Tra Buddha e Jimi Hendrix

Rivendicare il diritto di essere malinconici: meno mental coach, più bella musica e Zerocalcare!

Diciamoci la verità: non se ne può più di mental coach, motivatori, guru del self-help o semplicemente gente che ha letto due libri di miglioramento personale mentre era a un passo dal gettarsi dal balcone e, siccome non si è buttato, ora pensa di avere un master in felicità e di doverla insegnare agli altri. E poi, cosa più importante di tutte, non se ne può più di trattare un sentimento nobile come la malinconia, anche detta affettuosamente “skazzo cosmico”, come un erbaccia da estirpare per apparire sempre ebeti e sorridenti. E che palle! Il nostro umore cambia come il tempo atmosferico: un po’ c’è il sole, un po’ diluvia, più spesso va così così. Ed è qui che si materializza lo “skazzo cosmico”, che fa parte dell’equazione e come tale va accettato e rispettato.
Credo sia per questo che Zerocalcare – il nome sulla bocca di tutti in questi giorni per via della serie animata di Netflix tratta dai suoi lavori – ottenga tanto successo. Perché nelle sue storie, nell’intimo più profondo del suo personaggio, la malinconia vive, cresce, prospera, torna finalmente valore e non disvalore. Ma attenzione, lo “skazzo cosmico” che tutti viviamo e così ben raccontato dall’autore di “La Profezia dell’Armadillo” non è nichilismo, non è cultura del nulla e del disimpegno. Rappresenta più che altro un dolce e rassegnato abbandono alle incomprensibili leggi dell’universo, in cui noi poveri cristi gettati in questo mondo come “attori senza una parte” (cit. raffinatissima da “Riders on The Storm” dei Doors, perdonate il mio alto livello di figaggine) ci stringiamo nella nostra felpa logora sciogliendoci con i Radiohead in cuffia ben consapevoli che tutto cambia, tutto è imprevedibile, tutto è impermanente e, una volta nati, son tutti cazzi nostri. Ma questo non ci rende depressi, non ci porterà a una corda al collo, al contrario ci godremo la vita, l’amicizia, i viaggi e l’amore come tutti. Semplicemente, di tanto in tanto, ci immalinconiremo nel prendere atto che alcune cose che non ci sono più ci mancano, o ci dispiaceremo al pensiero che certe estati non durino per sempre, che i Police non torneranno più insieme, che non ci sarà mai una nuova puntata di Happy Days, che nostro padre non tornerà la roccia che era, eccetera eccetera. E lo so, lo so, “bisognerebbe vivere nel presente” dicono i guru, ma anche “e sti cazzi” rispondiamo noi.
La società attuale non contempla più la tristezza, l’imperfezione e, tanto meno, la malinconia. Devi essere sempre felice, sorridente, sano, bello, ben conscio di dove stai andando e perché. L’ aspetto vincente tout court dell’esistere è ormai talmente importante da aver fatto nascere un florido business per aiutarti a raggiungere l’obbiettivo. L’importante è non apparire insicuri, tristi e malinconici. L’importante è nascondere le proprie debolezze davanti al mondo. Che è un po’ come vivere una vita mascherati o, per dirla più modernamente, con il filtro perenne di Instagram sulla nostra espressione migliore.
Ho sempre odiato questo modo di vedere la vita, e per svariate ragioni. Sono sempre stato un tipo insicuro, spaventato, spesso a pochi passi dal cadere di sotto, vittima se non proprio di una profonda tristezza, certamente di un’avvolgente malinconia. Così avvolgente da diventare quasi una sorta di coperta calda a cui, dopo tanti anni, mi sono affezionato. Già perché la malinconia non è una cosa brutta. Anzi. Ogni tanto vivere come dentro un video triste che va avanti al rallentatore per ore e ore non è niente male. Soprattutto se hai la musica a farti compagnia.
Tutti noi, durante un momento difficile, ci siamo ritrovati avvolti nel nostro maglione sformato – quello che indossiamo in quelle giornate un po’ così – ad osservare la pioggia che cadeva dalla finestra mentre una playlist a tema invadeva la stanza con i suoi suoni perfetti per la situazione. Proprio come se ogni canzone ci scavasse dentro. Adoravo farlo a vent’anni e adoro farlo anche oggi che ne ho più di quaranta. Certo, adesso che sono papà posso cullarmi molto meno nell’apatia esistenziale ma ogni tanto, se capita, mi concedo anche io di essere malinconico. Vedo il ‘momento nostalgia’ non come un nemico da abbattere ma uno stop necessario per rallentare un po’, ripassare le cose veramente importanti e poi ripartire. Anche perché con la tristezza c’è poco da fare, devi solo aspettare che passi. Come un temporale. Quando piove non andiamo ad agitare i pugni contro le nuvole urlando al cielo di smetterla di frignare, perché sappiamo non servirebbe a nulla.
Ci sediamo comodamente al riparo, osserviamo le nuvole e aspettiamo che spiova, cosa che regolarmente accadde.
Come insegnano i grandi saggi orientali – non quelli in tuta da ginnastica che fanno milioni di views su youtube e poi finiscono sui giornali per aver molestato qualche ragazzino, parlo dei saggi veri – arriva la tristezza, poi la gioia, ancora e ancora. Tutto viene e tutto va. È solo un mood mentale, che prima e poi passerà esattamente come prima o poi smette sempre di piovere. Tolta quella tristezza che proviene da effettivi traumi, che so una malattia, un lutto, o l’amore della nostra vita che ci lascia per sempre, il 90% della nostra infelicità nasce dentro di noi e dipende da quante nuvole ci portiamo dentro in quel momento. Infatti gli stessi accadimenti vengono vissuti in maniera diversa a seconda del nostro umore. Se ci tamponano in macchina una mattina in cui siamo incazzati, in ritardo e siamo stati appena multati dai vigili ci incazziamo come dei puma, ma se invece ne veniamo da casa di quella rocker tatuatissima che è la nostra vicina, la quale ci ha accolto in perizoma prima di sedurci sulle note di White and Bleed degli Slipknot, e in più abbiamo vinto un biglietto omaggio per il concerto dei Rolling Stones, probabilmente di quel colpetto sul parafango non ce ne fregherà niente. Congederemo il tamponatore del mattino con una pacca sulla spalla, semplicemente dicendogli: “Tranquillo, fratello, son cose che succedono, vai pure. E buona giornata”.
Capito l’antifona? La macchina umana è tanto semplice quanto complessa.
In conclusione, amici, non c’è niente di male a essere giù di morale, a sentirsi degli impiastri o a non apparire fighi come ci vorrebbero gli altri. Essere forti non significa non andare mai al tappeto ma avere la capacità di accettare i brutti momenti, affrontarli e rialzarsi. E poi ricordate, le sensazioni che ci attraversano, belle o brutte che siano, sono come nuvole che attraversano il cielo. È sicuro che arriveranno come è sicuro che se ne andranno. Ma noi siamo il cielo, che sotto quelle nuvole, resta sempre azzurro.
Quindi, citando il Grande Lebowski, prendiamola un po’ come viene e, mentre lo facciamo, possibilmente ascoltiamo qualche bella canzone.
Ora vi saluto, metto “Kid A” in cuffia, alzo il cappuccio della felpa e abbraccio forte il mio malconcio ma adorabile armadillo interiore. Ma lo sapete che è davvero morbido?

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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    Il Maestro, caduta e rinascita di un ex divo del tennis nella Roma degli anni ‘80

    Raul Gatti è un ex campione del tennis caduto in disgrazia, alcolista e disoccupato, interpretato da Pierfrancesco Favino nel film Il Maestro: “Ho seguito il tennis fin da ragazzo e mi sono subito affezionato a questo personaggio perdente, il più fallito che ho interpretato nella mia vita. Perché anche quelli che ho rappresentato in passato, per quanto fossero decaduti, avevano comunque un atteggiamento da vincenti”. Siamo negli anni ‘80 e Gatti viene assoldato per allenare un giovanissima promessa, Felice Milella, un ragazzino di 13 anni con i numeri per partecipare ai match più prestigiosi. Il regista Andrea Di Stefano aveva questo progetto nel cassetto molto prima che il tennis tornasse ad essere uno sport di moda: “Ho scritto questa sceneggiatura nel 2006, l’ho depositata e abbiamo le prove – ironizza il regista. Doveva essere il mio primo lungometraggio, prima ancora di realizzare L’ultima notte di Amore, con Pierfrancesco Favino, a cui avevo già pensato allora per questo personaggio di divo decaduto”. L'intervista di Barbara Sorrentini al regista Andrea Di Stefano e a Pierfrancesco Favino.

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