di alta qualità ai bambini delle mine artigianali, lavorando sia a livello locale che internazionale. Ad oggi abbiamo coinvolto 84 famiglie ma quello che facciamo ha un impatto sulla vita di almeno 680 persone.
Qui si parla molto del problema del lavoro minorile: ci sono altre ONG che si occupano della questione e alla radio si sentono anche diversi spot di sensibilizzazione rivolti ai genitori e alla comunità. Quando arriviamo sul posto, noi prima di tutto parliamo con i ragazzi, che mentre vanno verso la miniera vedono passare gli altri bambini che vanno invece verso la scuola, con le loro belle uniformi. Gli chiediamo cosa vorrebbero fare da grandi e se sono loro a dirci che vorrebbero andare a scuola gli chiediamo di accompagnarci dai loro tutori. A volte ci troviamo davanti a un genitore con un handicap, che contava sul lavoro del bambino e ha paura che potremmo portargli via la sua fonte di guadagno. Quindi Still I Rise ha pensato di compensare i tutori con un pacco alimentare a fine mese, per cercare di aiutare la famiglia con venti chili di farina, dell’olio, del pesce sotto sale, dei fagioli… è un piccolo aiuto per aiutarli ad andare avanti. Si può pensare che quello che fa Still I Rise sia una semplice goccia nell’oceano, ma suscita molta speranza nelle comunità. Quando ci presentiamo da una famiglia che non aveva i mezzi di scolarizzare i bambini e ora li vede uscire di casa per andare in classe, vediamo la speranza rinascere sui loro volti. Perché, anche fosse una sola goccia, una sola anima può salvare tutta l’umanità: se uno di questi bambini diventerà un giorno qualcuno, magari anche il presidente della Repubblica, potrà cambiare le cose. E vorremmo che quello che facciamo possa un giorno trasformarsi in una speranza collettiva.

FOTO| www.stillirisengo.org

  • Autore articolo
    Luisa Nannipieri
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