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La prima linea della lotta al coronavirus

ambulanza croce rossa

Sono i medici delle USCA – unità speciali di continuità assistenziale – dedicati alle visite a domicilio. Negli ultimi giorni hanno preso servizio a Bergamo e Brescia, e si stanno attivando anche in tutte le altre province della Lombardia. Ricevono le segnalazioni dai medici di base e sono diventati la prima linea della lotta al virus. Perché intercettano i tanti che non sono censiti, che non vogliono andare in ospedale o che stanno peggiorando senza rendersene conto.

Come si chiama e da quando avete iniziato come Usca?

Mi chiamo Mirsada Katica, sono un medico da tre anni, mi sono laureata nel 2016 all’università di Brescia, ho iniziato subito a fare guardie, sostituzioni di medici base, ho lavorato come medico all’aeroporto di Bergamo, e ho iniziato questa esperienza come USCA da ieri, a Montichiari, oggi a Brescia.

Ci descrive la giornata?

La giornata è abbastanza stancante sia fisicamente che emotivamente, soprattutto. Iniziamo alle 8 in ambulatorio, ci ritroviamo in tre medici, ci confrontiamo in base alle richieste che ci arrivano dai vari medici di base, e iniziamo a scegliere i pazienti che hanno più bisogno di questo servizio.

Facciamo l’esempio di stamattina, quali sono stati i primi interventi?

I primi due pazienti erano stati dimessi da alcuni giorni, sempre per polmonite da corona virus e li ho trovati stabili, sono anziani, sono stati ricoverati per un bel po’ e abbiamo deciso di verificare se tutto procedeva nella norma: è andata bene. I pazienti dopo, invece, in tanti desaturavano e avevano bisogno di aggiustamenti della terapia.

Cosa prevede il protocollo in questi casi, come li curate con farmaci specifici?

Farmaci retrovirali non ne abbiamo ancora prescritti, negli ospedali se ne stanno provando diversi tipi, ma per alcuni pazienti funzionano e per altri no, una terapia vera non esiste ancora. Nei primi giorni di sintomatologia noi prescriviamo terapie basiche, paracetamolo e mucolitici, dopo qualche giorno se persistono febbre e tosse, passiamo all’idrossiclorochina che abbiamo visto ha effetti positivi su tanti pazienti; se anche questa non funziona cominciamo con la terapia antibiotica per evitare il rischio di sovrainfezioni, soprattutto in pazienti con polmoniti, e poi con l’ossigeno.

Quando arrivate in casa dei pazienti siete bardati con tutte le protezioni, come è l’approccio al paziente?

Si cerca di rassicurarli,che andrà tutto bene, perché quasi tutti sono rassegnati, pensano “oddio ho il coronavirus” e immaginano sia finita. Invece, molti pazienti migliorano, quindi si cerca di dare speranza.

E quale è la vostra fatica emotiva e psicologica quando uscite da quelle case?

Anche noi medici, diciamo, non siamo proprio al massimo della forza emotiva, diamo tutto, ma una volta usciti magari ci scappa un pianto di sfogo e poi ci si rialza e si pensa al prossimo paziente.

Quali altre casistiche avete incontrato in questa giornata?

Erano tutti abbastanza diversi. Un paziente, non aveva alcuna patologia pregressa, aveva la febbre da due settimane, era peggiorato e quindi siamo andati. Altri pazienti erano diabetici o ipertesi, incontriamo un po’ di tutto. Oggi ho visto un paziente che aveva solo febbre, poi alla saturazione registrava l’88% di ossigeno, se non fossimo andati, probabilmente sarebbe precipitato in pochi giorni.

E in questi casi potete disporre il ricovero?

Quello che si può gestire a casa, lo gestiamo così, anche perché gli ospedali sono pieni. Tranne se desaturano molto, una persona anziana ad esempio, oggi, ho dovuto ricoverarla, ho chiamato il 112 e per fortuna hanno risposto subito e sono venuti a prenderlo.

E questo è il momento più difficile?

Eh si, per tutti, per le persone che vivono col paziente, per il paziente che non vuole accettare di andare in ospedale, perché ha paura di non tornare più a casa e di rimanere solo.

Quante giornate ha davanti?

Per adesso con questa unità speciale abbiamo i turni fino a fine aprile, i turni sono da 12 ore, ma alcuni giorni lavoro anche 24 ore perché faccio anche le guardie. Usca però lo faccio tutti i giorni, in diverse unità nella provincia di Brescia.

Aveva mai immaginato come medico di trovarsi a una situazione del genere?

Ah no, mai. Continuo a dirmelo tutti i giorni, sia per la pandemia, sia per questa situazione di disastro. Siamo un po’ sconcertati.

C’è qualcosa che vuole aggiungere?

Si. Ultimamente si dice che l’emergenza si stia calmando e non vorrei che le persone iniziassero ad uscire, senza controllo, il mo messaggio è che non è ancora finita e quindi…

Stiamo a casa?

Si, stiamo a casa, ripariamoci. Anche se iniziamo a vedere la luce non è ancora risolto niente.

Foto dalla pagina Facebook della Croce Rossa Italiana

  • Autore articolo
    Claudio Jampaglia
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    Sta diventando impossibile lavorare i propri campi per i contadini della Cisgiordania, soprattutto tra Hebron e Nablus, circondate da nuovi avamposti dei coloni. Le aggressioni si moltiplicano insieme alle minacce e allora diversi gruppi di contadini solidali si sono mossi per andare ad aiutare gli olivicoltori palestinesi. Questo è il racconto di Francesco Franchi della comunità agricola Mondeggi Bene Comune di Firenze, che ci descrive la sensazione di essere circondati, ma anche l’importanza della raccolta dell’olive, dell’importanza dell’olio e del potersi aiutare tra contadini, una pratica che contraddistingue la cultura dei campi mediterranea. “Per noi agricoltori è insopportabile che un momento comunitario e collettivo come la raccolta, non possa avvenire in sicurezza”. L'intervista di Claudio Jampaglia e Cinzia Poli.

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