Com’è noto, a marzo 2025 sono state emanate dal MIM le “Nuove Indicazioni Nazionali per il curricolo – Scuola dell’infanzia e Scuole del Primo ciclo di istruzione”, che dovrebbero sostituire quelle del 2012. Sapete anche come queste “Indicazioni”, proprio a partire dal marzo scorso, sono state oggetto di massicce critiche, per vari motivi: innanzitutto per la forma (sghemba e impacciata, con refusi grafici e un periodare goffo: altro che il richiamo all’ “attenzione alla forma” della scrittura); per la concezione euro-italo-centrica della storia; per il “ritorno al passato” nelle metodologie didattiche; per l’elenco dettagliato di “conoscenze” e “obiettivi” che le rendevano di fatto nuovi programmi; per la nebulosità su “abilità, conoscenze e competenze”; per l’insistenza su “nazione” e “famiglia” (di un tipo solo, ovviamente); per la violenza di genere come “triste patologia” e non come questione culturale sistemica… In sostanza, per il loro essere “recinto, più che orizzonte” [1]. Da cui segue che, se persino nell’habitat generalmente sonnacchioso dei docenti italiani si è vista tale mobilitazione (superiore alle aspettative), allora si può davvero concordare con chi ha definito il documento addirittura “inemendabile e irricevibile” [2], tanto è fuori fuoco. Ancor meglio ha riassunto chi ha usato la luciferina “severamaggiusta” formula “ciò che vi è di buono, non è nuovo; ciò che invece è nuovo, è pessimo” [3].
In teoria, quella di marzo era una bozza redatta per offrirla in consultazione, che il Ministero quindi forniva al mondo della scuola per riceverne un parere (anche lì: ridicolo che non si potesse, letteralmente, esprimere giudizi negativi; e comunque, con una finestra temporale molto ristretta… un po’ come chiedere a qualcuno: “Ti piace questo piatto che ti ho cucinato?” ma con la pistola puntata).
E appunto (anche se pare non lo sa nessuno), udite udite, nel mese di giugno 2025 sono uscite le nuove “Nuove indicazioni”, cioè quelle che il Ministero avrebbe emendato e corretto secondo i suggerimenti (o meglio, i vibranti ruggiti di proteste) arrivati in merito a quelle di marzo. Spoiler: a furor di popolo, sono stati modificati alcuni – pochi – elementi estremi in quelle di marzo 2025, che si imponevano con piglio ben più incendiario nel loro ideologico ritorno al passato. Queste “Nuovissime Indicazioni” di giugno (più corte: 100 pagine invece di 150) limitano, ribadiamo, solo in parte quella furia antimodernista: un passo davvero troppo timido per salutarlo come positivo, considerato che l’impianto generale è confermato (si sottolineano, però, passi avanti sulla didattica laboratoriale in ambito scientifico). E tuttavia, come anticipavo, sorprende molto questo: se le “Indicazioni” di marzo hanno giustamente suscitato un vespaio, queste di giugno (che sarebbero anch’esse una bozza, quindi ancora modificabili prima della loro entrata in vigore dal 2026-2027) sono passate via nel più preoccupante dei silenzi. E sarebbe il caso di parlarne, proprio perché queste ultime modifiche dimostrano che proteste veementi non possono essere totalmente ignorate: non è dunque trascurabile la loro capacità di influenzare scelte e indirizzi.
Io però volevo soffermarmi su una rilettura di queste ultime Nuove Indicazioni di giugno 2025 (d’ora in poi, citerò sempre e solo stralci da queste), alla luce di cinque aspetti, solo questi, quelli che mi interessano particolarmente e che conosco meglio. Di cui parlo da anni nei corsi che tengo, e su cui, quindi, provo a restare aggiornato al meglio che posso. Questi punti sono: la grammatica valenziale, l’intelligenza artificiale a scuola, la scrittura creativa, il “docente-attore” (il docente in quanto “consapevole performer della scena dell’apprendimento”), e la didattica della storia. Ho provato a usarli come lenti per guardare in maniera laica all’impianto generale del documento, senza pregiudizi ideologici.
Grammatica valenziale
Riguardo alla Grammatica Valenziale, si deve partire da come è intesa la Grammatica in generale nel testo. Ebbene, le nuovissime “Indicazioni” di giugno 2025 confermano l’approccio normativo alla grammatica già espresso a marzo: innanzitutto, con la centralità della “regola”, moloch supremo presentato come strumento per inculcare, sul piano linguistico, il senso di valori come il “limite” e “l’etica del rispetto”, magari per farlo così migrare anche altrove: “in virtù delle ‘regole’ (regole di comportamento, ma anche le regole di grammatica), l’allievo interiorizza il senso del limite e un’etica del rispetto verso il prossimo” (Premesse culturali, p. 8). La grammatica è quindi una struttura calata dall’alto, da apprendere piuttosto che ricostruire; tabula rasa perciò di alcune principi didattici, peraltro non recenti, che ispirati dai vari Rodari, Don Milani, De Mauro – dalle “Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica”), si stava provando faticosamente a diffondere nelle nostre scuole. Si agitano poi come “minacciosi spauracchi” fenomeni che non risultano essere mai stati reali pericoli nell’insegnamento grammaticale, cioè quelle “concezioni che esaltano un’idea di lingua come fenomeno spontaneo, sopravvalutando le varietà d’uso e la creatività del soggetto” (“Discipline, ITALIANO”, pag. 34: ma dove li avete visti tutti questi “piccoli Bergonzoni” nelle nostre aule? E soprattutto: quando mai li si è incitati?). La correttezza grammaticale e ortografica “deve essere presentata come una forma di rispetto per gli altri: dunque anche come un dovere sociale” (“Discipline, ITALIANO”, pag. 34): e certo, perché chi non riesce a esprimersi correttamente, lo fa apposta, per dispetto e intima misantropia, mica per altro.
Più nello specifico, tra le competenze “richieste” agli alunni in queste “Indicazioni”, compare la capacità di riconoscere la “gerarchia dei costituenti” della frase (“Discipline, Italiano”, p. 37), che è esattamente il campo di studio della grammatica valenziale: e però (una delle tante contraddizioni del testo), non viene citato il modello che meglio permetterebbe di indagarla: appunto, la Valenziale. Vero è che ci sarebbe un tanto straordinariamente innovativo – quanto ‘stonato’ – accenno alla pragmatica e alla “Teoria degli atti linguistici” di Austin, quando si citano le “funzioni illocutorie e perlocutorie” (“Secondaria di I grado”, p. 39); ma questa apertura non viene sviluppata: sembra buttata lì, per caso, senza nessuna ripresa. Quasi a far vedere solo che la si conosce, come quando al liceo citavi Nietzsche anche se parlavi di geografia.
Tirando le fila, si capisce bene come in questa concezione linguistica, ben lontana dall’idea di “riflessione sulla lingua”, per il laboratorio di grammatica valenziale (con il suo sperimentalismo, il suo approccio di scoperta “esperienziale” della regola e di induzione “bottom-up”), proprio non ci sarebbe spazio. E senza considerare che le “Indicazioni” di marzo 2025 avevano finalmente almeno nominato la Grammatica Valenziale: accenno scomparso nella versione di giugno.
Uso dell’Intelligenza artificiale nella didattica
Sull’Intelligenza Artificiale (IA) si riconosce, giustamente, che la scuola non può ignorare i tumultuosi mutamenti in atto: direi con buon senso, si afferma anche la necessità di sviluppare al riguardo il senso critico negli alunni: “… si sollevano questioni etiche profonde sulla natura umana e il suo futuro” (“Premesse culturali”, p. 9).
Vengono elencati usi concreti e ragionevolmente positivi: strumenti digitali che favoriscano esperienze di apprendimento “immersive e interattive” (“Organizzazione del curricolo di scuola”, pag. 24), che stimolino il senso critico “nella capacità di valutare la qualità delle risposte date dall’IA” (“CONOSCENZE in Letteratura per la Classe terza delle Scuola Secondaria di I° Grado”, pag. 40). Addirittura, che siano supporto alla valutazione, specie nelle discipline scientifiche (“Valutazione”, p. 24, “STEM”, p. 65;).
Ma lascia perplessi la leggerezza con cui, paradossalmente, si auspica l’uso dell’IA per l’inclusione e la personalizzazione della didattica non solo da parte del docente “per l’alunno” (“le tecnologie assistive basate sull’IA permettono agli studenti con disabilità o con DSA di meglio partecipare alle attività educative e didattiche, garantendo pari opportunità di apprendimento”, da “Premesse culturali alle Indicazioni Nazionali”, pag. 9), ma anche direttamente usate “dall’alunno” che ha questi bisogni. Tragiche, problematiche contraddizioni: mentre si auspica l’uso dell’IA per potenziare l’apprendimento, lo stesso Ministero emana circolari che vietano l’uso dei cellulari in classe, alla Secondaria di Primo Grado e ora pure a quelle di Secondo (anche a scopo didattico) perché considerate genericamente “troppo pericolose” (e se no, giustamente, perché a scuola dovremmo promuoverne un approccio critico?). E però queste tecnologie ritornano tollerabili quando giustificate dalla disabilità. Dunque: se sei fragile, puoi usare la pericolosa tecnologia con la sua Intelligenza Artificiale, ecc.; se non sei fragile, no, vade retro, non è per te… Una coerenza di visione che ricorda quella di Trump con i dazi, o quella di mia nonna con la cioccolata: “Fa male, ma se hai la tosse te la do”
Scrittura creativa
La questione della presunta “creatività”, specie nella scrittura, è uno dei più retorici e confusi dell’intero documento. La parola “creativo” è tanto onnipresente quanto priva di sostanza: si presume, cioè, che basti autorizzare docenti e alunni a “essere creativi” per ottenere risultati. Non sembra esserci nessuna consapevolezza negli scriventi che la creatività è quanto di più difficile e faticoso esista da attivare, esercitare, provocare, stimolare, insegnare (altrimenti saremmo tutti artisti, creativi, pubblicitari, scrittori…). Come i professionisti del settore sanno, si tratta di questioni su cui bisogna lavorare a volte per decenni; e invece nelle “Indicazioni” (ma attenzione: è stato sempre così) si continua a trattarla come qualcosa o che attiene, come talento innato, “alle persone fantasiose”, oppure come facoltà per liberar la quale basta dare dall’alto il permesso: “siate creativi”; al pari di “al mio segnale scatenate l’Inferno”. Un po’ come pensare che sia sufficiente ordinare a qualcuno “Corri i 100 metri in 9 secondi!” per trasformarlo in Usain Bolt, o urlare ai bambini denutriti del Tanganica “Mangiate!” per risolvere il problema della fame.
Eppure, nelle “COMPETENZE AL TERMINE DEL PRIMO CICLO DI ISTRUZIONE”, leggiamo, tra le tante, che l’alunno dovrebbe saper “creare, esprimere e interpretare concetti (…) Interagire adeguatamente e in modo creativo” (“Competenze europee”, pag. 13); “Dimostrare spirito di iniziativa, produrre idee e progetti creativi” (“Competenze europee”, pag. 14); “la naturale creatività è un’attitudine da difendere e coltivare” (“COMPETENZE ATTESE AL TERMINE DELLA CLASSE QUINTA”, pag. 35).
Ma chi ha mai fornito ai docenti corsi di creatività, almeno di pensiero laterale, per sviluppare queste competenze da promuovere poi negli alunni? Nei percorsi di formazione dei docenti non sono quasi mai neanche contemplati accenni a attivazione creativa, pensiero divergente, problem posing, bisociazione, brain storming, pensiero laterale, content creating, enigmistica, giochi di parole… in altre parole, ci si limita ad esigere che i docenti insegnino qualcosa di cui nei loro percorsi di studio potrebbero non aver mai sentito parlare. Non mi stancherò mai di dirlo: come mai non si ragiona nella stessa maniera, per esempio, per ciò che riguarda le conoscenze pedagogiche di base? Perché invece in ambiti come questo qualcuno ha pensato che, per diventar docenti, fosse ragionevole che si passasse da percorsi formativi (universitari o no, con crediti formativi o meno, organizzati bene o male, ok… questo è un altro discorso) relativi a tali argomenti? Qui invece, macché: basta ripetere la parola ‘creatività’ come formula magica: che infatti, compare ben 9 volte nelle “Indicazioni Nazionali” del 2012, 26 volte in quelle di marzo 2025, e 27 in quelle di giugno 2025! L’aggettivo ‘creativo’ registra 27 occorrenze nelle Indicazioni del 2012, 59 in quelle del marzo 2025, e 33 in quelle del giugno 2025!!! Ripeto: in questo campo, nel 2025 non c’è nessun “peggioramento” rispetto al 2012; se non che, se questa parola è usata a sproposito e in modo così sproporzionato, potremmo propendere per la versione del 2012, più sobria accettabile: perché, più onestamente, almeno la cita meno.
Anche qui, altra contraddizione. Personalmente, apprezzo molto il riconoscimento dell’importanza del riassunto: non solo è esercizio che attiva varie e complesse competenze di trasformazione linguistica, ma è anche un ottimo allenamento formativo per una delle posture mentali più importanti e da affinare nella vita, cioè il saper scegliere, tra varie cose, quali tenere e quali no: “quali sono le più importanti”. Nelle “Premesse culturali alle Indicazioni Nazionali”, a pag. 10, si legge: “Di particolare rilevanza, nell’apprendere a scrivere, è l’esercizio del riassunto”, che “alleggerisce l’ansia da foglio bianco e spostando il carico cognitivo sulla riscrittura di un testo già esistente”. Ma come: perché mai il “foglio bianco” dovrebbe ingenerare “ansia”, se la spontanea produzione di “idee fantasiose e creative” è facoltà così facile da attivare, al punto che tutti (alunni e docenti compresi) possono farlo in ogni momento, senza bisogno alcuno di allenamento, studio, o formazione? Insomma, “creare” è difficile, o no? Mistero della fede educational, verrebbe da dire…
“Il docente-attore” (e “l’alunno-attore”)
Anche qui, stesse criticità del punto precedente. Sull’utilizzo “delle competenze attoriali dal teatro e dalla comicità a servizio della professione docente”, quelle che permettono al docente di “mettere in scena” l’apprendimento, la situazione – già critica nel 2012 – non migliora. E non c’è neanche un peggioramento, semplicemente perché nulla c’era prima; e nulla, ancora, c’è oggi. Provo a spiegarlo meglio nel dettaglio: nelle “Indicazioni” del giugno 2025 è tutto un promuovere “attività teatrali”, “performances”, “lettura espressiva”, “drammatizzazioni”, “attività cinematografiche”, “uso della voce”, “intonazione”, “interpretazione”… (“Conoscenze”, Italiano, classe quinta Primaria e terza Secondaria I° Grado, p. 37 e 39), ma manca qualunque riferimento a una formazione specifica per fornire al docente delle competenze attoriali anche minime, riguardanti l’uso della voce, il respiro, la presenza, la scrittura drammaturgica, la consapevolezza di movimento… Nulla.
Quindi suona quasi come una beffa quel “Teatro” che, linguisticamente, fa capolino tante volte, in varie accezioni: nelle “Premesse culturali”, per ragionare sull’identità dell’alunno da formare, si cita la “persona” (pag. 6), termine mutuato dal latino, proveniente dall’etrusco e ancor prima dal greco, col significato di “maschera teatrale”, “personaggio” (forse, lessicalmente, un autogol: “maschera vuota”, come nella favola di Esopo?); agli alunni è poi richiesto di “analizzare e interpretare rappresentazioni di vario tipo: teatrali, musicali, cinematografiche, artistiche” (“Obiettivi generali al termine della scuola secondaria di primo grado”, pag. 17). E perché no, “con il proprio corpo, i bambini imparano a giocare, a sperimentare linguaggi non verbali come la mimica, e linguaggi artistici come la musica e la coreutica” (in “Campo di esperienza”, Finalità, Scuola primaria, pag. 28). Sempre nelle “Premesse” si parla di “relazione” come dispositivo pedagogico primario nel rapporto tra docenti e alunni (e tra gli alunni); ma si ignora che niente come il Teatro è “arte della relazione”: si richiede che le relazioni siano corrette, ma la disciplina che aiuterebbe a renderle tali viene taciuta. E ancora: si parla di “alfabetizzazione emozionale, di empatia”… e cos’altro è l’empatia se non mettersi nei panni degli altri?
E tuttavia, il capolavoro viene dopo. Così, all’improvviso, “de botto, senza un senso”, si direbbe in Boris, a quattordicenni alla fine della vecchia Terza Media vengono richieste competenze che sarebbero quasi quelle “di base” in uscita da una scuola professionalizzante di Teatro, recitazione o doppiaggio: alunni e alunne dovrebbero “comprendere l’importanza della componente sonora del linguaggio (timbro, intonazione, accentazione, pause) e delle figure di suono nei testi poetici (rime, assonanze e consonanze, ritmo), e sapersi servire dell’una e delle altre nella produzione di testi creativi”; “Leggere ad alta voce in modo espressivo testi noti, adoperando l’intonazione e le pause in maniera tale da permettere a chi ascolta di capire” (“OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO AL TERMINE DELLA CLASSE TERZA”, Scuola Secondaria di I° Grado, pag. 37 e 39); “Parlare in pubblico è un’abilità che (…) è bene cominciare ad acquisire negli anni della formazione” (Classe terza, p. 40). Di nuovo: non è tanto che dalla Terza Media i nostri alunni dovrebbero uscire come un incrocio tra Carmelo Bene e Vittorio Gassman: è che non si capisce chi e come li dovrebbe formare…
Anche qui, significativa la statistica di questo auspicare una scuola “spettacolare” ma senza professionisti esperti: la parola ‘teatro’ compare 2 volte nelle “Indicazioni” del 2012, 8 nel marzo 2025, e 5 nel giugno 2025. L’aggettivo ‘teatrale’, 3 volte nelle “Indicazioni” del 2012, 7 nel marzo 2025, e 6 nel giugno 2025. Ribadiamo: se si ritiene doveroso formare il docente, per esempio, nelle conoscenze di legislazione scolastica, non si capisce perché, per le competenze teatrali, invece, tutto può restare nella più totale superficialità, limitandosi a citarle nei contenuti proposti agli alunni senza che si dica come le si dovrebbe trasmetterle ai docenti. Anche qui, a quel punto, visto che il teatro è citato sempre ad mentula canis, preferibile quella versione delle “Indicazioni” (2012) che lo nomina di meno.
Che a volerla dire tutta, le “Indicazioni” non fanno che riproporre una concezione “sprofessionalizzante” del mestiere dell’attore diffusissima nel paese (“Ah, fai l’attore? Sì, ma di lavoro?”), in cui si ignora totalmente la complessità, l’arte, il mestiere, la perizia, l’infinità di tecniche: come fossero “dei giochetti che tutti possono proporre o improvvisare”. Nessun passo avanti nemmeno rispetto alla legge n. 107 “Buona Scuola” (art. 1, cc 180-181), che proponeva di intensificare il rapporto tra scuola e teatro, affidandone l’insegnamento in via esclusiva a formatori esperti, per far perdere così il carattere “facoltativo ed episodico” a questa attività (“Con l’introduzione del nuovo dettato normativo, l’attività teatrale abbandona definitivamente il carattere di offerta extracurricolare aggiuntiva e si eleva a scelta didattica complementare”); o a quanto indicato nelle “Indicazioni strategiche per l’utilizzo didattico delle attività teatrali“, del 16 marzo 2016, in cui si promuoveva “l’esercizio di pratiche connesse alle forme teatrali, mediante il potenziamento della formazione nel settore delle arti delle scuole di ogni ordine e grado (…), nonché la realizzazione di un sistema formativo della professionalità degli educatori e dei docenti”
Insegnamento della Storia
Ed ecco la parte più discussa delle “Nuove Indicazioni”. Se già nella versione di marzo il tono euro-italocentrico aveva suscitato indignazione, qui si conferma la visione dell’Occidente come unica culla della coscienza storica, chiaro soprattutto dall’infelice scelta di riproporre come Incipit la famigerata citazione, del tutto decontestualizzata, di Bloch: “Solo l’Occidente conosce la Storia (…). Ciò non vuol dire assolutamente che altre società e culture non abbiano avuto una storia e i modi per raccontarla. Vuol dire, come ci ricorda Claude Lévi-Strauss, che «Non soltanto noi riconosciamo l’esistenza della storia, ma le dedichiamo un culto, perché la Storia consiste nel pensare i fatti” (“Discipline, Storia, “Perché si studia la Storia”, pag. 53).
Confermato anche un passaggio che nella versione di marzo non aveva (stranamente, secondo me) suscitato grandi clamori: “È attraverso questa disposizione d’animo e gli strumenti d’indagine da essa prodotti che la cultura occidentale è stata in grado di farsi innanzi tutto intellettualmente padrona del mondo” (p. 53). Una storia in Occidente come culto, “tribunale morale” e biblioteca di valori da consultare per le battaglie politiche di oggi, certo; e però, anche strumento di dominio. Non solo di comprensione, ma anche di sopraffazione. Ma allora, se è proprio in virtù di questa visione della Storia, che noi europei saremmo andati a impossessarci del resto del mondo… non sarebbe il caso di rigettarla, invece che di rivendicarla orgogliosamente come prerogativa?
Sulla didattica, poco cambia. Si scoraggia lo studio diretto delle fonti e si esalta il valore della narrazione: “Anziché mirare all’obiettivo, del tutto irrealistico, di formare ragazzi (o perfino bambini!) capaci di leggere e interpretare le fonti, è consigliabile un insegnamento/apprendimento della storia che metta al centro la sua dimensione narrativa in quanto racconto delle vicende umane nel tempo. La dimensione narrativa della storia è di per sé affascinante e tale deve restare” (“Discipline, Storia, “Perché si studia la Storia”, pag. 55).
Sullo studio delle fonti, si tratta di un’incomprensibile restaurazione: da rigettare decisamente, visti gli indubbi risultati di queste metodologie “attive”; semplicemente, basta capirsi e limitarle, chiarendo cioè che non si può, ragionevolmente, adottarle per tutti gli argomenti. Sulla narrazione, invece, sono personalmente d’accordo: la storia credo vada essenzialmente raccontata. Ma a patto che si proponga “un’affabulazione” coinvolgente e affascinate: e allora dipende dalla singolarità dell’insegnante, da capacità che rimandano di nuovo alla sua dimensione performative di “docente attore” (vedi punto precedente). Evidentemente, chi ha redatto il documento dà per scontato che tali abilità di intrattenimento siano connaturate allo spirito di tutti gli insegnanti, tutti novelli Fiorello Barbero Schettini… Siamo sempre lì: “tutto si terrebbe”, potremmo dire…
Contenutisticamente, le “Indicazioni” insistono ancora su una discutibile operazione di costruzione identitaria addirittura già alla Primaria: vicende legate al Risorgimento, alla Resistenza e al mito fondativo nazionale: “Il racconto in breve della nascita dell’Italia: da molti Stati regionali ad una nazione libera e indipendente, Mameli e l’inno nazionale (spiegazione del contenuto), poesie e canti del Risorgimento. Racconti ricavati dalle vicende del Risorgimento e della Resistenza a scelta degli insegnanti” (“Conoscenze, Scuola Primaria”, pag. 56).
E poi, la perla finale: negli “Obiettivi specifici di apprendimento al termine della classe terza, Scuola secondaria di I° grado”, Pag. 58), le rivoluzioni citate sono solo quella americana e francese: la rivoluzione russa non trova spazio. Il comunismo, invece, è nominato solo come elemento che ha contribuito alla disgregazione dell’Europa liberale: “La pace di Versailles e la disintegrazione dell’Europa liberale: comunismo, fascismo, nazismo” (p. 58). Scelta selettiva e ideologica, visto che a nessun nazifascista si è mai messo a scrivere una Costituzione democratica…
Conclusioni
Le nuove “Indicazioni” del giugno 2025 tentano di ammorbidire i toni incendiari del testo di marzo, ma non modificano l’impianto ideologico. Emergono evidenti contraddizioni tra principi dichiarati e pratiche suggerite. Alcune aperture (IA, narrazione storica, attenzione alle emozioni) non vengono sostenute da strumenti adeguati, né da un programma di formazione per i docenti. La creatività è evocata come formula magica, il teatro come folklore educativo, la storia come nostalgia identitaria. E per migliorare la scuola non servono slogan, ma progetti seri e coerenti, radicati nella realtà della classe e nella competenza degli insegnanti. E soprattutto, tante, tante risorse.
[1] https://www.odysseo.it/le-indicazioni-nazionali-2025-e-il-parere-del-cspi/
[2] https://laricerca.loescher.it/nuove-indicazioni-2025-infanzia-e-primo-ciclo-5/
[3] https://www.lepocaculturale.it/2025/03/28/credere-obbedire-insegnare-17-voci-critiche-sulle-nuove-indicazioni-scolastiche/?utm_source=chatgpt.com
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