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Milano non è una città per chi lavora

Milano Cambiamento climatico

Casa e reddito: un tempo il limite del “sostenibile” per chi lavora era il 30% del salario e Milano questa soglia la sta superando ovunque, periferie comprese. E’ il maggior risultato di tre giunte di centrosinistra, purtroppo, quella che sarà ricordata come l’epoca della grande valorizzazione della rendita immobiliare. Da Expo 2015 la forchetta tra redditi e costo dell’abitazione si è allargata di sei volte per l’acquisto e di più di tre volte per l’affitto. Colpendo maggiormente i ceti medio bassi, perché per i poveri non c’era già speranza prima, con solo l’1% del nuovo costruito di edilizia pubblica o convenzionata. Praticamente l’azzeramento di qualsiasi possibilità di abitazioni a costi contenuti.

I dati sono inoppugnabili e li propone il primo report di Oca – l’osservatorio sulla casa abbordabile promosso dal Consorzio cooperative lavoratori (Confcooperative) con Delta-ecopolis e Politecnico di Milano, curato da Marco Peverini, ricercatore, e Massimo Bricocoli, direttore del Dastu, il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, dal titolo “Non è una città per chi lavora” e che potete consultare a questo link. Con una serie di tabelle e grafici molto chiari, i ricercatori si erano dati come compito quello di capire se esistesse una casa “abbordabile” nella città di Milano e la risposta è praticamente no. Sia per l’impennata dei costi immobiliari sia però anche per la presenza tra i milanesi di una fetta maggioritaria di uomini e donne che vivono di un lavoro che si sta impoverendo o che di certo non riesce a stare al passo della nuova inflazione: sono i due terzi (57% per l’esattezza) dei residenti che guadagnano meno di 26mila euro anno. Con i loro redditi, lo studio di Oca calcola quanto si “possano permettere” ovvero 16 metri quadrati in centro, una trentina al massimo in periferia. Perché ormai il fenomeno riguarda tutta la città.

  La narrazione dominante dell’amministrazione e degli operatori immobiliari (che sembrano davvero alleati anche nella comunicazione) dice che è normale sia così: una città attrattiva, internazionale, che migliora qualità della vita e dei servizi, costa un po’ di più e quindi selezionerà verso l’alto la sua cittadinanza. Ovviamente gli oppositori gridano alla “sostituzione” anche se dal Comune fanno sapere che evidenze statistiche di transumanza di milanesi verso la città metropolitana o altrove non ce ne sono. Il report di Oca però evidenzia come sia evidente la polarizzazione tra prezzi e redditi dei residenti a cui non si può rispondere con la narrazione della Milano attrattiva per i talenti e i turisti oppure del social housing della giunta Sala e dell’assessore Maran. Perché i numeri dicono che questi residenti non se la possono permettere con salari e redditi cresciuti solo di un magro 7% per impiegati e operai.

Rovesciando uno degli slogan cari a questa amministrazione Milano è già una città che prende più di quello che dà. Il report dice chiaramente che a Milano senza un sostegno finanziario, di una rendita o di fondi o di una famiglia alle spalle, non solo non si può vivere, ma ribaltando il concetto non si può lavorare. E la città diventa per i ricercatori di Oca la capofila della “gentrificazione professionale”.
Anche le cosiddette rigenerazioni urbane, senza politiche attive di regolazione dei costi, mette in guardia il direttore del Dastu del Politecnico Massimo Bricocoli “diventano in questa situazione inesorabili valorizzazioni dei quartieri a favore della rendita privata e Milano rischia addirittura di non essere più una città europea per polarizzazione e squilibri”. Ovviamente sociali.  Lo scenario insomma potrebbe essere quello che abbiamo anticipato qualche settimana fa con “le nuove porte di Milano”: e cioè una città interamente messa a rendita con valori dentro la cerchia delle tangenziali mai inferiori ai 3.500 euro al metro quadrato per la vendita e poi sugli snodi delle tangenziali e della ferrovia, nuovi quartieri da far costruire, magari, alle cooperative a prezzi sensibilmente più bassi e di cerniera con la città metropolitana.

In parte coinvolgendo anche i comuni dell’hinterland per “densificare” (questa la parola magica per die che si costruisce ma non si consuma nuovo suolo) aree oggi non ancora occupate da rotonde, centri commerciali. Se il futuro è questo restano tanti interrogativi: il primo è l’assenza di qualsiasi ragionamento per i ceti più deboli, col necessario ritorno dell’edilizia pubblica (un tabù per questa giunta); poi c’è il ruolo delle cooperative e di chi cerca di costruire case “sociali”, anche del social housing, che sta diventando complicato ai costi e con gli oneri finanziari attuali. Sul ruolo delle cooperative, del convenzionato sociale, sulle prospettive di Milano e del mercato immobiliare potete sentire qui l’intervista che abbiamo realizzato con Alessandro Maggioni, del Consorzio Cooperative Lavoratori ovvero Confcoperative.

Infine, un elemento segnalato da Oca che ci fa capire come la scarsa trasparenza sia il centro di tutto il mercato immobiliare che fa sì, ad esempio, che i costi di affitto misurati dalle rilevazioni delle agenzie immobiliari o degli operatori sono in media a 240 euro al metro quadrato anno, mentre quelli dell’Omi, l’Osservatorio del mercato immobiliare dell’Agenzia delle entrate, fato sui contratti registrati, dice 173 euro al metro quadrato: una differenza quasi del 30%. Impossibile. I dati non ci sono. Non vengono raccolti, incredibilmente, denunciano i ricercatori: “una sistematica assenza di basi informative” che invece sono fondamentali per le politiche urbane e della casa nel resto di Europa. Vale per il Comune, come per la Regione. A chi serve questa assenza di dati? Alla narrazione del potere, che in questa città è rappresentata dall’alleanza tra politica e immobiliare.

Grafico estratto da “Non è una città per chi lavora. Costi abitativi, redditi e retribuzioni a Milano”. Primo Rapporto di ricerca Oca – Osservatorio casa abbordabile a cura di Massimo Bricocoli e Marco Peverini, Dastu Politecnico di Milano

  • Autore articolo
    Claudio Jampaglia
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    Teatro. La rivoluzione delle "piscinine" milanesi vista da due piccioni in crisi esistenziale Al Teatro della Cooperativa, a Milano ha debuttato in prima nazionale "Lo sciopero delle bambine", in scena Rita Pelusio e Rossana Mola di PEM Habitat Teatrali, compagnia che porta avanti una ricerca artista che declina contenuti civili e ironia. Lo spettacolo, con la regia di Enrico Messina, racconta una storia avvenuta a Milano nel 1902, quando le “piscinine”, che in dialetto meneghino significa “piccoline”, bambine, tra i sei e i tredici anni, che lavoravano senza diritti, sfruttate e sottopagate, ebbero la forza di scioperare e, per cinque giorni, fermare l’industria della moda della città. A raccontare la vicenda delle piscinine in scena sono due piccioni, due creature che abitano le piazze, le cui parole rispecchiano lo sguardo dei contemporanei, spesso stanchi e disillusi davanti alle sfide della storia. Nella trasmissione Cult Ira Rubini ha intervistato l’attrice Rita Pelusio.

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