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La scuola non serve a nulla

CINQUE LENTI PER UN DOCUMENTO SFOCATO: ma lo sapete che a giugno 2025 sono uscite le “Nuovissime Indicazioni Nazionali”?

Stavolta, nel silenzio generale...

Com’è noto, a marzo 2025 sono state emanate dal MIM le “Nuove Indicazioni Nazionali per il curricolo – Scuola dell’infanzia e Scuole del Primo ciclo di istruzione”, che dovrebbero sostituire quelle del 2012. Sapete anche come queste “Indicazioni”, proprio a partire dal marzo scorso, sono state oggetto di massicce critiche, per vari motivi: innanzitutto per la forma (sghemba e impacciata, con refusi grafici e un periodare goffo: altro che il richiamo all’ “attenzione alla forma” della scrittura); per la concezione euro-italo-centrica della storia; per il “ritorno al passato” nelle metodologie didattiche; per l’elenco dettagliato di “conoscenze” e “obiettivi” che le rendevano di fatto nuovi programmi; per la nebulosità su “abilità, conoscenze e competenze”; per l’insistenza su “nazione” e “famiglia” (di un tipo solo, ovviamente); per la violenza di genere come “triste patologia” e non come questione culturale sistemica… In sostanza, per il loro essere “recinto, più che orizzonte” [1]. Da cui segue che, se persino nell’habitat generalmente sonnacchioso dei docenti italiani si è vista una tale mobilitazione (ben superiore alle aspettative), allora si può davvero concordare con chi ha definito il documento addirittura “inemendabile e irricevibile” [2], tanto è fuori fuoco. Ancor meglio ha riassunto chi ha usato la luciferina “severamaggiusta” formula “ciò che vi è di buono, non è nuovo; ciò che invece è nuovo, è pessimo” [3].

In teoria, quella di marzo era una bozza redatta per offrirla in consultazione, che il Ministero quindi forniva al mondo della scuola per riceverne un parere (anche lì: ridicolo che non si potesse, letteralmente, esprimere giudizi negativi; e comunque, con una finestra temporale molto ristretta… un po’ come chiedere a qualcuno: “Ti piace questo piatto che ti ho cucinato?” ma con la pistola puntata).

E appunto (anche se pare non lo sa nessuno), udite udite, nel mese di giugno 2025 sono uscite le nuove Nuove indicazioni”, cioè quelle che il Ministero avrebbe emendato e corretto secondo i suggerimenti (o meglio, i vibranti ruggiti di proteste) arrivati in merito a quelle di marzo. Spoiler: a furor di popolo, sono stati modificati alcuni – pochi – elementi estremi in quelle di marzo 2025, che si imponevano con piglio ben più incendiario nel loro ideologico ritorno al passato. Queste “Nuovissime Indicazioni” di giugno (più corte: 100 pagine invece di 150) limitano, ribadiamo, solo in parte quella furia antimodernista: un passo davvero troppo timido per salutarlo come positivo, considerato che l’impianto generale è confermato (si sottolineano, però, passi avanti sulla didattica laboratoriale in ambito scientifico). E tuttavia, come anticipavo, sorprende molto questo: se le “Indicazioni” di marzo hanno giustamente suscitato un vespaio, queste di giugno (che in teoria sarebbero anch’esse una bozza, trasmessa al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione per un parere, quindi ancora modificabili prima dell’entrata in vigore dal 2026-2027), sono passate via nel più preoccupante dei silenzi. E sarebbe il caso di parlarne, e ancor più di marzo, proprio perché queste ultime modifiche dimostrano che proteste veementi non possono essere totalmente ignorate: non è dunque trascurabile la loro capacità di influenzare scelte e indirizzi.

Io però volevo soffermarmi su una rilettura di queste ultime Nuove Indicazioni di giugno 2025 (d’ora in poi, citerò sempre e solo stralci da queste), alla luce di cinque aspetti, solo questi, quelli che mi interessano particolarmente e che conosco meglio. Di cui parlo da anni nei corsi che tengo, e su cui, quindi, provo a restare aggiornato al meglio che posso. Questi punti sono: la grammatica valenziale, l’intelligenza artificiale a scuola, la scrittura creativa, il “docente-attore” (il docente in quanto “consapevole performer della scena dell’apprendimento”), e la didattica della storia. Ho provato a usarli come lenti per guardare in maniera laica all’impianto generale del documento, senza pregiudizi ideologici.

 

Grammatica valenziale

Riguardo alla Grammatica Valenziale, si deve partire da come è intesa la Grammatica in generale nel testo. Ebbene, le nuovissime “Indicazioni” di giugno 2025 confermano l’approccio normativo alla grammatica già espresso a marzo: innanzitutto, con la centralità della “regola”, moloch supremo presentato come strumento per inculcare, sul piano linguistico, il senso di valori come il “limite” e “l’etica del rispetto”, magari per farlo così migrare anche altrove: “in virtù delle ‘regole’ (regole di comportamento, ma anche le regole di grammatica), l’allievo interiorizza il senso del limite e un’etica del rispetto verso il prossimo” (Premesse culturali, p. 8). La grammatica è quindi una struttura calata dall’alto, da apprendere piuttosto che ricostruire; tabula rasa perciò di alcune principi didattici, peraltro non recenti, che ispirati dai vari Rodari, Don Milani, De Mauro – dalle “Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica”), si stava provando faticosamente a diffondere nelle nostre scuole. Si agitano poi come “minacciosi spauracchi” fenomeni che non risultano essere mai stati reali pericoli nell’insegnamento grammaticale, cioè quelle “concezioni che esaltano un’idea di lingua come fenomeno spontaneo, sopravvalutando le varietà d’uso e la creatività del soggetto” (“Discipline, ITALIANO”, pag. 34: ma dove li avete visti tutti questi “piccoli Bergonzoni” nelle nostre aule? E soprattutto: quando mai li si è incitati?). La correttezza grammaticale e ortografica “deve essere presentata come una forma di rispetto per gli altri: dunque anche come un dovere sociale” (“Discipline, ITALIANO”, pag. 34): e certo, perché chi non riesce a esprimersi correttamente, lo fa apposta, per dispetto e intima misantropia, mica per altro.

Più nello specifico, tra le competenze “richieste” agli alunni in queste “Indicazioni”, compare la capacità di riconoscere la “gerarchia dei costituenti” della frase (“Discipline, Italiano”, p. 37), che è esattamente il campo di studio della grammatica valenziale: e però (una delle tante contraddizioni del testo), non viene citato il modello che meglio permetterebbe di indagarla: appunto, la Valenziale. Vero è che ci sarebbe un tanto straordinariamente innovativo – quanto ‘stonato’ – accenno alla pragmatica e alla “Teoria degli atti linguistici” di Austin, quando si citano le “funzioni illocutorie e perlocutorie” (“Secondaria di I grado”, p. 39); ma questa apertura non viene sviluppata: sembra buttata lì, per caso, senza nessuna ripresa. Quasi a far vedere solo che la si conosce, come quando al liceo citavi Nietzsche anche se parlavi di geografia.

Tirando le fila, si capisce bene come in questa concezione linguistica, ben lontana dall’idea di “riflessione sulla lingua”, per il laboratorio di grammatica valenziale (con il suo sperimentalismo, il suo approccio di scoperta “esperienziale” della regola e di induzione “bottom-up”), proprio non ci sarebbe spazio. E senza considerare che le “Indicazioni” di marzo 2025 avevano finalmente almeno nominato la Grammatica Valenziale: accenno scomparso nella versione di giugno.

 

Uso dell’Intelligenza artificiale nella didattica

Sull’Intelligenza Artificiale (IA) si riconosce, giustamente, che la scuola non può ignorare i tumultuosi mutamenti in atto: direi con buon senso, si afferma anche la necessità di sviluppare al riguardo il senso critico negli alunni: “… si sollevano questioni etiche profonde sulla natura umana e il suo futuro” (“Premesse culturali”, p. 9).

Vengono elencati usi concreti e ragionevolmente positivi: strumenti digitali che favoriscano esperienze di apprendimento “immersive e interattive” (“Organizzazione del curricolo di scuola”, pag. 24), che stimolino il senso critico “nella capacità di valutare la qualità delle risposte date dall’IA” (“CONOSCENZE in Letteratura per la Classe terza delle Scuola Secondaria di I° Grado”, pag. 40). Addirittura, che siano supporto alla valutazione, specie nelle discipline scientifiche (“Valutazione”, p. 24, “STEM”, p. 65;).

Ma lascia perplessi la leggerezza con cui, paradossalmente, si auspica l’uso dell’IA per l’inclusione e la personalizzazione della didattica non solo da parte del docente “per l’alunno” (“le tecnologie assistive basate sull’IA permettono agli studenti con disabilità o con DSA di meglio partecipare alle attività educative e didattiche, garantendo pari opportunità di apprendimento”, da “Premesse culturali alle Indicazioni Nazionali”, pag. 9), ma anche direttamente usate “dall’alunno” che ha questi bisogni. Tragiche, problematiche contraddizioni: mentre si auspica l’uso dell’IA per potenziare l’apprendimento, lo stesso Ministero emana circolari che vietano l’uso dei cellulari in classe, alla Secondaria di Primo Grado e ora pure a quelle di Secondo (anche a scopo didattico) perché considerate genericamente “troppo pericolose” (e se no, giustamente, perché a scuola dovremmo promuoverne un approccio critico?). E però queste tecnologie ritornano tollerabili quando giustificate dalla disabilità. Dunque: se sei fragile, puoi usare la pericolosa tecnologia con la sua Intelligenza Artificiale, ecc.; se non sei fragile, no, vade retro, non è per te… Una coerenza di visione che ricorda quella di Trump con i dazi, o quella di mia nonna con la cioccolata: “Fa male, ma se hai la tosse te la do”

 

Scrittura creativa

La questione della presunta “creatività”, specie nella scrittura, è uno dei più retorici e confusi dell’intero documento. La parola “creativo” è tanto onnipresente quanto priva di sostanza: si presume, cioè, che basti autorizzare docenti e alunni a “essere creativi” per ottenere risultati. Non sembra esserci nessuna consapevolezza negli scriventi che la creatività è quanto di più difficile e faticoso esista da attivare, esercitare, provocare, stimolare, insegnare (altrimenti saremmo tutti artisti, creativi, pubblicitari, scrittori…). Come i professionisti del settore sanno, si tratta di questioni su cui bisogna lavorare a volte per decenni; e invece nelle “Indicazioni” (ma attenzione: è stato sempre così) si continua a trattarla come qualcosa o che attiene, come talento innato, “alle persone fantasiose”, oppure come facoltà per liberar la quale basta dare dall’alto il permesso: “siate creativi”; al pari di “al mio segnale scatenate l’Inferno”. Un po’ come pensare che sia sufficiente ordinare a qualcuno “Corri i 100 metri in 9 secondi!” per trasformarlo in Usain Bolt, o urlare ai bambini denutriti del Tanganica “Mangiate!” per risolvere il problema della fame.

Eppure, nelle “COMPETENZE AL TERMINE DEL PRIMO CICLO DI ISTRUZIONE”, leggiamo, tra le tante, che l’alunno dovrebbe saper “creare, esprimere e interpretare concetti (…) Interagire adeguatamente e in modo creativo” (“Competenze europee”, pag. 13); “Dimostrare spirito di iniziativa, produrre idee e progetti creativi” (“Competenze europee”, pag. 14); “la naturale creatività è un’attitudine da difendere e coltivare” (“COMPETENZE ATTESE AL TERMINE DELLA CLASSE QUINTA”, pag. 35).

Ma chi ha mai fornito ai docenti corsi di creatività, o almeno di pensiero laterale, per sviluppare queste competenze da promuovere poi negli alunni? Nei percorsi di formazione dei docenti non sono quasi mai neanche contemplati accenni a attivazione creativa, pensiero divergente, problem posing, bisociazione, brain storming, pensiero laterale, content creating, enigmistica, giochi di parole… in altre parole, ci si limita ad esigere che i docenti insegnino qualcosa di cui nei loro percorsi di studio potrebbero non aver mai sentito parlare. Non mi stancherò mai di dirlo: come mai non si ragiona nella stessa maniera, per esempio, per ciò che riguarda le conoscenze pedagogiche di base? Perché invece in ambiti come questo qualcuno ha pensato che, per diventar docenti, fosse ragionevole che si passasse da percorsi formativi (universitari o no, con crediti formativi o meno, organizzati bene o male, ok… questo è un altro discorso) relativi a tali argomenti? Qui invece, macché: basta ripetere la parola ‘creatività’ come formula magica: che infatti, compare ben 9 volte nelle “Indicazioni Nazionali” del 2012, 26 volte in quelle di marzo 2025, e 27 in quelle di giugno 2025! L’aggettivo ‘creativo’ registra 27 occorrenze nelle Indicazioni del 2012, 59 in quelle del marzo 2025, e 33 in quelle del giugno 2025!!! Ripeto: in questo campo, nel 2025 non c’è nessun “peggioramento” rispetto al 2012; se non che, se questa parola è usata a sproposito e in modo così sproporzionato, potremmo propendere per la versione del 2012, più sobria accettabile: perché, più onestamente, almeno la cita meno.

Anche qui, altra contraddizione. Personalmente, apprezzo molto il riconoscimento dell’importanza del riassunto: non solo è esercizio che attiva varie e complesse competenze di trasformazione linguistica, ma è anche un ottimo allenamento formativo per una delle posture mentali più importanti e da affinare nella vita, cioè il saper scegliere, tra varie cose, quali tenere e quali no: “quali sono le più importanti”. Nelle “Premesse culturali alle Indicazioni Nazionali”, a pag. 10, si legge: “Di particolare rilevanza, nell’apprendere a scrivere, è l’esercizio del riassunto”, che “alleggerisce l’ansia da foglio bianco e spostando il carico cognitivo sulla riscrittura di un testo già esistente”. Ma come: perché mai il “foglio bianco” dovrebbe ingenerare “ansia”, se la spontanea produzione di “idee fantasiose e creative” è facoltà così facile da attivare, al punto che tutti (alunni e docenti compresi) possono farlo in ogni momento, senza bisogno alcuno di allenamento, studio, o formazione? Insomma, “creare” è difficile, o no? Mistero della fede educational, verrebbe da dire…

 

“Il docente-attore” (e “l’alunno-attore”)

Anche qui, stesse criticità del punto precedente. Sull’utilizzo “delle competenze attoriali dal teatro e dalla comicità a servizio della professione docente”, quelle che permettono al docente di “mettere in scena” l’apprendimento, la situazione – già critica nel 2012 – non migliora. E non c’è neanche un peggioramento, semplicemente perché nulla c’era prima; e nulla, ancora, c’è oggi. Provo a spiegarlo meglio nel dettaglio: nelle “Indicazioni” del giugno 2025 è tutto un promuovere “attività teatrali”, “performances”, “lettura espressiva”, “drammatizzazioni”, “attività cinematografiche”, “uso della voce”, “intonazione”, “interpretazione”… (“Conoscenze”, Italiano, classe quinta Primaria e terza Secondaria I° Grado, p. 37 e 39), ma manca qualunque riferimento a una formazione specifica per fornire al docente delle competenze attoriali anche minime, riguardanti l’uso della voce, il respiro, la presenza, la scrittura drammaturgica, la consapevolezza di movimento… Nulla.

Quindi suona quasi come una beffa quel “Teatro” che, linguisticamente, fa capolino tante volte, in varie accezioni: nelle “Premesse culturali”, per ragionare sull’identità dell’alunno da formare, si cita la “persona” (pag. 6), termine mutuato dal latino, proveniente dall’etrusco e ancor prima dal greco, col significato di “maschera teatrale”, “personaggio” (forse, lessicalmente, un autogol: “maschera vuota”, come nella favola di Esopo?); agli alunni è poi richiesto di “analizzare e interpretare rappresentazioni di vario tipo: teatrali, musicali, cinematografiche, artistiche” (“Obiettivi generali al termine della scuola secondaria di primo grado”, pag. 17). E perché no, “con il proprio corpo, i bambini imparano a giocare, a sperimentare linguaggi non verbali come la mimica, e linguaggi artistici come la musica e la coreutica” (in “Campo di esperienza”, Finalità, Scuola primaria, pag. 28). Sempre nelle “Premesse” si parla di “relazione” come dispositivo pedagogico primario nel rapporto tra docenti e alunni (e tra gli alunni); ma si ignora che niente come il Teatro è “arte della relazione”: si richiede che le relazioni siano corrette, ma la disciplina che aiuterebbe a renderle tali viene taciuta. E ancora: si parla di “alfabetizzazione emozionale, di empatia”… e cos’altro è l’empatia se non mettersi nei panni degli altri?

E tuttavia, il capolavoro viene dopo. Così, all’improvviso, “de botto, senza un senso”, si direbbe in Boris, a quattordicenni alla fine della vecchia Terza Media vengono richieste competenze che sarebbero quasi quelle “di base” in uscita da una scuola professionalizzante di Teatro, recitazione o doppiaggio: alunni e alunne dovrebbero “comprendere l’importanza della componente sonora del linguaggio (timbro, intonazione, accentazione, pause) e delle figure di suono nei testi poetici (rime, assonanze e consonanze, ritmo), e sapersi servire dell’una e delle altre nella produzione di testi creativi”; “Leggere ad alta voce in modo espressivo testi noti, adoperando l’intonazione e le pause in maniera tale da permettere a chi ascolta di capire” (“OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO AL TERMINE DELLA CLASSE TERZA”, Scuola Secondaria di I° Grado, pag. 37 e 39); “Parlare in pubblico è un’abilità che (…) è bene cominciare ad acquisire negli anni della formazione” (Classe terza, p. 40). Di nuovo: non è tanto che dalla Terza Media i nostri alunni dovrebbero uscire come un incrocio tra Carmelo Bene e Vittorio Gassman: è che non si capisce chi e come li dovrebbe formare…

Anche qui, significativa la statistica di questo auspicare una scuola “spettacolare” ma senza professionisti esperti: la parola ‘teatro’ compare 2 volte nelle “Indicazioni” del 2012, 8 nel marzo 2025, e 5 nel giugno 2025. L’aggettivo ‘teatrale’, 3 volte nelle “Indicazioni” del 2012, 7 nel marzo 2025, e 6 nel giugno 2025. Ribadiamo: se si ritiene doveroso formare il docente, per esempio, nelle conoscenze di legislazione scolastica, non si capisce perché, per le competenze teatrali, invece, tutto può restare nella più totale superficialità, limitandosi a citarle nei contenuti proposti agli alunni senza che si dica come le si dovrebbe trasmettere ai docenti. Anche qui, a quel punto, visto che il teatro è citato sempre ad mentula canis, preferibile quella versione delle “Indicazioni” (2012) che lo nomina di meno.

Che a volerla dire tutta, le “Indicazioni” non fanno che riproporre una concezione “sprofessionalizzante” del mestiere dell’attore diffusissima nel paese (“Ah, fai l’attore? Sì, ma di lavoro?”), in cui si ignora totalmente la complessità, l’arte, il mestiere, la perizia, l’infinità di tecniche: come fossero “dei giochetti che tutti possono proporre o improvvisare”. Nessun passo avanti nemmeno rispetto alla legge n. 107 “Buona Scuola” (art. 1, cc 180-181), che proponeva di intensificare il rapporto tra scuola e teatro, affidandone l’insegnamento in via esclusiva a formatori esperti, per far perdere così il carattere “facoltativo ed episodico” a questa attività (“Con l’introduzione del nuovo dettato normativo, l’attività teatrale abbandona definitivamente il carattere di offerta extracurricolare aggiuntiva e si eleva a scelta didattica complementare”); o a quanto indicato nelle “Indicazioni strategiche per l’utilizzo didattico delle attività teatrali“,  del 16 marzo 2016, in cui si promuoveva “l’esercizio di pratiche connesse alle forme teatrali, mediante il potenziamento della formazione nel settore delle arti delle scuole di ogni ordine e grado (…), nonché la realizzazione di un sistema formativo della professionalità degli educatori e dei docenti”

 

Insegnamento della Storia

Ed ecco la parte più discussa delle “Nuove Indicazioni”. Se già nella versione di marzo il tono euro-italocentrico aveva suscitato indignazione, qui si conferma la visione dell’Occidente come unica culla della coscienza storica, chiaro soprattutto dall’infelice scelta di riproporre come Incipit la famigerata citazione, del tutto decontestualizzata, di Bloch: “Solo l’Occidente conosce la Storia (…). Ciò non vuol dire assolutamente che altre società e culture non abbiano avuto una storia e i modi per raccontarla. Vuol dire, come ci ricorda Claude Lévi-Strauss, che «Non soltanto noi riconosciamo l’esistenza della storia, ma le dedichiamo un culto, perché la Storia consiste nel pensare i fatti” (“Discipline, Storia, “Perché si studia la Storia”, pag. 53).

Confermato anche un passaggio che nella versione di marzo non aveva (stranamente, secondo me) suscitato grandi clamori: “È attraverso questa disposizione d’animo e gli strumenti d’indagine da essa prodotti che la cultura occidentale è stata in grado di farsi innanzi tutto intellettualmente padrona del mondo” (p. 53). Una storia in Occidente come culto, “tribunale morale” e biblioteca di valori da consultare per le battaglie politiche di oggi, certo; e però, anche strumento di dominio. Non solo di comprensione, ma anche di sopraffazione. Ma allora, se è proprio in virtù di questa visione della Storia, che noi europei saremmo andati a impossessarci del resto del mondo… non sarebbe il caso di rigettarla, invece che di rivendicarla orgogliosamente come prerogativa?

Sulla didattica, poco cambia. Si scoraggia lo studio diretto delle fonti e si esalta il valore della narrazione: “Anziché mirare all’obiettivo, del tutto irrealistico, di formare ragazzi (o perfino bambini!) capaci di leggere e interpretare le fonti, è consigliabile un insegnamento/apprendimento della storia che metta al centro la sua dimensione narrativa in quanto racconto delle vicende umane nel tempo. La dimensione narrativa della storia è di per sé affascinante e tale deve restare” (“Discipline, Storia, “Perché si studia la Storia”, pag. 55).

Sullo studio delle fonti, si tratta di un’incomprensibile restaurazione: da rigettare decisamente, visti gli indubbi risultati di queste metodologie “attive”; semplicemente, basta capirsi e limitarle, chiarendo cioè che non si può, ragionevolmente, adottarle per tutti gli argomenti. Sulla narrazione, invece, sono personalmente d’accordo: la storia credo vada essenzialmente raccontata. Ma a patto che si proponga “un’affabulazione” coinvolgente e affascinate: e allora dipende dalla singolarità dell’insegnante, da capacità che rimandano di nuovo alla sua dimensione performative di “docente attore” (vedi punto precedente). Evidentemente, chi ha redatto il documento dà per scontato che tali abilità di intrattenimento siano connaturate allo spirito di tutti gli insegnanti, tutti novelli Fiorello Barbero Schettini… Siamo sempre lì: “tutto si terrebbe”, potremmo dire…

Contenutisticamente, le “Indicazioni” insistono ancora su una discutibile operazione di costruzione identitaria addirittura già alla Primaria: vicende legate al Risorgimento, alla Resistenza e al mito fondativo nazionale: “Il racconto in breve della nascita dell’Italia: da molti Stati regionali ad una nazione libera e indipendente, Mameli e l’inno nazionale (spiegazione del contenuto), poesie e canti del Risorgimento. Racconti ricavati dalle vicende del Risorgimento e della Resistenza a scelta degli insegnanti” (“Conoscenze, Scuola Primaria”, pag. 56).

E poi, la perla finale: negli “Obiettivi specifici di apprendimento al termine della classe terza, Scuola secondaria di I° grado”, Pag. 58), le rivoluzioni citate sono solo quella americana e francese: la rivoluzione russa non trova spazio. Il comunismo, invece, è nominato solo come elemento che ha contribuito alla disgregazione dell’Europa liberale: “La pace di Versailles e la disintegrazione dell’Europa liberale: comunismo, fascismo, nazismo” (p. 58). Scelta selettiva e ideologica, visto che a nessun nazifascista si è mai messo a scrivere una Costituzione democratica…

 

Conclusioni

Le nuove “Indicazioni” del giugno 2025 tentano di ammorbidire i toni incendiari del testo di marzo, ma non modificano l’impianto ideologico. Emergono evidenti contraddizioni tra principi dichiarati e pratiche suggerite. Alcune aperture (IA, narrazione storica, attenzione alle emozioni) non vengono sostenute da strumenti adeguati, né da un programma di formazione per i docenti. La creatività è evocata come formula magica, il teatro come folklore educativo, la storia come nostalgia identitaria. E per migliorare la scuola non servono slogan, ma progetti seri e coerenti, radicati nella realtà della classe e nella competenza degli insegnanti. E soprattutto, tante, tante risorse.

 

[1] https://www.odysseo.it/le-indicazioni-nazionali-2025-e-il-parere-del-cspi/

[2] https://laricerca.loescher.it/nuove-indicazioni-2025-infanzia-e-primo-ciclo-5/ 

[3] https://www.lepocaculturale.it/2025/03/28/credere-obbedire-insegnare-17-voci-critiche-sulle-nuove-indicazioni-scolastiche/?utm_source=chatgpt.com

 

 

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  • Antonello Taurino

    Docente, attore, comico, formatore: in confronto a lui, Don Chisciotte è uno pratico. Nato a Lecce, laurea in Lettere e diploma in Conservatorio, nel 2005 si trasferisce a Milano. Consegue il Diploma di attore nel Master triennale SAT 2005-2008 del M° J. Alschitz e partecipa a Zelig dal 2003 al 2019. Si esibisce anche inglese all’estero con il suo spettacolo di Stand-up, Comedian. Attualmente è in tournèe con i suoi spettacoli (non tutti la stessa sera): Miles Gloriosus (2011), Trovata una Sega! (2014), La Scuola non serve a nulla (2016) e Sono bravo con la lingua (2020). La mattina si diverte ancora tanto ad insegnare alle Medie. Non prende mai gli ascensori.

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La scuola non serve a nulla

COSA C’ENTRA ALVARO VITALI CON DON LORENZO MILANI

Forse pochi sanno che... -di Antonello Taurino

COSA C’ENTRA ALVARO VITALI CON DON MILANI

Non ho mai capito come mai, guardando i film di Pierino, nessuno di noi piccoli spettatori si fosse mai posto il problema che in quella classe ci fosse un quarantenne in mezzo a dei ragazzini. Ma proprio quarantenne quarantenne, uno con la faccia di chi paga il mutuo da vent’anni e si preoccupa del colesterolo. Va bene, sospensione dell’incredulità, come dicono quelli bravi; ma non è di questo che voglio parlare, ricordando Alvaro Vitali.

Credo che ai film di Pierino si possa far risalire l’origine di uno dei più simpatici fraintendimenti letterario-pedagogici dell’Italia postunitaria (ne ho appurato la massiccia diffusione!), che a volte uso per sgamare simpaticamente chi ha letto davvero, o dice solo di aver letto, “Lettera a una professoressa” di Don Lorenzo Milani.

Lo sapete, in quel testo vengono citati due alunni-simbolo: Pierino e Gianni. E qui casca l’asino.

Ora, per don Milani, Gianni è l’alunno contadino, il figlio dei poveri, il malato che la scuola classista scaccia come un cagnaccio pulcioso e che conosce solo “cento parole”; mentre Pierino… ah, Pierino! Lui è il diligente figlio del dottore, l’educatissimo rampollo dei padroni, il prodotto della grande borghesia, insomma “il ricco”, che con le sue “mille parole”, della scuola quasi non avrebbe bisogno.

Per Gianni c’è il lavoro nei campi, la necessità di imparare a ribellarsi e il dovere di fornirgli gli strumenti per farlo. Per Pierino, invece, c’è la strada spianata fatta di liceo Classico, Università, e poltrona dirigenziale. Qualcosa che, diciamocelo, sa tanto di autobiografico, visto che lo stesso Don Lorenzo, prima di farsi prete, proveniva da una famiglia borghese. Ma era un Pierino che aveva visto la luce; o forse che (coincidenza, esattamente come Alvaro Vitali!), “si era rotto le scatole di fare Pierino”.

Credo che proprio ai film di Pierino/Alvaro Vitali si possa imputare il corto circuito semantico per cui chi non conosce precisamente la “Lettera…” scambi ovviamente i ruoli; chè nei film di Vitali, Pierino è la peste per antonomasia, il discolo che ti riempie la cartella di rane e dice le zozzerie alla maestra… mentre Gianni fa tanto non solo Agnelli, ma pure il “Gianniiiino!!!” borghesuccio milanese che viene a scuola con l’autista… (e in un paio di quei film, il bambino educato con la riga in mezzo si chiama proprio “Gianni”!). Insomma, tutto al contrario. Per questo mi diverto molto a usare la coincidenza come Detector Test, sadico e infallibile, per individuare i pedagogisti da aperitivo.

Ma mi piace pensare che Alvaro Vitali sia idealmente quasi riuscito in quell’impresa titanica, sovvertendo retroattivamente l’ordine sociopedagogico nazionale, che è la stessa in cui il sistema scolastico nazionale sta, forse, ancora fallendo: confondere due archetipi opposti di classe sociale, nell’utopica promessa di pareggiarne le opportunità di partenza.

E tutto questo… grazie a un quarantenne, con già i suoi problemi di prostata, come alunno delle elementari! Così vecchio che non potevi neanche giustificartela con “Discolo com’era, chissà quante volte l’hanno bocciato”.

Ciao Alvaro, ci hai fatto ridere tanto. I buchi delle tue serrature erano le stimmate simboliche del nostro orizzonte formativo; le tue barzellette, riti narrativi ancestrali per le nostre pulsioni più infantili; le tue smorfie, puntello recitativo tra una scorreggia e un lazzo, col fischio o senza.

Ciao Alvaro. Che la terra ti sia leggera come i tuoi film, e le serrature delle porte sempre senza chiavi.

Ciao Alvaro. Da questa sera, e per dieci notti consecutive, i coprisedile dei cessi di Chicago saranno a mezz’asta.
E anche quelli di Milano, per non far torto a nessun Gianniiiiino.

 

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La “Giornata Internazionale degli Insegnanti” e alcune attività di inizio anno…

Cose che faccio in classe mentre dal Ministero arrivano deliri

Cari colleghi martiri dell’Istruzione, bentornati: anche quest’anno, dopo quel dolce mese e mezzo in cui noi insegnanti riscopriamo il piacere della vita per poi vederlo dissolversi al suono della prima campanella, ecco che, freschi come una mozzarella scordata al sole, tempo un altro mesetto e puntuale vediamo arrivare pure il 5 ottobre, “La Giornata Internazionale degli Insegnanti”. Un appuntamento immancabile come le zanzare a Ferragosto o l’herpes labiale prima di un appuntamento galante, ma anche un’occasione per riflettere seriamente in che stato siamo, come categoria, e dove sta andando la nostra professione.

Quest’anno, tra le meraviglie della scuola italiana, spiccano varie perle. Innanzitutto, l’algoritmo criminale che scippa cattedre ai precari storici: un capolavoro di sadismo digitale, un incomprensibile Tetris giocato sulle vite degli insegnanti contro cui giustamente veementi sono le proteste per una situazione non ancora risolta. Poi la proposta di legge di eliminare dalle scuole una roba che non esiste, cioè la fantomatica “Teoria Gender”, di modo che, a furia di richiami, qualcuno mosso a compassione possa prendersi la briga di inventarla davvero, finalmente. Segue la circolare col divieto di usare il cellulare in classe, un’insulsa condanna alla vita preistorica degli studenti; che fa pendant, nel Festival dell’Irrazionale che è ormai il nostro Ministero, con l’avvio in alcune scuole italiane della sperimentazione per l’uso didattico dell’Intelligenza Artificiale. E ancora, il nuovo voto in condotta, che, sommato al ritorno ai giudizi sintetici nella Primaria, è il nostro personalissimo biglietto di sola andata per la scuola degli anni ’50, ma senza l’unica cosa buona che quella scuola aveva: il suo essere davvero “ascensore sociale”. Insomma, perché costringere gli studenti a vivere nel XXI secolo, quando possiamo catapultarli direttamente nel Medioevo? Magari prossimamente si proverà a reintrodurre la scrittura cuneiforme su tavolette d’argilla… ma se tutto ciò fosse nient’altro che una gigantesca e sibillina proposta per un “compito di realtà” in Storia (e ancora non l’avessimo capito), vi prego: anche meno, che la cosa vi ha preso un po’ troppo la mano…

Dulcis in fundo, per non farci mancare nulla, la proposta dell’ultima ora è quella – non è una barzelletta – di adottare alla Primaria il libro “Perché l’Italia è di Destra”, di Italo Bocchino. Il titolo è di quelli che ti spingono a far bagagli e trasferirti su Marte; per l’autore, poi… ma che Rodari, Andersen o Saint-Exupery: “Bocchino per tutti”, e bona lì.

Ma non siamo qui per raccontare tragedie, o almeno non solo. Volevo più che altro parlarvi di un paio di mie personali pratiche didattiche di inizio anno, giusto per cercare di non trasformare il fegato in polvere da sparo visto quello che ci arriva dall’alto, che la follia può essere un’eccellente strategia di sopravvivenza a tutto ciò.

La prima attività, una specie di “Hunger Games” emotivo alla Stephen King, prevede il mio ingresso in classe, nei primi giorni dell’anno, con un sorriso inquietante da Joker e la successiva distribuzione di biglietti sui quali chiedo agli alunni di scrivere anonimamente – ma è un anonimato che dura quanto una dieta a Natale – i loro desideri più segreti, le paure più angoscianti, le speranze più luminose in vista del nuovo anno scolastico. In pratica, una specie di “Caro Diario”, ma senza il lucchetto e con più suspense. In contemporanea, io stesso, con la mia calligrafia da referto medico post sbornia e durante un terremoto, scrivo su un foglio “Come vorrei che fosse quest’anno scolastico”: diventa il sigillo di una scatola in cui raccolgo i bigliettini scritti dai ragazzi passando tra i banchi come un monaco questuante.

Poi quella scatola, saldata col foglio della vergogna e lo scotch del mistero, la si lascia lì per tutto l’anno appollaiata su un armadio della classe, quasi un gufo giudicante a fissar gli alunni, mentre raccoglie polvere e un po’ dei loro sensi di colpa, a metà tra l’incombenza di un’urna cineraria e la goffa tenerezza d’un innocuo cucù abbandonato.

L’ultimo giorno di scuola la scatola verrà aperta, come l’armadio di Narnia, e i bigliettini verranno letti: ma al posto di leoni e streghe ci troveremo davanti aspettative schiacciate, sogni infranti e i segreti più reconditi degli alunni, e lì si giocherà di bilancino tra aspettative e realtà. Se l’alunno riterrà di svelarsi alla classe come autore del bigliettino appena letto, bene. Se no, ancora meglio: eviteremo scena da telenovelas brasiliana.

Chiaro che dovrebbero scrivere cose attinenti alla scuola, o frasi simil Perugina tipo “spero che mi trovo bene coi compagni” e bla bla, ma nel corso degli anni sono venute fuori cose da sceneggiatore di Netflix: una ragazzina mogia mogia in una scuola in provincia di tanti anni fa, che sperava nella guarigione della madre (era in terapia per cure complicate… spoiler uno: a fine anno tutto bene, quindi lieto fine); l’alunno con ambizioni olimpiche che sognava per il marzo successivo di vincere i campionati nazionali juniores di non so più cosa (spoiler due: ricordo però che li vinse, quindi applausi); e poco tempo fa, lo strazio d’uno studentello X che manifestò quanto avrebbe gradito fidanzarsi con la compagnuccia Y, durante quell’anno, per una sorta di pubblico “Ti vuoi mettere con me: SÌ / NO” (ma pare che lei lo abbia subito friendzonato in una solitudine che ancora rimbomba nei corridoi, non solo quell’anno ma pure gli altri successivi due di Medie).

La seconda attività è un po’ più creativa. Chiedo ai miei alunni di inventare verbi. Sì, avete capito bene: verbi nuovi di zecca, freschi di fabbrica, neologismi, con tanto di significante e significato, la parola e il senso. Poi, li faccio coniugare come fossero verbi regolari (tanto devono imparare le desinenze, non le radici… tanto vale…). Quest’anno, con i miei alunni, sono saltati fuori verbi tipo pandare (“affezionarsi a una specie in via d’estinzione”, per esempio i prof. con contratto a tempo indeterminato), rigere (“grattare le unghie lunghe contro la lavagna”, cioè il suono dell’Apocalisse), faccere (“guardare dall’alto al basso in modo giudicante”, l’espressione base di ogni docente il lunedì mattina), crogare (“cercare parole sul dizionario per vedere se esistono”), furchire (“fare tanti assaggi di gelato prima di scegliere il gusto), e tardicchiare (“mordere in continuazione Il tappo della penna”). Ma tra i miei preferiti, anche lostincere (“dire sì o no con la testa”, perfetto per il Collegio Docenti), franceloquire (“parlare con gli animali”, che è ciò che faceva il poverello di Assisi ma può tornar utile anche in certe classi di quindicenni), eremare (“isolarsi”, ideale per certi prof. durante gli scrutini), zugrinare (“portare fuori il cane quando piove”, uno sport estremo, in pratica) e barmire (cioè “trovare un senso a verbi inventati per un compito di italiano”). Sì, roba da scrittore di fantascienza che ha esagerato col metadone, ma questi verbi poi li coniughiamo: partendo dal primo, presente indicativo, “io pando, tu pandi, egli…” ecc.

Ecco, mi pare la degna conclusione per augurarvi buona “Giornata Internazionale degli insegnanti” e buon anno scolastico. Meglio inventare verbi assurdi che prendere l’ulcera pensando a quel che succede nei piani alti.

E se tutto va male, ricordate: c’è sempre la possibilità di una carriera come scrittori di dizionari surreali…

 

Che ne pensate? Per qualunque cosa vogliate dirmi riguardo ai miei articoli su questo Blog, dagli apprezzamenti, ai consigli, alle critiche fino agli insulti (questi ultimi però purché formulati rigorosamente in lingue antiche), scrivete a: antonellotaurino1@gmail.com .

  • Antonello Taurino

    Docente, attore, comico, formatore: in confronto a lui, Don Chisciotte è uno pratico. Nato a Lecce, laurea in Lettere e diploma in Conservatorio, nel 2005 si trasferisce a Milano. Consegue il Diploma di attore nel Master triennale SAT 2005-2008 del M° J. Alschitz e partecipa a Zelig dal 2003 al 2019. Si esibisce anche inglese all’estero con il suo spettacolo di Stand-up, Comedian. Attualmente è in tournèe con i suoi spettacoli (non tutti la stessa sera): Miles Gloriosus (2011), Trovata una Sega! (2014), La Scuola non serve a nulla (2016) e Sono bravo con la lingua (2020). La mattina si diverte ancora tanto ad insegnare alle Medie. Non prende mai gli ascensori.

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Tra Buddha e Jimi Hendrix

Di viaggi, monasteri buddhisti sul Lago Maggiore e lama dal cuore grande

Albagnano, frazione di Bee, provincia di Verbania. Sono quasi le otto di sera. Piena estate. Dietro di me la fitta vegetazione e i monti. Davanti, giù a valle, il Lago Maggiore. Sulla destra, in fondo a un vialetto protetto da una fila di statue del Buddha che spuntano da cespugli fioriti un particolare impossibile da ignorare: un tempio buddista tibetano. Ha la porta dorata e tutta l’intensità tipica di quegli incredibili colori giallo ocra e rosso scuro. Avete presente “Sette anni in Tibet?”. 
Lo gestisce Lama Michel Rimpoche, un lama brasiliano quarantatreenne dal cuore profondo. Il centro si chiama Lana Gangchen Meditation Center, ed è dedicato a Lama Gangchen, un monaco tibetano che è stato maestro di Lama Michel e pare abbia fatto un gran bene da queste parti. Alla sua stupa ho visto gente prostrarsi commossa come di fronte a un amico e a un maestro al quale si vuole un sacco bene.
C’è una strana energia qui intorno, e poi sembra davvero di essere in Tibet. Da uscirne pazzi, lo so. Eppure è tutto vero. Sto cenando, minestrone di verdure, humus di ceci e riso. La gente parla sottovoce, vedo pochissimi telefonini e nessuno che squilla. È difficile capire chi lavori al centro, chi sia un volontario e chi un semplice ospite. Sono tutti mescolati e non ci sono divise a delineare contorni e tracciare identità. Anche gli idiomi sono tanti e mescolati. Ci sono inglesi, spagnoli, brasiliani ma scorgo anche qualche tibetano.
Dopo cena, passeggio per il centro, e con il buio tutto qua intorno paradossalmente si fa ancora più luminoso, suggestivo, affascinante.
Marcantonio, quasi per tutti Toni, arriva verso le 10, quando sono già in stanza. È una settimana che siamo in giro insieme per registrare le interviste del documentario. 65 anni, una vaga somiglianza all’attore Robert Downey Junior, Toni è un apprezzato regista teatrale che, di malavoglia, ogni tanto si è prestato alla televisione. Nel suo curriculum ci sono alcune puntate di “La Squadra”, “Un Posto al Sole” e “Vivere”. Altro dettaglio divertente di Toni è che in teoria sarebbe un nobile, sua mamma è una Cesarini Sforza, ma lui ha rinunciato al titolo quando, negli anni Settanta, ha deciso di scegliere il marxismo e la sinistra extraparlamentare.
Distrutti da giorni e giorni a destra e sinistra, sveniamo ciascuno nel proprio letto, pronti alla meditazione di domani mattina con Lama Michel. Inizio previsto alle sette in punto.

Se fuori il tempio appare affascinante, dentro è addirittura incredibile; c’è tutta una storia dietro le statue del Buddha colorate e le varie raffigurazioni sul muro, una storia che riguarda i cinque elementi o qualcosa del genere, ma faccio una gran fatica a capirli tutti, nonostante Gabriella me le spieghi con tutta la cura e l’attenzione possibile.
Siciliana ma nata a Torino, conosce Lama Michel da quasi trent’anni, da quando era un piccolo e promettente discepolo di Lama Gangchen. All’epoca Gabriella stava attraversando un periodo di confusione, aveva vent’anni e la mente inquieta. Decise di partire e tirò una moneta. Testa Messico, croce India. Uscí croce e la sua vita cambiò. In Nepal incontrò Lama Gangchen e capí che aveva trovato il suo maestro. Qualche tempo dopo conobbe anche questo ragazzino prodigio con la mente limpida come un torrente di montagna. Era Lama Michel. 
Mi perdo nei racconti di Gabriella mentre camminiamo lungo un sentiero stretto, protetto da una lunga fila di ortensie fino allo stupa dedicato a Lama Gangchen. Lí riposano le sue membra mortali, insieme ad alcune reliquie tipiche della tradizione. Il tutto nell’attesa che lo stato italiano autorizzi la cremazione nello stile tibetano, come consueto per un lama di tale lignaggio.
Giriamo un paio di scene vicino allo stupa, mentre il sole caldo inizia a farsi sentire ripenso alla meditazione di stamattina col Lama. È stato qualcosa di diverso dal solito, che ha coinvolto vari aspetti, dal controllo della respirazione ai mantra, fino all’esecuzione di alcune mudra. Quella che si fa qui non è solo una sessione di meditazione ma anche un processo guidato di vera e propria autoguarigione, un aspetto pregnante dell’opera di Lama Ganghen, che oggi Lama Michel porta avanti con attenzione.
L’intervista con lui è fissata subito dopo pranzo. Saluto Gabriella, finisco di registrare le mie parti video con Toni e poi mi perdo a visitare il centro. È incredibile come da un agriturismo in disuso e tanti ettari incolti, in pochi anni sia nato tutto questo. Ci sono diverse stanze per gli ospiti, una sala ristorante, un bar, un centro per i trattamenti di guarigione, uno shop con i libri dei vari Lama e diversi oggetti di arte tibetana. Compro un piccolo porta candele a forma di loto, alcune immagini sacre, tra cui l’ipnotica Tara Verde, e “Il mio nome è Gindala”, il memoir di Franco Ceccarelli sulla sua vita al fianco di Lama Gangchen. Mi bastano cinque righe lette di corsa in piedi per capire che quel libro mi lascerà qualcosa.
Dopo pranzo, alla reception incontro Cinzia, che è stato il mio primo gancio con il centro. Fu lei, qualche anno fa, a chiamarmi dopo che avevo mandato una copia del mio “Intervista col Buddha” a Lama Michel. E da lì si aprí il contatto che oggi ci ha portato qui.
Sono venuto a contatto con il messaggio di LM all’inizio del 2019, imbattendomi in uno dei suoi illuminanti video su internet. Da allora è diventato una presenza costante nella mia vita: le notti trascorse nel mio letto ad ascoltare in cuffia i suoi discorsi mentre moglie e bimbi dormono si sono trasformate in una piacevolissima consuetudine.
Durante il 2020, quello che con forse un eccesso di melodramma definisco “il mio anno nero”, Lama Michel è diventato addirittura salvifico per il sottoscritto. Nell’arco di pochi mesi ho perso mio fratello, si sono ammalati prima papá e poi mamma, ed è esplosa la pandemia. Ben ricordo quella maledetta notte in cui credetti di impazzire. Mi trovavo a Milano per una serie di incontri quando in mattinata ricevetti quella telefonata. Era il primario che aveva in cura mio fratello Fabrizio. Aveva appena visto la tac e mi informava che quella maledetta massa che gli aveva intasato la gola non era operabile e a Fabrizio restavano da due a sei mesi di vita. Fu un bello schiaffo, che però non metabolizzai subito ma diverse ore più tardi, in albergo. Una sensazione orribile che difficilmente scorderò. La mente assalita da centinaia di pensieri negativi. L’agitazione che cresceva secondo dopo secondo. Un senso di pericolo tutto intorno che si mangiava l’aria. Una sensazione di profonda inquietudine non mi faceva trovare pace qualsiasi cosa facessi. Non stavo bene a letto. Non stavo bene in piedi. Non funzionava distrarsi con un libro, il tablet, la TV. Non servirono nè la meditazione nè un ansiolitico che miracolosamente trovai nella borsa. Mi sembrava di impazzire. Con un frullatore impazzito al posto del cervello mi vestii di corsa, deciso a lasciare l’hotel e saltare gli incontri del giorno dopo. Volevo solo tornare da Daria e i bambini. Volevo solo perdermi in loro. Tornare a casa. Ma anche mettermi in macchina, di notte, nella fastidiosa nebbia di Milano, mi metteva addosso una grande ansia. A Genova non c’erano solo mia moglie e i miei figli. C’erano anche i miei genitori malati. C’era papá che lentamente se ne stava andando. C’era mamma assalita da quella maledizione chiamata Alzheimer. Ma soprattutto c’era Fabrizio. Cosa dovevo dirgli? E con quali parole? Ed ecco il frullatore vorticare con pensieri sempre più veloci. Preda della tachicardia mi misi un momento sul letto, aprii you tube alla ricerca di un po’ di musica rilassante, e fu in quel momento che la cronologia mi ricordó di Lama Michel. Cliccai su un suo video e tentai di ascoltare. Il lama parlava di accettare il cambiamento, l’impermanenza che è insita nella più profonda natura della realtà. Niente rimane uguale a se stesso, tutto cambia, e va accettato. Fu un bel discorso il suo, anche se non ricordo bene gran parte di quello che disse. Quello che invece ben ricordo è che mi calmò, mi calmò così tanto che riuscii ad addormentarmi.
Quelle quattro cinque ore di sonno mi salvarono. L’indomani onorai gli incontri previsti e tornai a Genova col cuore pesante ma una rinnovata forza nel dare supporto a Fabrizio in quelli che sarebbero stati i suoi ultimi mesi di vita.
E lo feci, prima con lui e subito dopo con papá.
Quando incontro Lama Michel e gli racconto questa storia mentre ci stiamo avviando di buon passo verso il tempio per le riprese, lui mi dice solo: “Vieni qui”. E poi mi abbraccia. Ecco, per tutta la vita ho letto che certi esseri umani illuminati o quantomeno speciali, quando ti abbracciano riescono a scioglierti qualcosa dentro. A me non è mai capitato, anzi il mio scettico interiore ha sempre dubitato di certe doti. Eppure quando Lama Michel mi abbraccia, stringendomi forte al suo petto, sento qualcosa di intenso e bellissimo montarmi dentro, come venissi invaso da un’energia profonda e ben canalizzata. Se l’abbraccio fosse durato ancora qualche secondo sarei scoppiato a piangere, come se si stesse sciogliendo qualcosa.
Un’altra esperienza incredibile di questo strano viaggio chiamato vita.
La seconda cosa che mi colpisce di Lama Michel è la sua velocità di ragionamento. L’intervista è lunga, articolata, si parte dagli Otto Nobili Sentieri del Buddha – che scopro essere più di 30 nella tradizione tibetana – per poi arrivare al concetto di rinascita, di karma fino a lambire la sua storia personale. Ecco, qualsiasi domanda tiro fuori lui socchiude gli occhi e dieci secondi dopo ha già elaborato una risposta chiara, profonda e coerente in ogni aspetto. E c’è un’altra cosa davvero speciale. Nelle due ore che passa con noi, LM è profondamente e completamente assorbito da noi. E la stessa cosa accadrà a chi verrà dopo e a chi è venuto prima.
“Se sono con te, cerco di darti tutto me stesso e la mia attenzione, altrimenti non ha senso” mi confida. E questa è una lezione immensa. Credo non esista dono più grande che una persona possa fare a un’altra. Il tempo è l’unica cosa che non possiamo ricomprare.
Qualche ora dopo, mentre con Toni siamo in macchina diretti a Milano, dove un volo ci porterà a Napoli dentro un’altra storia di questo stralunato documentario, ripenso alle tante cose che ci ha detto Lama Michel.
È stata come una lunga seduta da uno psicologo, ma di quelli proprio bravi. Tra le tante, una in particolare continua a risuonarmi in testa. 
“C’è un verso del Buddha che tradotto dal tibetano dice “Io sono il mio proprio protettore, io sono il mio proprio nemico”.
Questo mi aveva detto Lama, seduto a gambe incrociate sull’erba, per nulla infastidito dal sole delle due che gli batteva sulla testa. Sta a noi scegliere di proteggerci e non di danneggiarci.
E subito ero stato invaso da un grande coraggio e da un’iniezione di fiducia che mi aveva scaldato il cuore. Proprio come era successo quattro anni prima, in quella dannata camera d’albergo a Milano.

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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Tra Buddha e Jimi Hendrix

Il ritorno di Manu Chao

Dopo 17 anni Manu Chao annuncia “Viva Tu”, il suo nuovo disco d’inediti, che uscirà il prossimo 17 settembre. E pubblica l’omonima traccia con relativo video, la sognante Viva Tu. In anni bui, stretti fra guerre, pandemie e ignoranza in libera uscita, il delicato augurio del clandestino è questo – viva tu, che vuol dire pressapoco “lunga vita”. Un augurio a volerci bene, resistere, ritagliarci dei momenti sereni per imparare a essere e andare avanti.
Diciassette anni dicevamo, diciassette anni pieni di viaggi, concerti, esperienze, tanta vita ma nemmeno un disco da vendere, promuovere, utilizzare per alzare le richieste di concerti. Pochissimi artisti al mondo potrebbero permettersi una simile scelta, e Manu è fra questi. D’altronde il suo percorso è sempre stato “diverso”, anche qui sta il suo fascino.
“Clandestino – Alla ricerca di Manu Chao” di Peter Culshaw – uno dei libri di “letteratura musicale” più pazzeschi che mi sia capitato di leggere – racconta una vita veramente fuori dal comune.
Ma cosa ha fatto “il clandestino” dai tempi di “La Radiolina”, il suo ultimo disco?
Per un periodo è ancor più sparito dai radar, volando sempre più basso, fino quasi a scomparire. E ha viaggiato, si è spostato, come ha sempre fatto: Sud America, Africa, Francia, Spagna, tanto Brasile, dove vive suo figlio.
Poi, dopo qualche anno di stop, è tornato a produrre nuova musica con una certa frequenza, collaborando con tanti artisti, ma senza realizzare dischi completi. Solo singoli, rilasciati quando ne ha avuto voglia e scaricabili gratuitamente sul suo sito ufficiale. Un percorso personale ben lontano dai circuiti del mainstream ma che, sorprendentemente, non gli ha fatto pagare dazio. Nonostante abbia da poco compiuto sessant’anni, non esca con un disco d’inediti da 17 anni e non conceda interviste da quasi 10, Manu Chao ovunque vada a suonare riempie, e il suo pubblico non ha smesso di seguirlo; ai suoi concerti è ormai sempre più frequente vedere padri coi figli grandi e, c’è da scommetterci, presto arriveranno anche i nipoti.
Fra le tante collaborazioni in cui si è speso Manu negli ultimi anni, non si può non citare quella con la celebre Calypso Rose, autentica regina della musica caraibica. I due si sono incontrati al Carnevale di Trinidad e Tobago nel 2015. “Si è presentato al mio hotel con delle ciabatte vecchie, dei pantaloncini e una chitarra piccola e rovinata”, racconta lei. E l’ha incantata, come fa con tutti.
I due sono finiti a lavorare insieme all’album Far From Home, uscito nel 2016. Quel disco, un irresistibile mix di calypso e soca, con un pizzico di reggae e l’inconfondibile chitarra di Manu a insaporire il tutto, è diventato un successo mondiale che ha portato la quasi ottantenne cantante nativa di Trinidad ad esibirsi al Coachella, diventando l’artista più anziana ad aver calcato il palco del celebre festival americano.
I due hanno continuato la loro collaborazione, incidendo una nuova versione della canzone “Clandestino”, uscita nella ristampa dell’omonimo disco rilasciata dalla Because per il ventennale – Clandestino Bloody Border – insieme a due brani inediti: Roadies Rules e Bloody Border.
La prima risale ai tempi di Clandestino e agli anni della depressione, infatti parla della malinconia, della tristezza e della disperazione di quelli che non hanno: “Nessun motivo per svegliarsi domani”.
“Bloody Border” è invece dedicata alle terribili condizioni di vita dei migranti nelle tendopoli in Arizona; Manu la scrisse a seguito del tour americano del 2011, che Peter Culshaw ha così ben documentato nel suo libro.
Dal 2017, i singoli rilasciati da Manu e scaricabili gratuitamente sono stati tantissimi. C’è stato il progetto Ti.Po.Ta. (acronimo di Transe Indie Progressiv Organik Trash Amor), realizzato insieme all’ex fidanzata, l’artista greca Klelia Renesi. Un rilassante mix etnico che ha regalato altissimi momenti in brani come Winds, Do you ear me Calling, Athina Vrazi, Anatoli e, soprattutto, l’ipnotica Moonlight Avenue. E poi ci sono state le release firmate dal solo Manu, seppur spesso avvalendosi del featuring di altri artisti. Una lunga serie di canzoni in grado di riempire ben più di un disco. In mezzo a questa ritrovata epifania artistica, un doloroso lutto nella vita del desaparecido, con la morte del leggendario padre, lo scrittore Ràmon Chao, che è passato dall’altra parte nel maggio del 2018.
Nel periodo covid, complici le limitazioni, Manu ha messo su un progetto acustico più snello, “El Chapulin Solo – Manu Chao Acustico”, composto da solo tre elementi, che ha portato in giro dando l’impressione di divertirsi un mondo. Insieme a lui sul palco, lo hanno accompagnato due musicisti giovani ma straordinariamente preparati come Luciano Falico alla chitarra e Mauro Mancebo alle percussioni.
Sono andato a vederlo nel 2021, sempre nella mia Genova. Un concerto particolare per tutta la città e, forse per l’intero paese, visto che coincideva con i 20 anni esatti dal G8 e dalla morte di Carlo Giuliani. E un concerto importante per il sottoscritto, dato che portavo mio figlio Alessandro di appena sette anni – un super “manuista” – ad assistere al suo primo live.
Quando vidi Manu, dopo quasi 10 anni, e mio figlio gli corse incontro abbracciandolo come se lo conoscesse, con il “desaparecido” che ricambiava l’abbraccio sorridente, non nego mi commossi. Sarà che era il primo evento pubblico dopo un anno e mezzo di una pandemia che ci aveva messo tutti a dura prova, sarà che nella vita ultimamente me n’erano capitate un po’ troppe, a partire dalla scomparsa del mio adorato fratello, ma assistere a un momento così libero, pulito e spensierato come l’abbraccio fra un bambino e l’artista che ama, mi emozionò.
Manu era sempre lui, forse un po’ invecchiato, ma alla fine nemmeno troppo. Quello sguardo consapevole, un po’ da sciamano timido, era ancora lì, profondo e bellissimo. La stessa persona sobria, garbata, per bene e tranquilla che già avevo avuto modo di apprezzare in passato.
Ci sedemmo dietro al palco, a un passo dalle acque melmose del porto di Genova, e passammo un po’ di tempo insieme.
Poi lui salì sul palco e Alessandro cantò a squarciagola tutte le canzoni, godendosi a pieno il suo primo concerto. Una signora vicino a me scoppiò a piangere appena Manu attaccò “Otro Mundo”. Poco dopo, a due ragazzi decisamente più giovani si inumidirono gli occhi mentre veniva suonata “La Vida Tombola”. Personalmente, il momento lacrima mi colse mentre partiva il ritornello di “Mala Vida”. E di sicuro, tutti sentimmo qualcosa di simile a un groppo in gola mentre cantavamo a squarciagola “Clandestino” e “Desaparecido”.
Verso la fine, dal pubblico si alzò il grido “Carlo è vivo e lotta insieme a noi, le nostre idee non moriranno mai”; a quel punto Manu cominciò a battere ritmicamente il microfono sul cuore. Bom. Bom. Bom.
Fu un momento potentissimo. Di quelli che non si dimenticano.
Mentre tornavo verso casa, con mio figlio che saltellava felice ricantando tutte le canzoni sentite al concerto, realizzai che Carlo Giuliani, avrebbe avuto 44 anni. E magari, esattamente come me, sarebbe stato al concerto di Manu Chao, con un bambino piccolo per mano che sta spalancando gli occhi verso il futuro.
Go masai, go masai, be mellow.
Go masai, go masai, be sharp…

Non vedo l’ora sia il 17 settembre.
Viva tu
viva noi
Buona estate

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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    Ultima Traccia di venerdì 01/08/2025

    Un viaggio musicale tra la prima metà degli anni 90 e i primi 2000 dedicato a chi ha vissuto l’adolescenza tra compilation masterizzate, squilli su MSN, pomeriggi a giocare al Game Boy o a registrare video da MTV. Ma Ultima Traccia è anche per chi non ha vissuto nulla di tutto questo e ha voglia di scoprire un mondo che sembrava analogico ma era già profondamente connesso. Ultima Traccia è un modo per chiudere la settimana come si chiudeva un CD: con l’ultima canzone, quella che ti lasciava addosso qualcosa.

    Ultima Traccia - 01-08-2025

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    News della notte di venerdì 01/08/2025

    L’ultimo approfondimento dei temi d’attualità in chiusura di giornata

    News della notte - 01-08-2025

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    Conduzione musicale di venerdì 01/08/2025 delle 20:59

    Un viaggio musicale sempre diverso insieme ai nostri tanti bravissimi deejay: nei giorni festivi, qua e là, ogni volta che serve!

    Conduzione musicale - 01-08-2025

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    Jazz in un giorno d'estate di venerdì 01/08/2025

    “Jazz in un giorno d’estate”: il titolo ricalca quello di un famoso film sul jazz girato al Newport Jazz Festival nel luglio del ’58. “Jazz in un giorno d’estate” propone grandi momenti e grandi protagonisti delle estati del jazz, in particolare facendo ascoltare jazz immortalato nel corso di festival che hanno fatto la storia di questa musica. Dopo avere negli anni scorsi ripercorso le prime edizioni dei pionieristici festival americani di Newport, nato nel '54, e di Monterey, nato nel '58, "Jazz in un giorno d'estate" rende omaggio al Montreux Jazz Festival, la manifestazione europea dedicata al jazz che più di ogni altra è riuscita a rivaleggiare, anche come fucina di grandi album dal vivo, con i maggiori festival d'oltre Atlantico. Decollato nel giugno del '67 nella rinomata località di villeggiatura sulle rive del lago di Ginevra, e da allora tornato ogni anno con puntualità svizzera, il Montreux Jazz Festival è arrivato nel 2017 alla sua cinquantunesima edizione.

    Jazz in un giorno d’estate - 01-08-2025

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    Popsera di venerdì 01/08/2025

    Popsera è lo spazio che dedicheremo all'informazione nella prima serata. Si comincia alle 18.30 con le notizie nazionali e internazionali, per poi dare la linea alle 19.30 al giornale radio. Popsera riprende con il Microfono aperto, per concludersi alle 20.30. Ogni settimana in onda un giornalista della nostra redazione.

    Popsera - 01-08-2025

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    Parla con lei di venerdì 01/08/2025

    PARLA CON LEI: a tu per tu e in profondità con donne la cui esperienza professionale e personale offre uno sguardo sul mondo. Con Serena Tarabini.

    Parla con lei - 01-08-2025

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