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1960, l’anno delle indipendenze africane: Nyobé rievocato da Blick Bassy

nyobé

Dei ben diciassette paesi africani che raggiungono l’indipendenza nel 1960, il primo, già il giorno di capodanno, è il Camerun francese: a vedere questo traguardo che ha tanto sognato non arriva Ruben Um Nyobé, soprannominato Mpodol, che in lingua bassa – una delle numerose lingue del Camerun – significa “colui che porta la parola dei suoi”. La parola che Mpodol aveva portato era quella dell’indipendenza del suo Paese, e la stava mettendo in pratica con la lotta armata, alla macchia, quando il 13 settembre del 1958 fu ucciso dai parà dell’esercito francese.

Nel suo libro-reportage L’Africa aspetta il 1960, pubblicato da Bompiani nel ’59, Angelo Del Boca racconta che per i missionari protestanti con cui aveva studiato Nyobé continuava ad essere un cristiano convinto e un uomo di valore; per i suoi combattenti era un semi-dio; per i francesi uno stregone e un comunista.

Due anni fa, a sessant’anni di distanza, Blick Bassy ha intitolato 1958, proprio con riferimento a Nyobé, il suo quarto album. Nato a Yaoundé, Bassy nel 2001 dal Camerun si è trasferito in Francia: colpisce che un musicista di un certo successo internazionale come Bassy abbia pensato di mettere al centro del suo ultimo lavoro Nyobé, tanto più che quella di Nyobé, uno dei grandi dirigenti della lotta per l’indipendenza, non è però certo una figura particolarmente nota.

Ma questa scelta rientra in un trend che già da anni ha visto diffusamente riemergere nella musica africana delle ultime generazioni – in particolare nell’hip hop più orientato politicamente e culturalmente, ma non solo – la memoria di grandi personaggi emblematici dell’era delle indipendenze africane.

L’Africa di oggi offre uno spettacolo assai meno esaltante di quello della stagione delle lotte per l’indipendenza, con alla testa leader carismatici e pronti a sacrificare la propria vita: le speranze di allora sono andate in gran parte deluse, e non è un caso che nel continente i giovani più consapevoli sentano il bisogno di cercare ispirazione in alcuni dei grandi protagonisti che hanno guidato l’Africa verso un orizzonte di libertà, verso la fine del dominio coloniale.

Uomini che – salvo il caso di Thomas Sankara – sono della generazione dei loro nonni o bisnonni piuttosto che di quella dei loro padri: come se si fosse saltato quasi completamente un giro. E come se si avvertisse la necessità di ricominciare dall’epoca delle indipendenze, e da certe figure di quell’era, dalle figure più radicali e più intransigenti: dunque leader come Kwameh Nkrumah, Sekou Touré (badando più al suo storico “No” a De Gaulle che al suo successivo dispotismo), Amilcar Cabral, Samora Machel, Nelson Mandela, e appunto Sankara, e intellettuali/militanti come Aimé Césaire, Cheikh Anta Diop, Frantz Fanon.

In Ngwa, il brano di apertura, Bassy canta la sua ammirazione per Nyobé; in Maqui racconta un episodio della sua lotta; in Mpodol chiede di rendere conto di quello che ha fatto a chi dopo l’indipendenza avrebbe dovuto amministrare l’eredità politica e morale di Nyobé e non se ne è mostrato degno.

Per un musicista camerunese, per quanto residente in Francia, già esprimersi in questi termini è di per sé piuttosto audace: nei primi trent’anni dopo l’indipendenza in Camerun è stato proibito evocare Nyobé, la cui immagine rimane tutt’ora sfuocata agli occhi delle giovani generazioni camerunesi. Spingersi oltre, parlare direttamente dei drammi del Camerun dell’eterno Paul Biya, oggi ottantasettenne, presidente da quasi quarant’anni, può costare caro: per la sua canzone Constitution Constipée, Lapiro de Mbanga (morto poi nel 2014) rimase in galera, in condizioni durissime, dal 2008 al 2011.

Foto | Wikipedia

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    Marcello Lorrai
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    Referendum 8 e 9 giugno, lavoro e cittadinanza. Una quarantina di personalità della ricerca e dell’università hanno lanciato un appello al voto per i cinque referendum. I quesiti chiedono di: «Vivere da cittadini», riducendo da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale in Italia richiesto per ottenere la cittadinanza italiana ai maggiorenni stranieri; «Vivere vite meno precarie», riducendo la possibilità di usare contratti di lavoro a tempo determinato; «Lavorare senza licenziamenti illegittimi», riducendo le possibilità di licenziamenti senza giusta causa; «Lavorare senza discriminazioni», riducendo le possibilità di licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese; «Lavorare senza infortuni», riducendo i rischi di incidenti e morti sul lavoro. Ospiti di Pubblica, per parlare di partecipazione, due firmatari/e: Filippo Barbera, sociologo dell’università di Torino e Donatella Della Porta, scienziata politica alla Scuola Normale Superiore di Firenze. Diverse le domande. E’ arrivato il momento di abbassare la soglia del 50% di partecipazione per rendere valido il referendum? Perchè fallisce la partecipazione? Quanto c’entra la complessità del quesito, la credibilità dei proponenti? «Non possiamo arrenderci all’assenteismo, ad una democrazia a bassa intensità», ha detto il presidente Mattarella per il 25 aprile. Il capo dello stato ha lasciato, però, inesplorate le ragioni profonde dell’astensione, ragioni che risiedono anche nell’impoverimento sociale, oltre che economico, del lavoro. Ha scritto la studiosa, dirigente dell’Istat, Linda Laura Sabbadini: «Il lavoro non è solo un mezzo per guadagnarsi da vivere: è la base della coesione sociale di un paese».

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