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La scuola non serve a nulla

GLOBAL SUMUD FLOTILLA – “L’ULTIMA CROCIATA”

La partenza, domani 31 agosto, della spedizione.

Il 31 agosto salperà una flottiglia di oltre 30.000 persone, la più grande missione civica navale di sempre. Navi verso Gaza con l’obiettivo di rompere l’assedio, portare aiuti, aprire un corridoio umanitario permanente: “Sumud”, infatti, in arabo, vuol dire “perseveranza”, “resistenza”… (e sì, è un attimo che arrivi a dire “resilienza”).
Ma per me che son curioso di Storia, questa spedizione è piena di tante cose che ritornano. Quasi mille anni fa, al Concilio di Clermont del 1095, papa Urbano II pronunciò un discorso che le circostaze della Storia portarono a essere inteso come una sorta di  invito aiCristiai di liberare la Terra Santa dai Turchi Selgiuchidi: nacque così la Prima Crociata. I “Regni cristiani d’Oriente” furono, di fatto, la prima forma di colonialismo europeo, la prima ferita. E parallelamente, curioso che persino il viaggio di Colombo nel 1492, intrapreso per raggiungere comunque le Indie aggirando quel Medio Oriente turco, ostile e infedele, fu per converso definito da alcuni come “l’ultima Crociata”: insomma, sempre, lo stesso spirito di conquista.
Mille anni fa, dunque, l’Europa partiva per attaccare gli arabi (musulmani, allora, più precisamente). Oggi, in un involontario quanto significativo ‘history washing’, può scegliere di fare il contrario: una specie di crociata riparativa, l’ultima “vera” Crociata. Non per conquistare, ma per restituire. Ripercorrendo anche, a ritroso, lo stesso mare attraversato da tanti disperati per carcare nei nostri paesi un futuro migliore. La possibilità, seppur fragile, che l’Occidente, o almeno l’Europa, si guardi allo specchio e decida di non essere più soltanto o predatore del mondo, o testimone inerme di crimini commessi nel mondo da uno Stato che al momento, di quell’Occidente, sembra incarnare l’avamposto…. l’avamposto, si, ma del peggio che sia riuscito a produrre.
Il rischio che la spedizione venga attaccata, sapete, è reale, perchè è già accaduto in altri casi analoghi, nel 2010, o lo scorso maggio. Per questo molti personaggi pubblici e associazioni si stanno schierando a sostegno della flottiglia: l’incolumità di chi parte dipende anche dall’attenzione mediatica e dal sostegno internazionale. Ognuno può fare la sua parte, anche solo amplificando la notizia, alimentando con il suo “micro-influencing” quella pressione pubblica che può diventare protezione. Ed è per quello, forse, che serve esattamente quello stesso spirito comunitario e speranzoso, di chi forse – stavolta si hanno delle giustificazioni – è convinto di fare qualcosa che potrebbe portare qualcosa di buono a chi soffre.
Ecco, perchè la Flotilla potrebbe non essere più solo un simbolo. Potrebbe davvero rappresentare un precedente. Se i governi restano immobili, nel migliore dei casi per inettitudine o nel peggiore per convenienze, allora si muovono la società civile e l’opinione pubblica. E prima o poi la politica – e persino la geopolitica, quella “grande” – potrebbe, a un certo punto, essere costretta a tenerne conto. Forse.
Si spera. Si spera, eh….
È uno slancio utopico, forse… come lo fu “La Crociata dei pezzenti”, forse.
Ma a parte l’Utopia, cos’altro ci hanno lasciato?…
  • Antonello Taurino

    Docente, attore, comico, formatore: in confronto a lui, Don Chisciotte è uno pratico. Nato a Lecce, laurea in Lettere e diploma in Conservatorio, nel 2005 si trasferisce a Milano. Consegue il Diploma di attore nel Master triennale SAT 2005-2008 del M° J. Alschitz e partecipa a Zelig dal 2003 al 2019. Si esibisce anche inglese all’estero con il suo spettacolo di Stand-up, Comedian. Attualmente è in tournèe con i suoi spettacoli (non tutti la stessa sera): Miles Gloriosus (2011), Trovata una Sega! (2014), La Scuola non serve a nulla (2016) e Sono bravo con la lingua (2020). La mattina si diverte ancora tanto ad insegnare alle Medie. Non prende mai gli ascensori.

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 “FENOMENOLOGIA DI PIPPO BAUDO” tra lingua, comunicazione e comicità

Perché “Sanremo è Sanremo” e Baudo è Baudo...

Se n’è andato un sabato sera, il suo regno naturale: quel sabato sera, che per molti, lo aveva “inventato” lui: il rito televisivo che ci metteva in fila – pubblico, orchestra, ospiti – e ci parlava in un italiano chiaro, nazionale, senza strappi. Indi per cui, stamattina mi è venuta l’idea di metterlo in pari con il suo più “acerrimo amico”, il Mike nazionale: se c’è stata una “Fenomenologia di Mike Bongiorno” (di Umberto Eco, ça va sans dire), perché non improvvisare una “Fenomenologia di Pippo Baudo”, ché tanto converrete con me che gli autori (io ed Eco) stiamo più o meno allo stesso livello?

IL PONTEFICE DEL RITUALE TELEVISIVO

Orbene, Baudo è stato il capo officiante del nostro immaginario televisivo, il sacerdote d’una antimeridiana messa catodica. Se Mike Bongiorno portava l’aria esotica dell’estero e la dinamicità americana della tv commerciale, Pippo incarnava l’istituzione (anche per le sue note simpatie democristiane): ordine, misura rassicurante, sobrietà di forma. Tutto doveva essere assolutamente pianificato (e non è un caso se la trasmissione televisiva era chiamata, appunto, “programma”. La sua lingua, conseguentemente, è stata l’italiano dell’uso medio/neostandard: registro medio-alto, pochissimi tratti locali, massima leggibilità nazionale. Anzi, a voler essere accademicamente precisi, una lingua che nei manuali si colloca tra lo ‘standard’ e il ‘colloquiale colto dei mass-media’ (e Umberto Eco, muto!)

FORMULA, NON GERGO: IL SUO LESSICO DI SCENA

Baudo non ha coniato neologismi entrati nei dizionari: più che altro, ha cristallizzato formule, usando allocuzioni d’apertura (“Signore e signori…”), un tono da padrone di casa (più “ecco a noi” che “ecco a voi”, includendo pubblico e troupe), una regia verbale marcata (“Torniamo fra poco” o “A voi…”, con segnali che scandiscono tempi, camere, ingressi: quel chiamarsi il cambio camera che con Gianfranco Funari sarà “Damme ‘a due!.. Damme ‘a tre!”), le sue liturgie sanremesi (“Dirige l’orchestra il maestro Beppe Vessicchio”, come formula di deferenza), l’esaltazione dell’ospite (praticamente, Baudo non presentava gli ospiti: li battezzava. E spesso indovinava pure i padrini)

SLOGAN E FIGURE RETORICHE

“Perché Sanremo è Sanremo”: la melodia è di Pippo Caruso, ma Baudo ne fa uno slogan. Retoricamente, sarebbe una “diafora” o “ploce” (ripetizione di X = X’, figura retorica in cui uno stesso termine viene ripetuto nella stessa frase, ma la seconda volta con un leggero cambio di senso), che è il tropo meglio deputato a veicolare, condensati, valori percepiti come di ineluttabile buon senso: “la mamma è sempre la mamma”, “gli affari sono affari”. Slogan filosoficamente inattaccabili, praticamente vuoti, e commercialmente perfetti.

E però, su tutti, il vezzo di “L’ho scoperto io / l’ho inventato io”: tormentone identitario per un’auto-narrazione da talent scout, diventa ormai meme nazionale, che gli resta appiccicato in una descrizione icastico-televisiva al pari di “Allegria!” per Mike Bongiorno, “E non finisce qui” per Corrado, “Consigli per gli acquisti” per Maurizio Costanzo, e “Capra!” per Vittorio Sgarbi.

UN’UNFLUENZA: PIÙ PRAGMATICA CHE LESSICALE

Baudo non ha creato parole nuove, ma un modo di stare in scena con la lingua, con un parlato pianificato, fatto di periodi completi e misurati (“adesso… poi… infine…”), una marcata ritualità (presentare, accogliere, chiamare l’orchestra) e tanta etichetta (garbo istituzionale, elogio dell’ospite, gestione dei silenzi per l’applauso). Curiosità: la parola “boutade”. In un Dopofestival, confrontandosi con Pierluigi Diaco che aveva comunicato – nel caso d’una esibizione troppo ‘antiberlusconiana’ di Benigni – il lancio di uova sul palco dell’Ariston da parte di Giuliano Ferrara, Baudo la pronunciò, commentando con “Ma questa cos’è, una boutade?”. Ora, trattasi di un francesismo all’epoca circolante già da decenni, ma fino ad allora utilizzato timidamente e pochissimo: Baudo, con quella uscita, ne rilanciò l’uso, con evidente impennata di occorrenze. Da quel momento, sdoganata, si è radicata come la parola più corretta per indicare “provocazione esagerata”. E da lì, l’avrete forse sentita anche nei peggiori bar, tra un rutto e l’altro.

I SUOI MOMENTI TOP

Avendo fatto della ritualità preordinata la sua cifra, non è un caso che, per converso, di Baudo sono entrati nella memoria soprattutto alcuni – pochi – momenti non pianificati, legati alla “sorpresa”, alla relazione con fatti inaspettati, ma con cui, giocoforza, dover interagire nel “bello della diretta” (formula abusata ma con cui ri-ritualizzare l’irritualità dell’imprevisto in TV). Momenti a volte solenni (l’annuncio in diretta della morte di Claudio Villa: il cerimoniale che si fa notizia, con lessico sobrio e controllo del pathos), oppure eroici (l’intervento per sventare il tentativo di suicidio di Pino Pagano, il tizio che minacciava di lanciarsi dalla balconata dell’Ariston, nel Festival 1995), o anche grotteschi (l’irruzione di “Cavallo Pazzo” con “Il Festival è truccato, lo vince Fausto Leali!”. Baudo governava il caos dell’uscita del rito con metalinguaggio da direttore d’orchestra: smentita, ripresa del filo, ristabilimento del rito).

E CON I COMICI?

Anche qui, per lo stesso motivo, Baudo ha avuto un rapporto altalenante con i comici e la satira (la comicità è, per definizione, “deviazione”, “rottura del programma”). Colpisce, sulla celebre battuta di Beppe Grillo (“Ah, qui in Cina siete tutti socialisti? E a chi rubate?”, che porto al comico genovese il bando dalla TV), la sua immediata presa di distanze, in diretta (“Grillo è uscito fuori… ha detto cose che non doveva dire”), se rapportata all’ascolto deferente e divertito di monologhi certamente più caustici (seppur portati in forma più sottile: Troisi su Andreotti, che “è fesso, è ingenuo: in Italia abbiamo avuto trent’anni di stragi, terrorismo, Mafia, servizi deviati: lui non s’è ai accorto mai di nulla”), e alla disponibilità a collaborare con i comici (la scoperta del Trio ‘Lopez-Marchesini-Solenghi’ e la sua partecipazione alla loro versione de “I Promessi Sposi”); una disponibilità che volte si declinava in gioco a sostegno (con Benigni, su Berlusconi, nel 1994: -“Sono tornato da poco in Italia, non so niente di quello che è successo… Che fine ha fatto quello ricco, milanese, inquisito, amico di Craxi?…” -“Ehm… È Presidente del Consiglio” -“Ahaha… e magari Giuliano Ferrara ministro!” -“Eh!…”  -“E i fascisti al Governo!” -“Quasi!”), o che raggiungeva vette di coinvolgimento anche proprio fisico (farsi palpare i genitali da Benigni e Fiorello). In generale, anche qui, prevale il tentativo di tenere la linea del registro anche quando attorno soffia burrasca, a mo’ di guardrail linguistico: incanalare, delimitare, rinominare senza mai perdere il controllo.

Pippo Baudo, quindi, non ha inventato parole, slogan o battute: ha inventato CORNICI. Ha trasformato la conduzione in regia linguistica, ha dato all’Italia un italiano di servizio – pulito, inclusivo, nazionale – con cui per anni ci siamo parlati la sera, tutti insieme. Più che condurre, ha tenuto compagnia all’italiano.

E noi, senza lui, siamo più soli. Perché in fondo, è vero pure che Pippo Baudo, nel nostro immaginario, “l’avevamo inventato” anche un po’ tutti noi.

 

Che ne pensate? Per qualunque cosa vogliate dirmi riguardo ai miei articoli su questo Blog, dagli apprezzamenti, ai consigli, alle critiche fino agli insulti (questi ultimi però purché formulati rigorosamente in lingue antiche), scrivete a: antonellotaurino1@gmail.com .

  • Antonello Taurino

    Docente, attore, comico, formatore: in confronto a lui, Don Chisciotte è uno pratico. Nato a Lecce, laurea in Lettere e diploma in Conservatorio, nel 2005 si trasferisce a Milano. Consegue il Diploma di attore nel Master triennale SAT 2005-2008 del M° J. Alschitz e partecipa a Zelig dal 2003 al 2019. Si esibisce anche inglese all’estero con il suo spettacolo di Stand-up, Comedian. Attualmente è in tournèe con i suoi spettacoli (non tutti la stessa sera): Miles Gloriosus (2011), Trovata una Sega! (2014), La Scuola non serve a nulla (2016) e Sono bravo con la lingua (2020). La mattina si diverte ancora tanto ad insegnare alle Medie. Non prende mai gli ascensori.

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CINQUE LENTI PER UN DOCUMENTO SFOCATO: ma lo sapete che a giugno 2025 sono uscite le “Nuovissime Indicazioni Nazionali”?

Stavolta, nel silenzio generale...

Com’è noto, a marzo 2025 sono state emanate dal MIM le “Nuove Indicazioni Nazionali per il curricolo – Scuola dell’infanzia e Scuole del Primo ciclo di istruzione”, che dovrebbero sostituire quelle del 2012. Sapete anche come queste “Indicazioni”, proprio a partire dal marzo scorso, sono state oggetto di massicce critiche, per vari motivi: innanzitutto per la forma (sghemba e impacciata, con refusi grafici e un periodare goffo: altro che il richiamo all’ “attenzione alla forma” della scrittura); per la concezione euro-italo-centrica della storia; per il “ritorno al passato” nelle metodologie didattiche; per l’elenco dettagliato di “conoscenze” e “obiettivi” che le rendevano di fatto nuovi programmi; per la nebulosità su “abilità, conoscenze e competenze”; per l’insistenza su “nazione” e “famiglia” (di un tipo solo, ovviamente); per la violenza di genere come “triste patologia” e non come questione culturale sistemica… In sostanza, per il loro essere “recinto, più che orizzonte” [1]. Da cui segue che, se persino nell’habitat generalmente sonnacchioso dei docenti italiani si è vista una tale mobilitazione (ben superiore alle aspettative), allora si può davvero concordare con chi ha definito il documento addirittura “inemendabile e irricevibile” [2], tanto è fuori fuoco. Ancor meglio ha riassunto chi ha usato la luciferina “severamaggiusta” formula “ciò che vi è di buono, non è nuovo; ciò che invece è nuovo, è pessimo” [3].

In teoria, quella di marzo era una bozza redatta per offrirla in consultazione, che il Ministero quindi forniva al mondo della scuola per riceverne un parere (anche lì: ridicolo che non si potesse, letteralmente, esprimere giudizi negativi; e comunque, con una finestra temporale molto ristretta… un po’ come chiedere a qualcuno: “Ti piace questo piatto che ti ho cucinato?” ma con la pistola puntata).

E appunto (anche se pare non lo sa nessuno), udite udite, nel mese di giugno 2025 sono uscite le nuove Nuove indicazioni”, cioè quelle che il Ministero avrebbe emendato e corretto secondo i suggerimenti (o meglio, i vibranti ruggiti di proteste) arrivati in merito a quelle di marzo. Spoiler: a furor di popolo, sono stati modificati alcuni – pochi – elementi estremi in quelle di marzo 2025, che si imponevano con piglio ben più incendiario nel loro ideologico ritorno al passato. Queste “Nuovissime Indicazioni” di giugno (più corte: 100 pagine invece di 150) limitano, ribadiamo, solo in parte quella furia antimodernista: un passo davvero troppo timido per salutarlo come positivo, considerato che l’impianto generale è confermato (si sottolineano, però, passi avanti sulla didattica laboratoriale in ambito scientifico). E tuttavia, come anticipavo, sorprende molto questo: se le “Indicazioni” di marzo hanno giustamente suscitato un vespaio, queste di giugno (che in teoria sarebbero anch’esse una bozza, trasmessa al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione per un parere, quindi ancora modificabili prima dell’entrata in vigore dal 2026-2027), sono passate via nel più preoccupante dei silenzi. E sarebbe il caso di parlarne, e ancor più di marzo, proprio perché queste ultime modifiche dimostrano che proteste veementi non possono essere totalmente ignorate: non è dunque trascurabile la loro capacità di influenzare scelte e indirizzi.

Io però volevo soffermarmi su una rilettura di queste ultime Nuove Indicazioni di giugno 2025 (d’ora in poi, citerò sempre e solo stralci da queste), alla luce di cinque aspetti, solo questi, quelli che mi interessano particolarmente e che conosco meglio. Di cui parlo da anni nei corsi che tengo, e su cui, quindi, provo a restare aggiornato al meglio che posso. Questi punti sono: la grammatica valenziale, l’intelligenza artificiale a scuola, la scrittura creativa, il “docente-attore” (il docente in quanto “consapevole performer della scena dell’apprendimento”), e la didattica della storia. Ho provato a usarli come lenti per guardare in maniera laica all’impianto generale del documento, senza pregiudizi ideologici.

 

Grammatica valenziale

Riguardo alla Grammatica Valenziale, si deve partire da come è intesa la Grammatica in generale nel testo. Ebbene, le nuovissime “Indicazioni” di giugno 2025 confermano l’approccio normativo alla grammatica già espresso a marzo: innanzitutto, con la centralità della “regola”, moloch supremo presentato come strumento per inculcare, sul piano linguistico, il senso di valori come il “limite” e “l’etica del rispetto”, magari per farlo così migrare anche altrove: “in virtù delle ‘regole’ (regole di comportamento, ma anche le regole di grammatica), l’allievo interiorizza il senso del limite e un’etica del rispetto verso il prossimo” (Premesse culturali, p. 8). La grammatica è quindi una struttura calata dall’alto, da apprendere piuttosto che ricostruire; tabula rasa perciò di alcune principi didattici, peraltro non recenti, che ispirati dai vari Rodari, Don Milani, De Mauro – dalle “Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica”), si stava provando faticosamente a diffondere nelle nostre scuole. Si agitano poi come “minacciosi spauracchi” fenomeni che non risultano essere mai stati reali pericoli nell’insegnamento grammaticale, cioè quelle “concezioni che esaltano un’idea di lingua come fenomeno spontaneo, sopravvalutando le varietà d’uso e la creatività del soggetto” (“Discipline, ITALIANO”, pag. 34: ma dove li avete visti tutti questi “piccoli Bergonzoni” nelle nostre aule? E soprattutto: quando mai li si è incitati?). La correttezza grammaticale e ortografica “deve essere presentata come una forma di rispetto per gli altri: dunque anche come un dovere sociale” (“Discipline, ITALIANO”, pag. 34): e certo, perché chi non riesce a esprimersi correttamente, lo fa apposta, per dispetto e intima misantropia, mica per altro.

Più nello specifico, tra le competenze “richieste” agli alunni in queste “Indicazioni”, compare la capacità di riconoscere la “gerarchia dei costituenti” della frase (“Discipline, Italiano”, p. 37), che è esattamente il campo di studio della grammatica valenziale: e però (una delle tante contraddizioni del testo), non viene citato il modello che meglio permetterebbe di indagarla: appunto, la Valenziale. Vero è che ci sarebbe un tanto straordinariamente innovativo – quanto ‘stonato’ – accenno alla pragmatica e alla “Teoria degli atti linguistici” di Austin, quando si citano le “funzioni illocutorie e perlocutorie” (“Secondaria di I grado”, p. 39); ma questa apertura non viene sviluppata: sembra buttata lì, per caso, senza nessuna ripresa. Quasi a far vedere solo che la si conosce, come quando al liceo citavi Nietzsche anche se parlavi di geografia.

Tirando le fila, si capisce bene come in questa concezione linguistica, ben lontana dall’idea di “riflessione sulla lingua”, per il laboratorio di grammatica valenziale (con il suo sperimentalismo, il suo approccio di scoperta “esperienziale” della regola e di induzione “bottom-up”), proprio non ci sarebbe spazio. E senza considerare che le “Indicazioni” di marzo 2025 avevano finalmente almeno nominato la Grammatica Valenziale: accenno scomparso nella versione di giugno.

 

Uso dell’Intelligenza artificiale nella didattica

Sull’Intelligenza Artificiale (IA) si riconosce, giustamente, che la scuola non può ignorare i tumultuosi mutamenti in atto: direi con buon senso, si afferma anche la necessità di sviluppare al riguardo il senso critico negli alunni: “… si sollevano questioni etiche profonde sulla natura umana e il suo futuro” (“Premesse culturali”, p. 9).

Vengono elencati usi concreti e ragionevolmente positivi: strumenti digitali che favoriscano esperienze di apprendimento “immersive e interattive” (“Organizzazione del curricolo di scuola”, pag. 24), che stimolino il senso critico “nella capacità di valutare la qualità delle risposte date dall’IA” (“CONOSCENZE in Letteratura per la Classe terza delle Scuola Secondaria di I° Grado”, pag. 40). Addirittura, che siano supporto alla valutazione, specie nelle discipline scientifiche (“Valutazione”, p. 24, “STEM”, p. 65;).

Ma lascia perplessi la leggerezza con cui, paradossalmente, si auspica l’uso dell’IA per l’inclusione e la personalizzazione della didattica non solo da parte del docente “per l’alunno” (“le tecnologie assistive basate sull’IA permettono agli studenti con disabilità o con DSA di meglio partecipare alle attività educative e didattiche, garantendo pari opportunità di apprendimento”, da “Premesse culturali alle Indicazioni Nazionali”, pag. 9), ma anche direttamente usate “dall’alunno” che ha questi bisogni. Tragiche, problematiche contraddizioni: mentre si auspica l’uso dell’IA per potenziare l’apprendimento, lo stesso Ministero emana circolari che vietano l’uso dei cellulari in classe, alla Secondaria di Primo Grado e ora pure a quelle di Secondo (anche a scopo didattico) perché considerate genericamente “troppo pericolose” (e se no, giustamente, perché a scuola dovremmo promuoverne un approccio critico?). E però queste tecnologie ritornano tollerabili quando giustificate dalla disabilità. Dunque: se sei fragile, puoi usare la pericolosa tecnologia con la sua Intelligenza Artificiale, ecc.; se non sei fragile, no, vade retro, non è per te… Una coerenza di visione che ricorda quella di Trump con i dazi, o quella di mia nonna con la cioccolata: “Fa male, ma se hai la tosse te la do”

 

Scrittura creativa

La questione della presunta “creatività”, specie nella scrittura, è uno dei più retorici e confusi dell’intero documento. La parola “creativo” è tanto onnipresente quanto priva di sostanza: si presume, cioè, che basti autorizzare docenti e alunni a “essere creativi” per ottenere risultati. Non sembra esserci nessuna consapevolezza negli scriventi che la creatività è quanto di più difficile e faticoso esista da attivare, esercitare, provocare, stimolare, insegnare (altrimenti saremmo tutti artisti, creativi, pubblicitari, scrittori…). Come i professionisti del settore sanno, si tratta di questioni su cui bisogna lavorare a volte per decenni; e invece nelle “Indicazioni” (ma attenzione: è stato sempre così) si continua a trattarla come qualcosa o che attiene, come talento innato, “alle persone fantasiose”, oppure come facoltà per liberar la quale basta dare dall’alto il permesso: “siate creativi”; al pari di “al mio segnale scatenate l’Inferno”. Un po’ come pensare che sia sufficiente ordinare a qualcuno “Corri i 100 metri in 9 secondi!” per trasformarlo in Usain Bolt, o urlare ai bambini denutriti del Tanganica “Mangiate!” per risolvere il problema della fame.

Eppure, nelle “COMPETENZE AL TERMINE DEL PRIMO CICLO DI ISTRUZIONE”, leggiamo, tra le tante, che l’alunno dovrebbe saper “creare, esprimere e interpretare concetti (…) Interagire adeguatamente e in modo creativo” (“Competenze europee”, pag. 13); “Dimostrare spirito di iniziativa, produrre idee e progetti creativi” (“Competenze europee”, pag. 14); “la naturale creatività è un’attitudine da difendere e coltivare” (“COMPETENZE ATTESE AL TERMINE DELLA CLASSE QUINTA”, pag. 35).

Ma chi ha mai fornito ai docenti corsi di creatività, o almeno di pensiero laterale, per sviluppare queste competenze da promuovere poi negli alunni? Nei percorsi di formazione dei docenti non sono quasi mai neanche contemplati accenni a attivazione creativa, pensiero divergente, problem posing, bisociazione, brain storming, pensiero laterale, content creating, enigmistica, giochi di parole… in altre parole, ci si limita ad esigere che i docenti insegnino qualcosa di cui nei loro percorsi di studio potrebbero non aver mai sentito parlare. Non mi stancherò mai di dirlo: come mai non si ragiona nella stessa maniera, per esempio, per ciò che riguarda le conoscenze pedagogiche di base? Perché invece in ambiti come questo qualcuno ha pensato che, per diventar docenti, fosse ragionevole che si passasse da percorsi formativi (universitari o no, con crediti formativi o meno, organizzati bene o male, ok… questo è un altro discorso) relativi a tali argomenti? Qui invece, macché: basta ripetere la parola ‘creatività’ come formula magica: che infatti, compare ben 9 volte nelle “Indicazioni Nazionali” del 2012, 26 volte in quelle di marzo 2025, e 27 in quelle di giugno 2025! L’aggettivo ‘creativo’ registra 27 occorrenze nelle Indicazioni del 2012, 59 in quelle del marzo 2025, e 33 in quelle del giugno 2025!!! Ripeto: in questo campo, nel 2025 non c’è nessun “peggioramento” rispetto al 2012; se non che, se questa parola è usata a sproposito e in modo così sproporzionato, potremmo propendere per la versione del 2012, più sobria accettabile: perché, più onestamente, almeno la cita meno.

Anche qui, altra contraddizione. Personalmente, apprezzo molto il riconoscimento dell’importanza del riassunto: non solo è esercizio che attiva varie e complesse competenze di trasformazione linguistica, ma è anche un ottimo allenamento formativo per una delle posture mentali più importanti e da affinare nella vita, cioè il saper scegliere, tra varie cose, quali tenere e quali no: “quali sono le più importanti”. Nelle “Premesse culturali alle Indicazioni Nazionali”, a pag. 10, si legge: “Di particolare rilevanza, nell’apprendere a scrivere, è l’esercizio del riassunto”, che “alleggerisce l’ansia da foglio bianco e spostando il carico cognitivo sulla riscrittura di un testo già esistente”. Ma come: perché mai il “foglio bianco” dovrebbe ingenerare “ansia”, se la spontanea produzione di “idee fantasiose e creative” è facoltà così facile da attivare, al punto che tutti (alunni e docenti compresi) possono farlo in ogni momento, senza bisogno alcuno di allenamento, studio, o formazione? Insomma, “creare” è difficile, o no? Mistero della fede educational, verrebbe da dire…

 

“Il docente-attore” (e “l’alunno-attore”)

Anche qui, stesse criticità del punto precedente. Sull’utilizzo “delle competenze attoriali dal teatro e dalla comicità a servizio della professione docente”, quelle che permettono al docente di “mettere in scena” l’apprendimento, la situazione – già critica nel 2012 – non migliora. E non c’è neanche un peggioramento, semplicemente perché nulla c’era prima; e nulla, ancora, c’è oggi. Provo a spiegarlo meglio nel dettaglio: nelle “Indicazioni” del giugno 2025 è tutto un promuovere “attività teatrali”, “performances”, “lettura espressiva”, “drammatizzazioni”, “attività cinematografiche”, “uso della voce”, “intonazione”, “interpretazione”… (“Conoscenze”, Italiano, classe quinta Primaria e terza Secondaria I° Grado, p. 37 e 39), ma manca qualunque riferimento a una formazione specifica per fornire al docente delle competenze attoriali anche minime, riguardanti l’uso della voce, il respiro, la presenza, la scrittura drammaturgica, la consapevolezza di movimento… Nulla.

Quindi suona quasi come una beffa quel “Teatro” che, linguisticamente, fa capolino tante volte, in varie accezioni: nelle “Premesse culturali”, per ragionare sull’identità dell’alunno da formare, si cita la “persona” (pag. 6), termine mutuato dal latino, proveniente dall’etrusco e ancor prima dal greco, col significato di “maschera teatrale”, “personaggio” (forse, lessicalmente, un autogol: “maschera vuota”, come nella favola di Esopo?); agli alunni è poi richiesto di “analizzare e interpretare rappresentazioni di vario tipo: teatrali, musicali, cinematografiche, artistiche” (“Obiettivi generali al termine della scuola secondaria di primo grado”, pag. 17). E perché no, “con il proprio corpo, i bambini imparano a giocare, a sperimentare linguaggi non verbali come la mimica, e linguaggi artistici come la musica e la coreutica” (in “Campo di esperienza”, Finalità, Scuola primaria, pag. 28). Sempre nelle “Premesse” si parla di “relazione” come dispositivo pedagogico primario nel rapporto tra docenti e alunni (e tra gli alunni); ma si ignora che niente come il Teatro è “arte della relazione”: si richiede che le relazioni siano corrette, ma la disciplina che aiuterebbe a renderle tali viene taciuta. E ancora: si parla di “alfabetizzazione emozionale, di empatia”… e cos’altro è l’empatia se non mettersi nei panni degli altri?

E tuttavia, il capolavoro viene dopo. Così, all’improvviso, “de botto, senza un senso”, si direbbe in Boris, a quattordicenni alla fine della vecchia Terza Media vengono richieste competenze che sarebbero quasi quelle “di base” in uscita da una scuola professionalizzante di Teatro, recitazione o doppiaggio: alunni e alunne dovrebbero “comprendere l’importanza della componente sonora del linguaggio (timbro, intonazione, accentazione, pause) e delle figure di suono nei testi poetici (rime, assonanze e consonanze, ritmo), e sapersi servire dell’una e delle altre nella produzione di testi creativi”; “Leggere ad alta voce in modo espressivo testi noti, adoperando l’intonazione e le pause in maniera tale da permettere a chi ascolta di capire” (“OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO AL TERMINE DELLA CLASSE TERZA”, Scuola Secondaria di I° Grado, pag. 37 e 39); “Parlare in pubblico è un’abilità che (…) è bene cominciare ad acquisire negli anni della formazione” (Classe terza, p. 40). Di nuovo: non è tanto che dalla Terza Media i nostri alunni dovrebbero uscire come un incrocio tra Carmelo Bene e Vittorio Gassman: è che non si capisce chi e come li dovrebbe formare…

Anche qui, significativa la statistica di questo auspicare una scuola “spettacolare” ma senza professionisti esperti: la parola ‘teatro’ compare 2 volte nelle “Indicazioni” del 2012, 8 nel marzo 2025, e 5 nel giugno 2025. L’aggettivo ‘teatrale’, 3 volte nelle “Indicazioni” del 2012, 7 nel marzo 2025, e 6 nel giugno 2025. Ribadiamo: se si ritiene doveroso formare il docente, per esempio, nelle conoscenze di legislazione scolastica, non si capisce perché, per le competenze teatrali, invece, tutto può restare nella più totale superficialità, limitandosi a citarle nei contenuti proposti agli alunni senza che si dica come le si dovrebbe trasmettere ai docenti. Anche qui, a quel punto, visto che il teatro è citato sempre ad mentula canis, preferibile quella versione delle “Indicazioni” (2012) che lo nomina di meno.

Che a volerla dire tutta, le “Indicazioni” non fanno che riproporre una concezione “sprofessionalizzante” del mestiere dell’attore diffusissima nel paese (“Ah, fai l’attore? Sì, ma di lavoro?”), in cui si ignora totalmente la complessità, l’arte, il mestiere, la perizia, l’infinità di tecniche: come fossero “dei giochetti che tutti possono proporre o improvvisare”. Nessun passo avanti nemmeno rispetto alla legge n. 107 “Buona Scuola” (art. 1, cc 180-181), che proponeva di intensificare il rapporto tra scuola e teatro, affidandone l’insegnamento in via esclusiva a formatori esperti, per far perdere così il carattere “facoltativo ed episodico” a questa attività (“Con l’introduzione del nuovo dettato normativo, l’attività teatrale abbandona definitivamente il carattere di offerta extracurricolare aggiuntiva e si eleva a scelta didattica complementare”); o a quanto indicato nelle “Indicazioni strategiche per l’utilizzo didattico delle attività teatrali“,  del 16 marzo 2016, in cui si promuoveva “l’esercizio di pratiche connesse alle forme teatrali, mediante il potenziamento della formazione nel settore delle arti delle scuole di ogni ordine e grado (…), nonché la realizzazione di un sistema formativo della professionalità degli educatori e dei docenti”

 

Insegnamento della Storia

Ed ecco la parte più discussa delle “Nuove Indicazioni”. Se già nella versione di marzo il tono euro-italocentrico aveva suscitato indignazione, qui si conferma la visione dell’Occidente come unica culla della coscienza storica, chiaro soprattutto dall’infelice scelta di riproporre come Incipit la famigerata citazione, del tutto decontestualizzata, di Bloch: “Solo l’Occidente conosce la Storia (…). Ciò non vuol dire assolutamente che altre società e culture non abbiano avuto una storia e i modi per raccontarla. Vuol dire, come ci ricorda Claude Lévi-Strauss, che «Non soltanto noi riconosciamo l’esistenza della storia, ma le dedichiamo un culto, perché la Storia consiste nel pensare i fatti” (“Discipline, Storia, “Perché si studia la Storia”, pag. 53).

Confermato anche un passaggio che nella versione di marzo non aveva (stranamente, secondo me) suscitato grandi clamori: “È attraverso questa disposizione d’animo e gli strumenti d’indagine da essa prodotti che la cultura occidentale è stata in grado di farsi innanzi tutto intellettualmente padrona del mondo” (p. 53). Una storia in Occidente come culto, “tribunale morale” e biblioteca di valori da consultare per le battaglie politiche di oggi, certo; e però, anche strumento di dominio. Non solo di comprensione, ma anche di sopraffazione. Ma allora, se è proprio in virtù di questa visione della Storia, che noi europei saremmo andati a impossessarci del resto del mondo… non sarebbe il caso di rigettarla, invece che di rivendicarla orgogliosamente come prerogativa?

Sulla didattica, poco cambia. Si scoraggia lo studio diretto delle fonti e si esalta il valore della narrazione: “Anziché mirare all’obiettivo, del tutto irrealistico, di formare ragazzi (o perfino bambini!) capaci di leggere e interpretare le fonti, è consigliabile un insegnamento/apprendimento della storia che metta al centro la sua dimensione narrativa in quanto racconto delle vicende umane nel tempo. La dimensione narrativa della storia è di per sé affascinante e tale deve restare” (“Discipline, Storia, “Perché si studia la Storia”, pag. 55).

Sullo studio delle fonti, si tratta di un’incomprensibile restaurazione: da rigettare decisamente, visti gli indubbi risultati di queste metodologie “attive”; semplicemente, basta capirsi e limitarle, chiarendo cioè che non si può, ragionevolmente, adottarle per tutti gli argomenti. Sulla narrazione, invece, sono personalmente d’accordo: la storia credo vada essenzialmente raccontata. Ma a patto che si proponga “un’affabulazione” coinvolgente e affascinate: e allora dipende dalla singolarità dell’insegnante, da capacità che rimandano di nuovo alla sua dimensione performative di “docente attore” (vedi punto precedente). Evidentemente, chi ha redatto il documento dà per scontato che tali abilità di intrattenimento siano connaturate allo spirito di tutti gli insegnanti, tutti novelli Fiorello Barbero Schettini… Siamo sempre lì: “tutto si terrebbe”, potremmo dire…

Contenutisticamente, le “Indicazioni” insistono ancora su una discutibile operazione di costruzione identitaria addirittura già alla Primaria: vicende legate al Risorgimento, alla Resistenza e al mito fondativo nazionale: “Il racconto in breve della nascita dell’Italia: da molti Stati regionali ad una nazione libera e indipendente, Mameli e l’inno nazionale (spiegazione del contenuto), poesie e canti del Risorgimento. Racconti ricavati dalle vicende del Risorgimento e della Resistenza a scelta degli insegnanti” (“Conoscenze, Scuola Primaria”, pag. 56).

E poi, la perla finale: negli “Obiettivi specifici di apprendimento al termine della classe terza, Scuola secondaria di I° grado”, Pag. 58), le rivoluzioni citate sono solo quella americana e francese: la rivoluzione russa non trova spazio. Il comunismo, invece, è nominato solo come elemento che ha contribuito alla disgregazione dell’Europa liberale: “La pace di Versailles e la disintegrazione dell’Europa liberale: comunismo, fascismo, nazismo” (p. 58). Scelta selettiva e ideologica, visto che a nessun nazifascista si è mai messo a scrivere una Costituzione democratica…

 

Conclusioni

Le nuove “Indicazioni” del giugno 2025 tentano di ammorbidire i toni incendiari del testo di marzo, ma non modificano l’impianto ideologico. Emergono evidenti contraddizioni tra principi dichiarati e pratiche suggerite. Alcune aperture (IA, narrazione storica, attenzione alle emozioni) non vengono sostenute da strumenti adeguati, né da un programma di formazione per i docenti. La creatività è evocata come formula magica, il teatro come folklore educativo, la storia come nostalgia identitaria. E per migliorare la scuola non servono slogan, ma progetti seri e coerenti, radicati nella realtà della classe e nella competenza degli insegnanti. E soprattutto, tante, tante risorse.

 

[1] https://www.odysseo.it/le-indicazioni-nazionali-2025-e-il-parere-del-cspi/

[2] https://laricerca.loescher.it/nuove-indicazioni-2025-infanzia-e-primo-ciclo-5/ 

[3] https://www.lepocaculturale.it/2025/03/28/credere-obbedire-insegnare-17-voci-critiche-sulle-nuove-indicazioni-scolastiche/?utm_source=chatgpt.com

 

 

Che ne pensate? Per qualunque cosa vogliate dirmi riguardo ai miei articoli su questo Blog, dagli apprezzamenti, ai consigli, alle critiche fino agli insulti (questi ultimi però purché formulati rigorosamente in lingue antiche), scrivete a: antonellotaurino1@gmail.com .

  • Antonello Taurino

    Docente, attore, comico, formatore: in confronto a lui, Don Chisciotte è uno pratico. Nato a Lecce, laurea in Lettere e diploma in Conservatorio, nel 2005 si trasferisce a Milano. Consegue il Diploma di attore nel Master triennale SAT 2005-2008 del M° J. Alschitz e partecipa a Zelig dal 2003 al 2019. Si esibisce anche inglese all’estero con il suo spettacolo di Stand-up, Comedian. Attualmente è in tournèe con i suoi spettacoli (non tutti la stessa sera): Miles Gloriosus (2011), Trovata una Sega! (2014), La Scuola non serve a nulla (2016) e Sono bravo con la lingua (2020). La mattina si diverte ancora tanto ad insegnare alle Medie. Non prende mai gli ascensori.

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La scuola non serve a nulla

COSA C’ENTRA ALVARO VITALI CON DON LORENZO MILANI

Forse pochi sanno che... -di Antonello Taurino

COSA C’ENTRA ALVARO VITALI CON DON MILANI

Non ho mai capito come mai, guardando i film di Pierino, nessuno di noi piccoli spettatori si fosse mai posto il problema che in quella classe ci fosse un quarantenne in mezzo a dei ragazzini. Ma proprio quarantenne quarantenne, uno con la faccia di chi paga il mutuo da vent’anni e si preoccupa del colesterolo. Va bene, sospensione dell’incredulità, come dicono quelli bravi; ma non è di questo che voglio parlare, ricordando Alvaro Vitali.

Credo che ai film di Pierino si possa far risalire l’origine di uno dei più simpatici fraintendimenti letterario-pedagogici dell’Italia postunitaria (ne ho appurato la massiccia diffusione!), che a volte uso per sgamare simpaticamente chi ha letto davvero, o dice solo di aver letto, “Lettera a una professoressa” di Don Lorenzo Milani.

Lo sapete, in quel testo vengono citati due alunni-simbolo: Pierino e Gianni. E qui casca l’asino.

Ora, per don Milani, Gianni è l’alunno contadino, il figlio dei poveri, il malato che la scuola classista scaccia come un cagnaccio pulcioso e che conosce solo “cento parole”; mentre Pierino… ah, Pierino! Lui è il diligente figlio del dottore, l’educatissimo rampollo dei padroni, il prodotto della grande borghesia, insomma “il ricco”, che con le sue “mille parole”, della scuola quasi non avrebbe bisogno.

Per Gianni c’è il lavoro nei campi, la necessità di imparare a ribellarsi e il dovere di fornirgli gli strumenti per farlo. Per Pierino, invece, c’è la strada spianata fatta di liceo Classico, Università, e poltrona dirigenziale. Qualcosa che, diciamocelo, sa tanto di autobiografico, visto che lo stesso Don Lorenzo, prima di farsi prete, proveniva da una famiglia borghese. Ma era un Pierino che aveva visto la luce; o forse che (coincidenza, esattamente come Alvaro Vitali!), “si era rotto le scatole di fare Pierino”.

Credo che proprio ai film di Pierino/Alvaro Vitali si possa imputare il corto circuito semantico per cui chi non conosce precisamente la “Lettera…” scambi ovviamente i ruoli; chè nei film di Vitali, Pierino è la peste per antonomasia, il discolo che ti riempie la cartella di rane e dice le zozzerie alla maestra… mentre Gianni fa tanto non solo Agnelli, ma pure il “Gianniiiino!!!” borghesuccio milanese che viene a scuola con l’autista… (e in un paio di quei film, il bambino educato con la riga in mezzo si chiama proprio “Gianni”!). Insomma, tutto al contrario. Per questo mi diverto molto a usare la coincidenza come Detector Test, sadico e infallibile, per individuare i pedagogisti da aperitivo.

Ma mi piace pensare che Alvaro Vitali sia idealmente quasi riuscito in quell’impresa titanica, sovvertendo retroattivamente l’ordine sociopedagogico nazionale, che è la stessa in cui il sistema scolastico nazionale sta, forse, ancora fallendo: confondere due archetipi opposti di classe sociale, nell’utopica promessa di pareggiarne le opportunità di partenza.

E tutto questo… grazie a un quarantenne, con già i suoi problemi di prostata, come alunno delle elementari! Così vecchio che non potevi neanche giustificartela con “Discolo com’era, chissà quante volte l’hanno bocciato”.

Ciao Alvaro, ci hai fatto ridere tanto. I buchi delle tue serrature erano le stimmate simboliche del nostro orizzonte formativo; le tue barzellette, riti narrativi ancestrali per le nostre pulsioni più infantili; le tue smorfie, puntello recitativo tra una scorreggia e un lazzo, col fischio o senza.

Ciao Alvaro. Che la terra ti sia leggera come i tuoi film, e le serrature delle porte sempre senza chiavi.

Ciao Alvaro. Da questa sera, e per dieci notti consecutive, i coprisedile dei cessi di Chicago saranno a mezz’asta.
E anche quelli di Milano, per non far torto a nessun Gianniiiiino.

 

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La “Giornata Internazionale degli Insegnanti” e alcune attività di inizio anno…

Cose che faccio in classe mentre dal Ministero arrivano deliri

Cari colleghi martiri dell’Istruzione, bentornati: anche quest’anno, dopo quel dolce mese e mezzo in cui noi insegnanti riscopriamo il piacere della vita per poi vederlo dissolversi al suono della prima campanella, ecco che, freschi come una mozzarella scordata al sole, tempo un altro mesetto e puntuale vediamo arrivare pure il 5 ottobre, “La Giornata Internazionale degli Insegnanti”. Un appuntamento immancabile come le zanzare a Ferragosto o l’herpes labiale prima di un appuntamento galante, ma anche un’occasione per riflettere seriamente in che stato siamo, come categoria, e dove sta andando la nostra professione.

Quest’anno, tra le meraviglie della scuola italiana, spiccano varie perle. Innanzitutto, l’algoritmo criminale che scippa cattedre ai precari storici: un capolavoro di sadismo digitale, un incomprensibile Tetris giocato sulle vite degli insegnanti contro cui giustamente veementi sono le proteste per una situazione non ancora risolta. Poi la proposta di legge di eliminare dalle scuole una roba che non esiste, cioè la fantomatica “Teoria Gender”, di modo che, a furia di richiami, qualcuno mosso a compassione possa prendersi la briga di inventarla davvero, finalmente. Segue la circolare col divieto di usare il cellulare in classe, un’insulsa condanna alla vita preistorica degli studenti; che fa pendant, nel Festival dell’Irrazionale che è ormai il nostro Ministero, con l’avvio in alcune scuole italiane della sperimentazione per l’uso didattico dell’Intelligenza Artificiale. E ancora, il nuovo voto in condotta, che, sommato al ritorno ai giudizi sintetici nella Primaria, è il nostro personalissimo biglietto di sola andata per la scuola degli anni ’50, ma senza l’unica cosa buona che quella scuola aveva: il suo essere davvero “ascensore sociale”. Insomma, perché costringere gli studenti a vivere nel XXI secolo, quando possiamo catapultarli direttamente nel Medioevo? Magari prossimamente si proverà a reintrodurre la scrittura cuneiforme su tavolette d’argilla… ma se tutto ciò fosse nient’altro che una gigantesca e sibillina proposta per un “compito di realtà” in Storia (e ancora non l’avessimo capito), vi prego: anche meno, che la cosa vi ha preso un po’ troppo la mano…

Dulcis in fundo, per non farci mancare nulla, la proposta dell’ultima ora è quella – non è una barzelletta – di adottare alla Primaria il libro “Perché l’Italia è di Destra”, di Italo Bocchino. Il titolo è di quelli che ti spingono a far bagagli e trasferirti su Marte; per l’autore, poi… ma che Rodari, Andersen o Saint-Exupery: “Bocchino per tutti”, e bona lì.

Ma non siamo qui per raccontare tragedie, o almeno non solo. Volevo più che altro parlarvi di un paio di mie personali pratiche didattiche di inizio anno, giusto per cercare di non trasformare il fegato in polvere da sparo visto quello che ci arriva dall’alto, che la follia può essere un’eccellente strategia di sopravvivenza a tutto ciò.

La prima attività, una specie di “Hunger Games” emotivo alla Stephen King, prevede il mio ingresso in classe, nei primi giorni dell’anno, con un sorriso inquietante da Joker e la successiva distribuzione di biglietti sui quali chiedo agli alunni di scrivere anonimamente – ma è un anonimato che dura quanto una dieta a Natale – i loro desideri più segreti, le paure più angoscianti, le speranze più luminose in vista del nuovo anno scolastico. In pratica, una specie di “Caro Diario”, ma senza il lucchetto e con più suspense. In contemporanea, io stesso, con la mia calligrafia da referto medico post sbornia e durante un terremoto, scrivo su un foglio “Come vorrei che fosse quest’anno scolastico”: diventa il sigillo di una scatola in cui raccolgo i bigliettini scritti dai ragazzi passando tra i banchi come un monaco questuante.

Poi quella scatola, saldata col foglio della vergogna e lo scotch del mistero, la si lascia lì per tutto l’anno appollaiata su un armadio della classe, quasi un gufo giudicante a fissar gli alunni, mentre raccoglie polvere e un po’ dei loro sensi di colpa, a metà tra l’incombenza di un’urna cineraria e la goffa tenerezza d’un innocuo cucù abbandonato.

L’ultimo giorno di scuola la scatola verrà aperta, come l’armadio di Narnia, e i bigliettini verranno letti: ma al posto di leoni e streghe ci troveremo davanti aspettative schiacciate, sogni infranti e i segreti più reconditi degli alunni, e lì si giocherà di bilancino tra aspettative e realtà. Se l’alunno riterrà di svelarsi alla classe come autore del bigliettino appena letto, bene. Se no, ancora meglio: eviteremo scena da telenovelas brasiliana.

Chiaro che dovrebbero scrivere cose attinenti alla scuola, o frasi simil Perugina tipo “spero che mi trovo bene coi compagni” e bla bla, ma nel corso degli anni sono venute fuori cose da sceneggiatore di Netflix: una ragazzina mogia mogia in una scuola in provincia di tanti anni fa, che sperava nella guarigione della madre (era in terapia per cure complicate… spoiler uno: a fine anno tutto bene, quindi lieto fine); l’alunno con ambizioni olimpiche che sognava per il marzo successivo di vincere i campionati nazionali juniores di non so più cosa (spoiler due: ricordo però che li vinse, quindi applausi); e poco tempo fa, lo strazio d’uno studentello X che manifestò quanto avrebbe gradito fidanzarsi con la compagnuccia Y, durante quell’anno, per una sorta di pubblico “Ti vuoi mettere con me: SÌ / NO” (ma pare che lei lo abbia subito friendzonato in una solitudine che ancora rimbomba nei corridoi, non solo quell’anno ma pure gli altri successivi due di Medie).

La seconda attività è un po’ più creativa. Chiedo ai miei alunni di inventare verbi. Sì, avete capito bene: verbi nuovi di zecca, freschi di fabbrica, neologismi, con tanto di significante e significato, la parola e il senso. Poi, li faccio coniugare come fossero verbi regolari (tanto devono imparare le desinenze, non le radici… tanto vale…). Quest’anno, con i miei alunni, sono saltati fuori verbi tipo pandare (“affezionarsi a una specie in via d’estinzione”, per esempio i prof. con contratto a tempo indeterminato), rigere (“grattare le unghie lunghe contro la lavagna”, cioè il suono dell’Apocalisse), faccere (“guardare dall’alto al basso in modo giudicante”, l’espressione base di ogni docente il lunedì mattina), crogare (“cercare parole sul dizionario per vedere se esistono”), furchire (“fare tanti assaggi di gelato prima di scegliere il gusto), e tardicchiare (“mordere in continuazione Il tappo della penna”). Ma tra i miei preferiti, anche lostincere (“dire sì o no con la testa”, perfetto per il Collegio Docenti), franceloquire (“parlare con gli animali”, che è ciò che faceva il poverello di Assisi ma può tornar utile anche in certe classi di quindicenni), eremare (“isolarsi”, ideale per certi prof. durante gli scrutini), zugrinare (“portare fuori il cane quando piove”, uno sport estremo, in pratica) e barmire (cioè “trovare un senso a verbi inventati per un compito di italiano”). Sì, roba da scrittore di fantascienza che ha esagerato col metadone, ma questi verbi poi li coniughiamo: partendo dal primo, presente indicativo, “io pando, tu pandi, egli…” ecc.

Ecco, mi pare la degna conclusione per augurarvi buona “Giornata Internazionale degli insegnanti” e buon anno scolastico. Meglio inventare verbi assurdi che prendere l’ulcera pensando a quel che succede nei piani alti.

E se tutto va male, ricordate: c’è sempre la possibilità di una carriera come scrittori di dizionari surreali…

 

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