Sono passati 7 anni da quando Greta Thunberg iniziò a non andare a scuola il venerdì per manifestare da sola davanti al parlamento svedese, chiedendo azione per il clima, una scelta solitaria che si diffuse rapidamente a livello globale. Nel marzo del 2019 i cosiddetti scioperi per il clima si svolsero in oltre 100 Paesi, Italia compresa, e a settembre dello stesso anno i giovani in piazza erano milioni in tutto il mondo. Improvvisamente e inaspettatamente, dopo anni di grigiore e silenzio, le strade si capivano di colore e di slogan, dove rabbia e preoccupazione erano accompagnati da ironia e speranza. I giovani uscivano dalla dimensione individuale in cui erano stati ingabbiati e davano lezione di partecipazione, mentre le generazioni precedenti restavano a guardare. Poi la pandemia ha tagliato le gambe a quel fenomeno che non ha più ritrovato lo stesso slancio. Comunque i Fridays for Future continuano a esistere, come le ragioni per essere in piazza, ma in un contesto reso ancora più complicato. La crisi climatica, tra guerre e piani di riarmo, non occupa più le prime pagine dei giornali. Ci si riempie la bocca di transizione ecologica mentre la crisi ambientale avanza senza tregua. In concomitanza con la conferenza internazionale dell’ONU in corso in Brasile e a 10 anni da quella di Parigi, i cui obiettivi sono diventati chiaramente un’illusione, il nuovo sciopero globale non è solo per il clima, ma anche contro le guerre e per la giustizia sociale, perché il futuro per questi giovani si fa sempre più incerto.


