Approfondimenti

Le esplosioni dei gasdotti Nord Stream, i silenzi della sinistra in Italia e le altre notizie della giornata

Il racconto della giornata di martedì 27 settembre 2022 con le notizie principali del giornale radio delle 19.30.  Le esplosioni dei gasdotti Nord Stream e i timori dalla Russia; Letta rimane ma la sinistra non parla; le incertezze sul futuro della Lega e la nuova fase della guerra in Ucraina.

Le esplosioni dei gasdotti Nord Stream, si parla di sabotaggio.

Due forti esplosioni hanno preceduto le fughe di gas dai due gasdotti Nord Stream 1 e 2. Le hanno rilevate i sismologi svedesi. “Esplosioni molto probabilmente dovute a detonazioni”. Ha dichiarato Peter Schmidt, della Rete nazionale sismica svedese. Il governo di Stoccolma, quello danese e quello polacco parlano apertamente di sabotaggio. Termine utilizzato anche dal Cremlino che ha annunciato un indagine urgente. Accertamenti che sta effettuando in queste ore anche la Nato “Seguiamo con grande preoccupazione quanto accaduto, siamo in contatto con Danimarca e Svezia” ha dichiarato Jens Stoltenberg numero uno dell’alleanza atlantica. Kiev ha invece puntato il dito contro Mosca “un attacco terroristico pianificato dalla Russia e un atto di aggressione nei confronti dell’Ue” ha dichiarato il portavoce di Zelensky.
Entrambi i gasdotti portano metano all’Europa ma il Nord Stream uno è stato chiuso da Mosca ormai da alcune settimane, ufficialmente per manutenzione, e il secondo non è ancora entrato in funzione. Le conseguenze sono state pero’ immediate, sul mercato di Amsterdam il prezzo del gas è aumentato in poche ore del 20%. Ma chi può avere la tecnologia militare per sabotare i due gasdotti?
Gianluca Di Feo giornalista di Repubblica, esperto di strategie e armamenti militari.

 

Quello che la sinistra non dice

(di Anna Bredice)

Enrico letta ha deciso di restare fino al congresso, che spera avvenga presto, per arrivare a quell’appuntamento con un partito che possa affrontare almeno la manovra di bilancio. Ma nemmeno due giorni dopo quell’unità è solo un miraggio, ci sono più candidati che correnti nel partito e ognuno ha una sua ricetta e via di uscita dalla crisi in cui versa da anni il Pd. Ultima in ordine di tempo Paola de Micheli, esponente di area lettiana, ma prima di lei si sono fatti avanti Matteo Ricci, sindaco di Pesaro che guida una giunta con i cinque stelle e che si è detto pronto a scendere in campo. C’è poi Stefano Bonaccini che piace a Base riformista e poi ancora Giuseppe Provenzano, più a sinistra. Ma nominando le persone si citano anche le correnti ed è l’eterno riflesso del partito democratico, che da almeno dieci anni rimane avviluppato alla stessa matassa: fuori un segretario, ne arriva un altro della corrente avversaria. Ora lo choc di una vera destra al governo, non più quindi solo Berlusconi con cui si era fatto il patto del Nazareno, la destra che vince ha come risvegliato tanti e se non si pronuncia la parola “rifondazione” perché evoca altre scissioni e partiti, si parla di un nuovo inizio, di ripartire oppure di una nuova fase costituente allargata al resto della sinistra. Insomma, un semplice congresso non basta più, non basta a Matteo Orfini, ad Andrea Orlando che domenica sera è rimasto lontano dalla sede del Nazareno e ora chiede una fase costituente per ripensare all’identità del partito. Franceschini era con Letta domenica sera, ma ancora non si è pronunciato, solitamente quando lo fa è perché indica anche quali saranno i nuovi vincitori su cui punta. Ma il momento è abbastanza difficile, da dieci anni il Pd governava, ora si prepara ad una probabile lunga opposizione e non era più abituato. E’ stato uno degli errori, perché prima Zingaretti e poi Letta si sono caricati la responsabilità di appoggiare senza condizioni i governi giallo rosso e poi quello Draghi, dicendo sempre sì per spirito riformista o governista, ma lasciando ad altri ciò che la sinistra, che comunque esiste ancora come area nel partito, non riusciva più a dire.

Salvini, il futuro incerto e in salita

(di Alessandro Braga)
Un clima sereno, è stato definito nell’unica nota ufficiale diramata dal consiglio federale ancora in corso. Si sa, ultimamente in politica quelli che sarebbero dovuti restare sereni hanno fatto una brutta fine. Non succederà a Salvini, almeno non nel breve periodo, ma il futuro prossimo del leader leghista è quanto mai complicato. Nessuno discute la segreteria di Salvini, dicono fonti leghiste. Più che altro perché al momento nessuno vuole prendersi la grana di guidare un partito allo sbando. Ma l’uomo solo e forte al comando, ora non è più forte, non è più solo, forse non è nemmeno più al comando. Fosse per i grandi ex della Lega, Salvini sarebbe già fuori. Lo ha detto Roberto Castelli. Lo ha detto apertamente Roberto Maroni nella sua rubrica su Il Foglio: “Si parla di un congresso straordinario della Lega. Ci vuole – scrive l’ex segretario – Io saprei chi eleggere come nuovo segretario, ma per adesso non faccio nomi”. Salvini sta affrontando il primo processo politico della sua carriera sul banco degli imputati. E se vuole stare in cattedra deve concedere, e non poco. Ci sarà un’accelerazione sulla convocazione dei congressi cittadini, provinciali e regionali, come richiesto, e non da ora, da molti. La corrente dei governatori preme perché i temi delle origini, le ragioni del Nord, tornino centrali. L’autonomia differenziata dovrà essere al centro dell’azione del governo, ma coi numeri portati a casa in questa tornata elettorale non sarà facile convincere gli alleati vincitori, i Fratelli d’Italia, a spingere sull’acceleratore per una riforma di certo non tra le più gradite ai meloniani. Sebbene ufficialmente si dicano tutti favorevoli a un posto nel governo per Salvini, tutti sanno che è un problema. La non elezione di Bossi sarà anche solo un fatto simbolico, ma anche sui simboli si fonda la forza di un partito.

Ucraina, con i referendum illegali si apre una nuova fase della guerra

(di Emanuele Valenti )
Nel pomeriggio i media russi hanno cominciato ad anticipare i risultati parziali dei referendum nelle quattro zone occupate nell’est e nel sud dell’Ucraina: Donetsk, Luhansk, Zaporizhia e Kherson.
Secondo l’agenzia statale Ria Novosti con circa il 15% dei voti scrutinati a favore dell’annessione da parte della Federazione Russa ci sarebbe ovunque una maggioranza bulgara, tra il 97 e il 98%.
Durante un incontro con alti funzionari – ripreso dalle TV – Putin ha detto che l’obiettivo è salvare le popolazioni di quelle regioni dalle continue discriminazioni da parte dello stato ucraino. Una narrazione ormai consolidata – anche se non l’unica – con la quale il Cremlino ha giustificato fin dall’inizio l’invasione del paese vicino.
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