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COVID-19. “È sbagliato e fuorviante parlare di guerra”, dice il chirurgo Paolo Setti Carraro

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È sbagliato e fuorviante associare la pandemia di COVID-19 che stiamo vivendo a situazioni di guerra. Ne è convinto Paolo Setti Carraro, medico chirurgo che ha lavorato per tanti anni in un ospedale milanese e nel 2009 ha deciso di lasciare quel suo lavoro sicuro a Milano per trasferirsi in giro per il Mondo: dalla Sierra Leone allo Yemen, da Haiti all’Iraq. E poi Sud Sudan e Afghanistan.

Setti Carraro ha operato con Medici Senza Frontiere e con Emergency. In Sierra Leone, nel 2014, si è trovato di fronte al virus Ebola. Il suo racconto a Memos con Raffaele Liguori inizia dall’ultima delle sue esperienze, nella Striscia di Gaza, dove si trovava fino a pochi giorni fa.

Com’è la situazione a Gaza in questo momento?

Gaza è un po’ come l’Italia e l’Europa in questo momento. Le attività chirurgiche e mediche elettive sono tutte sospese. Gli sforzi della popolazione, del Ministero della Sanità e di tutte le strutture sanitarie sono concentrate nella lotta contro il COVID-19. A Gaza per il momento ci sono stati due casi di cittadini palestinesi rientrati attraverso il Valico di Rafah, al confine con l’Egitto, e venuti a contatto con un certo numero di guardie di frontiera. Sette di queste sono poi risultate positive. Tutti i positivi sono stati isolati in una struttura dedicata e in questo momento il focolaio sembra sotto controllo. Diverso, invece, quello che è accaduto nella West Bank, la Cisgiordania occupata, dove i casi sono ormai 130.

In una zona come la Striscia di Gaza è possibile mettere in atto la politica del distanziamento sociale?

Il distanziamento sociale è difficile da realizzare, ma è l’unica attività preventiva che funziona. Il 50% circa della popolazione di Gaza è ormai confinata a casa e possiamo dire che queste misure di stanziamento sociale sono ben accette perché c’è coscienza che questo sia il sistema migliore per contenere la diffusione del virus. La Striscia di Gaza è l’area del Mondo più densamente popolata: ci sono due milioni di persone in una striscia lunga 40 chilometri e larga dai 10 ai 12 chilometri. La densità abitativa è di 5mila persone per chilometro quadrato, quindi una situazione ad altissimo rischio di esplosione. A questo si aggiunge il fatto che le strutture sanitarie di Gaza, dopo 13 anni di embargo israeliano, non hanno le capacità tecniche e le competenze per poter affrontare, come nel resto del Mondo, l’eventuale esplosione di una pandemia.

Quella di Gaza è la sua ultimissima esperienza. Nel 2014 si trovava in Sierra Leone ai tempi del virus Ebola. Cosa ha significato per lei e per il suo lavoro trovarsi in quella circostanza?

L’origine di quell’epidemia di Ebola avvenne in Guinea alla vigilia di Natale del 2013. Da lì l’epidemia si è diffusa nel resto della Guinea, in Liberia e nella parte orientale della Sierra Leone con il picco dei contagio verso aprile 2014. Tra quell’aprile e i mesi di settembre ed ottobre 2014 lo sviluppo di queste misure precauzionali e di distanziamento sociale, ma anche l’identificazione e l’isolamento dei contatti e la costruzione di strutture di isolamento e di trattamento dei pazienti sembravamo aver messo un freno all’epidemia. Tra l’ottobre e il novembre del 2014, visto il calo dei contagi, le maglie si sono un po’ allentate e la gente ha iniziato a spostarsi dalle province orientali verso la capitale e c’è stata la seconda ondata di contagi che ha investito Freetown e lì Emergency ha risposto con l’apertura di centri medici e di isolamento intorno alla Capitale. Il secondo picco è stato contenuto, ma l’epidemia è stata dichiarata finita nel gennaio-febbraio del 2016, più di due anni dopo.

La letalità di Ebola è superiore rispetto a quella del coronavirus COVID-19. Il contagio, invece, è più debole o più forte?

Il contagio di Ebola è estremamente elevato. È un virus che si trasmette con tutte le secrezioni umane – saliva, lacrime, sputo, urine, sperma, feci e sudore – e le vie di contagio sono più ampie di quelle del coronavirus COVID-19, ma questo non viene escreto nelle urine ed è presente nel 25%/30% dei campioni delle feci. Il COVID-19 si trasmette attraverso le mucose e soprattutto per via aerea. La capacità di contagio del COVID-19 è sicuramente inferiore rispetto ad Ebola, ma la capacità di infettare è estremamente elevata.

Dal racconto che stiamo sentendo si capisce che lei ha vissuto in situazioni molto difficili e complicate, dove si doveva intervenire in alcuni casi anche durante condizioni di guerra armata. Lei avrà sentito paragonare l’attuale pandemia di COVID-19 ad una guerra. È esagerato questo paragone?

Io credo che la definizione di questa epidemia di COVID-19 come una guerra sia fuorviante. È fuorviante e serve soltanto a creare ulteriore timore e a creare una situazione psicologica di rinuncia e di delega. Se si accetta l’idea di creare una psicologia di guerra è molto facile per le persone terrorizzate accettare una logica di delega di poteri non ai competenti, ma a figure in grado di concentrare su di sé le scelte.
Io credo che sia pericoloso insistere nel definire questa pandemia di COVID-19 una situazione di guerra. È una situazione di epidemia molto grave, che ci trova impreparati e ci porta ad affrontare l’epidemia più sul versante curativo che non sul versante di prevenzione e di assunzione di responsabilità e di comportamenti idonei a limitare il contatto.
Ebola è stata sconfitta in Sierra Leone tracciando i contatti, isolando le persone, mantenendo le distanze e cambiando le pratiche funerarie. È drammatico e la popolazione italiana sta vivendo in questo momento cosa significa non poter accompagnare i propri cari nell’ultimo viaggio.
In Africa c’era l’abitudine di lavare i cadaveri e aspergere tutta la famiglia allargata durante il funerale con l’acqua usata per lavare i cadaveri.
È giusto uscire da una logica di guerra ed entrare in una logica dolorosa di un’epidemia che richiede comportamenti, responsabilità e solidarietà: io mi astengo dall’uscire perché so che in questo modo proteggo me stesse, i miei cari e i miei concittadini.

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    Dopo 18 ore di fermo, Ayoub è libero. A Milano il presidio solidale

    Si è concluso questa mattina il presidio organizzato davanti all’ufficio immigrazione di via Montebello a Milano per chiedere la liberazione di Ayoub. Il ventunenne di origini tunisine è stato liberato dopo quasi 18 ore di fermo. Ieri pomeriggio si trovava davanti a un bar sotto casa insieme a un amico, quando è arrivata una volante della polizia che ha iniziato a controllare i documenti dei presenti. Gli agenti gli hanno tolto il telefono e l’hanno portato in questura perché il suo permesso di soggiorno non era in regola. Ayoub, che partecipa alle attività del centro sociale Lambretta ed è seguito dalla comunità Kayros di Don Claudio Burgio, ha passato la notte in questura in attesa di un’udienza per decidere della sua espulsione dal territorio italiano. Dopo aver fatto domanda d’asilo, questa mattina Ayoub è stato liberato. Il 22 aprile dovrà presentarsi nuovamente all’ufficio di immigrazione con il suo avvocato. Secondo il centro sociale Lambretta, che ha organizzato il presidio, “quello che è accaduto non è un’eccezione: è la normalità per oltre un milione di persone senza documenti in Italia. Un sistema che criminalizza la migrazione, sospende lo stato di diritto e produce esclusione sociale”. Dopo il rilascio di Ayoub, le persone in presidio, una cinquantina, l’hanno accolto con un coro: “Tutti liberi, tutte libere”. Tra gli applausi, i ragazzi e le ragazze che lo aspettavano si sono stretti attorno a lui in un abbraccio collettivo. Chiara Manetti ha intervistato Ayoub dopo il suo rilascio.

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